Nel ghetto per sempre: come vivono queste elezioni gli afroamericani del South Carolina
"Il razzismo? Lo viviamo ogni giorno". "Trump? Non è un essere umano". Viaggio a un mese dal voto nello stato del Sud
La mattina in cui il suprematista bianco Dylann Roof varcò la porta della Emanuel African Methodist Episcopal Church, di Charleston, lo fece per uccidere. Sembrava una giornata di giugno come tante altre, in South Carolina. Poi Roof, 21 anni, tirò fuori la sua pistola calibro 45 e iniziò a sparare. Uccise sei donne e tre uomini, compreso il reverendo Clementa Pinckney. «Ricordo quella giornata come se fosse ieri, ero a casa. Ci chiamarono dicendoci che stava succedendo qualcosa in chiesa. Cambiammo canale in tv e capimmo», ricorda oggi Elija Heyward III, direttore dell’International African American Museum di Charleston. «Mi sentivo svuotato, privo di speranze. Ma quella sparatoria ha risvegliato diverse coscienze».
Dopo quel giorno, il progetto del museo ha subito un’accelerata proprio in seguito alla sparatoria: «La strage ha convinto le istituzioni a velocizzare il processo», spiega Heyward III, nato a circa 70 miglia a sud di Charleston. Ma a distanza di cinque anni, l’America continuano a fare i conti con lo stesso peccato originale di sempre, la schiavitù. E a viverne le conseguenze sono sempre loro: gli afroamericani. «È come se vivessimo tra due sistemi di giustizia, due sistemi educativi, due sistemi economici ombra. Uno è destinato a noi neri», denuncia all’Espresso Jannie Harriot, 77 anni, attivista e direttrice della South Carolina African American Heritage Commission. Cresciuta ad Hartsville, seimila anime a nord-ovest dello stato, è una combattente dei diritti civili da decenni. «Andavo in università negli anni ’60, chiedendo giustizia per le stesse cose di oggi. Come si può accettare che io venga considerata minore solo perché nata di questo colore?», dice, sguardo fisso e tono severo. «Siamo stremati dal chiedercelo».
Per capire come la comunità nera si affacci al voto del 3 novembre, non si può non partire da qui, dal South Carolina, dove quel peccato originale si consumò molto più che altrove, anche dopo il 1865, quando la schiavitù venne abolita. È in South Carolina che venne approvato il Negro Act of 1740, una legge che rendeva illegale per gli africani schiavizzati lasciare la propria colonia, guadagnare denaro, imparare a scrivere, e permetteva ai colonizzatori di uccidere gli schiavi ribelli. È sempre il South Carolina il luogo dove, nel 1860, vivevano 400 mila dei 4 milioni di schiavi presenti negli Stati Uniti: il 10 per cento. Charleston era la capitale presente sulla cartina di ogni capitano che all’epoca affrontava la tratta transatlantica, in quegli anni.
«Il razzismo è sistematico, penetra in ogni meccanismo della società», spiega Harriot. A sentire lei, quanto fatto negli ultimi quasi trecento anni non è abbastanza. Non lo sono stati nemmeno i due mandati della presidenza di Barack Obama, che proprio alla Emanuel Church pronunciò uno dei discorsi più intensi della sua presidenza, cantando “Amazing Grace” durante l’eulogia funebre delle nove vittime. Ogni volta che esce di casa, da allora, Harriot pianifica il percorso a piedi o in macchina che dovrebbe fare, riflettendo sui movimenti da non compiere per evitare di attirare l’attenzione. «Mi è stato insegnato così fin da bambina, lo faccio come difesa».
Negli ultimi mesi, Harriot è stata l’ideatrice di un’iniziativa dal titolo Black Carolinians Speak: Portraits of a Pandemic. «È una raccolta delle esperienze vissute dagli afroamericani durante il Covid: per l’Influenza Spagnola del 1918 c’erano solo pochi dati d’archivio, così abbiamo deciso di raccoglierne ora», dice. Anche perché gli afroamericani sono la comunità che più di tutte, assieme a quella ispanica, sta pagando lo scotto della pandemia. Secondo il database dei Centers for Disease Control, 62 neri ogni 10 mila abitanti hanno contratto il virus, quasi il doppio rispetto alla media del Paese (38), quasi tre volte tanto rispetto ai bianchi (23). E gli afroamericani sono stati ricoverati 4,7 volte in più della media per Covid, perdendo la vita due volte più degli altri.
«È stato come scoperchiare una realtà malata: la pandemia ci ha fatto vedere cosa c’era già sotto», dice a L’Espresso Bobby Donaldson, professore di storia a South Carolina University. «Gli afroamericani continuano a vivere in condizioni sanitarie precarie e il virus ha banchettato».
