La capitale spagnola è fuori controllo. Schiacciata dal braccio di ferro tra poteri locali e Sánchez

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Madrid è nel caos e sta scrivendo in questi giorni pagine che si ricorderanno come una catastrofe colossale. Non solo sanitaria, ma anche sociale, economica e politica. La frattura ad alta tensione tra destra e sinistra accompagna una tremenda scollatura tra società, politica ed istituzioni. Si distingue per ora solo un chiaro vincitore in queste settimane a Madrid: il Covid19. Il virus ha invaso la capitale mettendo a nudo le crepe politiche, strutturali e culturali della Spagna. E quello che accade a Madrid è il paradigma della politica spagnola. Dopo la prima ondata, il capo del governo Pedro Sánchez ha voluto una riapertura accelerata per non perdere il treno del turismo, l’industria più florida in Spagna, e a maggio ha ceduto la gestione della pandemia alle comunità autonome. Ma è andata male subito. In preda al delirio estivo, molte regioni superavano già i livelli di allarme dei contagi, ma non sono state adottate contromisure efficaci. E ora si viaggia sugli oltre dodicimila nuovi contagi al giorno, quattromila solo nella capitale, più di cinquecento morti a settimana. I cittadini sono attanagliati dall’incertezza e dalla confusione, tra i parchi sbarrati, metrò sovraffollate e il divieto di uscire dal perimetro urbano.

A capo della Comunità Autonoma di Madrid c’è Isabel Diaz Ayuso, 42 anni, cresciuta nel vivaio della ex leader thatcheriana Esperanza Aguirre, del Partito Popolare. Nel 2015 Ayuso gestiva l’account Twitter della cagnolina di Aguirre, poi ha consumato la scalata a presidentessa. I suoi detrattori la chiamano con l’acronimo “Ida”, ossia “pazza”. Nei quartieri della capitale l’incidenza del virus ha superato in queste settimane di sedici volte, e in alcune zone anche di quaranta volte, il limite critico dei cinquanta contagi per ogni cento mila abitanti. Il 21 settembre Sánchez ha incontrato la Ayuso, lasciando un messaggio nel libro delle visite, «L’unione fa la forza». Una vana invocazione. Da quel giorno la Spagna ha assistito ad un triste valzer di accordi disattesi tra il ministro della salute Salvador Illa, un filosofo con esperienza politica nel comune di Barcellona, e la Ayuso. È seguito il caos: l’epidemiologo Emilio Bouzo, a capo della task force madrilena contro il Covid, si è dimesso dopo appena 48 ore dalla sua nomina. Pochi giorni dopo si è dimesso il consigliere delle politiche sociali della regione di Madrid, Alberto Reyero, del partito Ciudadanos, lasciando un messaggio alla presidentessa: «Serve unità tra le istituzioni per vincere il virus».

La strategia adottata dal PP e da Ayuso non prevede lockdown perché costerebbero troppo a livello economico. «Ma senza sanità, non esiste economia», ha ribattuto Sánchez, che ha imposto il divieto di entrare o uscire dalla capitale. Ayuso ha fatto ricorso al Tribunale Superiore di Giustizia che lo ha accolto motivandolo così: «Il governo dovrebbe promulgare una legge per stabilire le competenze della sanità in casi di emergenza». Per Ayuso una vittoria. Dopo venti giorni di valzer però si è ritornati al punto di partenza. Il governo, in un consiglio dei ministri straordinario, ha tagliato corto: «Lo stato di allarme è l’unica soluzione per Madrid», ha tuonato Sánchez. Anche se i dati del Covid nella capitale hanno poi iniziato a dare timidi segnali di decrescita, «si avvicina l’inverno e i livelli sono ancora troppo alti», ha spiegato il ministro Illa. Lo strumento costituzionale dello stato di allerta permette al governo di adottare le restrizioni, ma solo per quindici giorni prorogabili con l’approvazione del parlamento. In primavera per sei volte si votò il prolungamento dello stato di allarme nazionale prima del ritorno alla “nuova normalità”, di breve durata.

Ma perché in Spagna in una situazione di emergenza non si riesce a collaborare? «Questo si deve anche alla strutttura dello Stato», risponde all’Espresso il ministro della salute Salvador Illa: «Il governo ha un ruolo di aiuto e di coordinamento, ma in ambito sanitario la parte attiva appartiene alle comunità autonome». Aggiunge Ramón Jáuregui, ex ministro del Psoe: «Lo spettacolo deplorevole che si è visto a Madrid nasce da due problemi. Intanto, dalla fine del bipartitismo, nel 2005, assistiamo a enormi fratture tra i partiti e a una grande instabilità per la mancanza di regole che permettano la governabilità. Il secondo motivo è il funzionamento anomalo del modello territoriale tra municipi, comunità autonome e governo centrale, che porta, in mancanza di una cultura istituzionale, di fare ordine solo con l’imposizione». Secondo il filosofo Fernando Savater invece il responsabile della situazione di crisi è «il governo centrale, incapace di governare con alleati pericolosi come Podemos e gli indipendentisti». Continua Savater: «Adesso Sánchez scarica la colpa sulla Comunità autonoma solo perché ha un diverso colore politico».

Di certo Madrid soffre, sfiduciata e divisa. L’arteria più grande della capitale, la Gran Vía, mostra mestamente il 30 per cento delle serrande abbassate. Nei quartieri si affaccia lo spettro della fame e crescono le famiglie alimentate dal Comune. I tagli continui alla sanità peggiorano le prospettive: mancano seimila medici, a Madrid circa mille. La depressione e i suicidi sono al centro del dibattito da mesi. Il governo ha annunciato che schiererà settemila militari e 1.800 “tracciatori” per fare fronte ai nuovi focolai. Si vogliono assumere migliaia di medici precari ed una task force chiamata “Covid19” seguirà da vicino la pandemia, con aggiornamenti settimanali, mentre una commissione indipendente dovrebbe valutare i progressi nella lotta contro il virus. Tutte misure però che sembrano essere state attivate troppo tardi - e mentre l’epidemia ha già messo in ginocchio la capitale.