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Mondo
ottobre, 2020

Una religione che si chiama Cina (di Simone Pieranni)

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Ma Huateng è diventato il cinese più ricco, la sua super-app WeChat modella la società. Ma per mobilitare le masse contro il virus, il regime è ricorso ad armi antiche: l'orgoglio nazionalista, i valori, Confucio e Mao

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WeChat
Durante i mesi del coronavirus, Ma Huateng, basso profilo, co-fondatore di Tencent, classe 1971, è diventato l’uomo più ricco della Cina superando Jack Ma, istrionico fondatore di Alibaba, colosso mondiale dell’ e-commerce, classe 1964. Durante il lockdown Alibaba ha segnato perdite ingenti, perché in Cina si è fermato tutto. Nello stesso periodo il mercato dei videogiochi è cresciuto del 31%. E Ma Huateng (noto anche come Pony Ma, perché il carattere “Ma” significa “cavallo” in cinese) è anche azionista di un gigante dei videogames. A dire il vero da tempo Ma Huateng (patrimonio 50 miliardi di dollari) stava erodendo il potere economico di Jack Ma (patrimonio 38 miliardi di dollari), soprattutto da quando nel 2011 ha creato WeChat, la super-app che Trump vuole bloccare negli Usa (con la gioia di Zuckerberg, patrimonio da 96 miliardi di dollari) e senza la quale ormai in Cina non si può stare. Con WeChat si compra on e off line, si discute, si postano commenti, foto, video e si fa l’elemosina. Ci si sposa, si divorzia, si pagano le tasse, funziona come documento di identità. WeChat è stato un evento rivoluzionario tale da plasmare la società cinese, ormai cashless, iper tecnologica, costantemente connessa. Ma Huateng è figlio del processo che ha portato la Cina a diventare una potenza hi-tech e il suo essere understatement sembra garantirgli l’equilibrio che serve nella Cina di Xi Jinping. Con l’attuale leader, infatti, dopo il decennio di tecnocrati, è tornata anche la politica e il controllo ideologico ovunque. Arricchirsi è (diventato) pericoloso.

Ma Huateng però è ben piantato per terra, con fondamenta che arrivano fino a Shenzhen, villaggio trasformato in metropoli dalle esportazioni cinesi, dove si è laureato in Scienze informatiche nel 1993. All’epoca in Cina c’era un computer ogni cento persone. Per lui c’era un posto in prima fila nel boom tecnologico di metà anni ’90. Cercapersone, messaggistica e poi WeChat. Mobilità sociale, meritocrazia? Non tanto.

Il padre di Ma Huateng era un funzionario di un’azienda statale (sarà un suo amico imprenditore a Hong Kong a finanziare la Tencent), la madre una combattiva avvocata che sarebbe diventata la responsabile legale dell’azienda. Una famiglia non politicamente aristocratica, ma devota al socialismo di mercato e ai guanxi, alle relazioni, la pietra angolare della società cinese. Ma Huateng, al contrario di Jack Ma che l’ha pubblicamente ammesso, non si sa se sia iscritto o meno al Pcc. Di sicuro è delegato dell’Assemblea nazionale popolare; ha anche accettato ogni forma di intrusione governativa perché WeChat rispettasse la censura imposta dal Pcc. Parla poco ma in un’intervista al Quotidiano del Popolo, l’organo ufficiale del partito, ha detto che la sua carriera dipende dalla fortuna. «Dalla fortuna portata da una nuova era», ha aggiunto. Quella della Cina potenza tecnologica mondiale.

Mobilitazione di massa
Durante i mesi del coronavirus i cinesi si sono mobilitati. Volontari, vecchietti con le fasce rosse al braccio, chi ha messo a disposizione la propria auto per i medici, chi ha aiutato a gestire il lockdown nei diversi compound e chi ha aiutato il Partito a controllare tutto quanto poteva essere controllato. Dopo i primi giorni di stordimento, angoscia e rabbia nei confronti dei ritardi del governo nel raccontare quanto stesse realmente accadendo, i cinesi si sono ritrovati impegnati in una mobilitazione di massa di natura storica. Il fatto non era scontato in un paese che ospita 56 etnie, differenze regionali notevoli (su un territorio che è trenta volte l’Italia) dove perfino linguisticamente a volte ci si stenta a comprendere. Non bastassero questi pochi elementi nei quali risiede anche, secondo alcuni studi sinologici, la complicazione di usare il termine “nazionalismo” applicato alla Cina, ci si sono messi anni di trasformazioni epocali che hanno sconquassato una certezza via l’altra. Confucio, Mao, Deng, il capitalismo, le metropoli, la tecnologia.
Simone Pieranni

Vecchiumi, modernizzazioni, rincorse e affanni, per poi tornare al centro del mondo ma senza sapere bene per fare cosa. Un sinologo gigantesco come Simon Leys sosteneva che i cinesi una religione in realtà ce l’abbiano e si chiama Cina. Lo sapeva bene Mao che su questo sottofondo ha innescato la sua marcia di riscatto dopo le umiliazioni patite dal paese. Contadini, certo, ma anche tanta Cina: quando Mao si affaccia sulla Tian’anmen ad annunciare la nascita della Repubblica Popolare dice «Alziamoci in piedi!» e parla alla Cina. E Xi Jinping per colmare i vuoti, ha riscattato proprio Mao, messo in soffitta dai tecnocrati devoti a Deng Xiaoping e al mercato. Prima ha definito la lotta al Covid una “guerra popolare”, poi ha riportato in auge il concetto maoista di “guerra prolungata” e infine ha schiacciato sull’acceleratore della capacità del Partito di arrivare ovunque, attivando le persone. Quando in Italia si parlava di “modello cinese” ci si riferiva solitamente al lockdown duro, al forte controllo e all’uso di tecnologia avanzata.

Ma tutto questo non sarebbe bastato senza un sistema valoriale che mischiando Mao e Confucio rende ogni cinese un ingranaggio, il cui unico scopo è non inceppare la macchina collettiva. Impegnarsi perché la Cina possa superare il momento di difficoltà. Era già accaduto in Sichuan nel 2008 quando un terremoto provocò migliaia di vittime. È accaduto con il coronavirus: ogni persona ha fatto quanto sentiva di dover fare. Volontari a misurare la temperatura, a portare cibo agli anziani, a scortare medici e materiale medico. Tutta la società cinese è stata coinvolta in un’estenuante mobilitazione proseguita anche dopo il lockdown. Quando l’economia nazionale ha rischiato la crisi, sono tornati i consumi patriottici a dimostrare quell’orgoglio che il Partito sa bene come fomentare. E anzi, questa straordinaria capacità di consumare in casa ha dato a Xi un’altra idea, sempre rubacchiata a Mao, ovvero l’“autarchia autosufficiente”. Un’altra freccia all’arco della “nuova era” cinese. Quella di Xi Jinping.

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