L’uccisione, il 25 maggio scorso, di George Floyd che ha perso la vita sotto il peso del ginocchio di un agente di polizia bianco, è stata la miccia di una situazione di disagio sociale che vede la comunità nera in lotta da decenni. Prima contro la schiavitù, poi contro la segregazione, ora contro le disuguaglianze. «Nel 1955, fu l’orrenda fine di Emmett Till in Mississippi a risvegliare il Paese», spiega il professore riferendosi all’uccisione del 14enne linciato dalla folla nella cittadina di Money, reo di aver risposto male alla cassiera bianca di un supermarket. «Floyd è il Till di oggi, Minneapolis ha preso il posto di Money. Ma il problema di fondo rimane». Rispetto ad allora, però, l’America è scesa tante volte in piazza per i diritti civili. Ha già celebrato il primo Presidente nero della storia del Paese nel 2008. È tornata a occupare le strade nel 2015, proprio in South Carolina, dopo la sparatoria di Charleston. Ha riscoperto le piazze di tutta America dopo l’uccisione di George Floyd. Cosa fare di più? «Sembra che nulla sia abbastanza», dice Harriot.
Secondo un sondaggio Yahoo News/YouGov, a credere che nella morte di George Floyd la discriminante sia stata la componente razziale è stato il 61 per cento degli americani, l’87 per cento dei Democratici interpellati, ma solo il 39 per cento dei Repubblicani. Nonostante sondaggi come questo dimostrino come la questione urti sensibilità di partito diverse, e nonostante il fatto che il 27 per cento della popolazione in South Carolina sia afroamericana, questo stato continua a essere saldamente nelle mani dei conservatori. «Qui non si è mai persa la tradizione politica che ha origine nella generazione dei conservatori neri legati ad Abraham Lincoln, dopo l’abolizione della schiavitù, spiega il professor Davidson. E il risultato di questa tradizione sembra essere oggi Tim Scott, unico senatore afroamericano dei Repubblicani che siede al fianco di Lindsey Graham, politico bianco, controverso e al Senato dal 2002.
«L’accesso al voto sarà un fattore-chiave e durante il Covid-19 sta destando tante preoccupazioni», spiega Jason L. Cummings, Assistent Professor di Sociologia all’Università di South Carolina. Per votare negli Usa si deve seguire un processo di registrazione che spesso risulta complicato per le minoranze del Paese. E il caos relativo al voto per posta, per evitare assembramenti nell’anno della pandemia, con Trump che ha già gridato alle frodi senza prove, preoccupa. «Se questi problemi non verranno risolti entro novembre, rischiamo di ripetere quanto successo nel 2000», quando per il risultato finale delle elezioni tra Bush e Al Gore il Paese dovette attendere più un mese. «Spero di sbagliarmi».
Al momento, i sondaggi dicono che le proteste non stiano spostando il voto per la Casa Bianca, in South Carolina. Joe Biden è politicamente risorto qui, alle primarie, grazie al voto degli afroamericani e al supporto di Jim Clyburn, guru per i Dem afroamericani, dal 1993 al Congresso. Ma Donald Trump è ancora avanti di 5 punti percentuali nello stato, secondo le rilevazioni di FiveThirtyEight. E il Presidente nelle prossime settimane si giocherà la carta dell’economia: sotto la sua amministrazione, prima della pandemia, il tasso di disoccupazione era sceso al del 5,5 per cento, il più basso della storia del Paese.
«L’importante è andare a votare: Joe Biden è un essere umano decente. L’altro no», dice ancora Jannie Harriot, che non si dice emozionata dalla scelta di Kamala Harris come sua vice. «Non è come nel 2008 con Obama». Anche se nello stato, negli ultimi cinque anni sono stati fatti grossi passi in avanti sul tema della sensibilizzazione. Il South Carolina sembra infatti aver iniziato ad affrontare il proprio passato, almeno a Charleston. Oltre all’apertura del museo internazionale, dal 2015 la piantagione McLeod, una delle più grandi della regione, che dal 1851 ha costretto ai lavori forzati centinaia di schiavi in arrivo dall’Africa, è diventata ufficialmente un sito storico, dove si educano le persone con tour guidati su cosa luoghi come questi abbiano significato per centinaia di famiglie nere. «Quando affrontiamo la questione dell’identità, i bianchi che ascoltano tendono ad andare in crisi», dice Shawn Halifax, che bianco lo è, coordinatore culturale del sito. «È come se a volte rinnegassimo il passato che ha visto gli altri compiere gesti orribili, perché non è personalmente colpa nostra», spiega. Il che è vero: «Ma ci sono afroamericani che vivono a Charleston in case a due passi da questa piantagione, dove magari i loro bisnonni erano in catene. Così come ne sono influenzati loro, non possiamo non esserlo noi».
Negli ultimi anni Halifax ha visto sempre più bianchi affacciarsi alla piantagione per conoscerne la storia. «Ma mi sembra siamo a corto di soluzioni concrete», denuncia Jannie Harriot. Un suo nipote, giornalista in Alabama, durante gli scontri delle scorse settimane è stato arrestato mentre faceva il suo lavoro: «Era l’unico nero di un gruppo di cinque reporter e hanno portato in carcere solo lui». Sul futuro delle generazioni a venire, l’attivista prova un mix di speranza e timori. «Ora possiamo salire sugli stessi autobus ed entrare nelle stesse classi a scuola», dice Harriot. «Ma a cosa serve, se poi avremo meno opportunità degli altri perché siamo neri?».