La destra americana è il simbolo del populismo plutocratico
Le politiche economiche sempre a favore dei più ricchi, il rancore razziale agitato per ottenere consenso, il sistema elettorale che danneggia i democratici. Parla il politologo Paul Pierson
I partiti conservatori si sono spesso trovati di fronte a un bivio: accettare l’idea di moderare la propria agenda economica per raccogliere i consensi necessari a vincere le elezioni, oppure soffiare sul fuoco delle paure e del risentimento. “Let Them eat tweets”, “Che mangino tweets”, titolo geniale del nuovo libro di Jacob Hacker e Paul Pierson, scienziati politici che insegnano a Yale e Berkeley, parte da questo «dilemma dei conservatori» per raccontare come il partito repubblicano abbia scelto la strada peggiore. E il fenomeno Trump, secondo gli autori, non è in nessun modo uno strappo, ma una conseguenza naturale di dinamiche che risalgono alla metà degli anni ‘90. I due scienziati politici, che sulla destra Usa hanno scritto diversi volumi, definiscono questa politica (che regala bonus fiscali ai ricchi, elimina regole e foraggia l’estremismo di destra), “populismo plutocratico”.
Professor Pierson, quando e come è cominciato tutto questo? «Il partito repubblicano non è sempre stato quel che è oggi. Nel libro facciamo l’esempio di Richard Nixon, che sebbene abbia alimentato le tensioni razziali per generare consenso negli Stati del Sud, dal punto di vista economico era più a sinistra di qualsiasi eletto repubblicano contemporaneo. Qualcuno forse oggi definirebbe la sua proposta di riforma sanitaria “socialdemocratica”. Nixon cercava persino un rapporto con i sindacati. A partire dalla metà degli anni ‘90 le cose cambiano. Se dovessimo individuare una figura chiave per spiegare il Grand Old Party di oggi, direi che non è certo Ronald Reagan ma Newt Gingrich, lo speaker della Camera tra 1995 e 1998. Gingrich organizzò una rivolta contro Bush senior perché questi cercava un dialogo con i democratici in Congresso e inaugurò la strada della polarizzazione estrema, mettendo in dubbio la lealtà democratica degli avversari politici. Naturalmente Gingrich era il portato di dinamiche politiche che attraversavano il partito: in quegli anni le talk radio conservatrici crescevano in maniera esponenziale, mentre la lobby delle armi, la National Rifle Association, e gli evangelici divenivano progressivamente colonne portanti del consenso repubblicano. Gingrich e i suoi collaboratori, molti dei quali divenuti figure centrali del partito negli anni successivi, cementarono anche le alleanze con le organizzazioni delle imprese. La Camera di Commercio, oggi alleata dei repubblicani, era favorevole alla riforma sanitaria proposta da Clinton, ma Gingrich lavorò per cambiare gli equilibri interni all’associazione imprenditoriale, che cambiò gruppo dirigente e ribaltò la propria posizione. Da allora la alleanza tra populisti e plutocrati è un dato di fatto. Un secondo momento chiave viene nelle primarie del 2000. John McCain proponeva una riforma delle tasse favorevole alla middle class e una riforma del sistema di finanziamento della politica, alla sua destra correva George W. Bush. In quell’occasione migliaia di persone che votavano in South Carolina, ricevettero una telefonata di un sondaggista che chiedeva: “Votereste per McCain sapendo che sua moglie è drogata e la figlia adottiva è in realtà una figlia illegittima (la bambina è del Bangladesh, quindi il sottotesto era “McCain infedele con donne di colore”, ndrR). Bush vinse le primarie e dopo di allora quello stile di condurre la battaglia politica divenne preponderante. Dalla presidenza Bush in poi le forze che spingono il partito verso il populismo plutocratico non fanno che crescere».
Perché “plutocratico”? Non basta definirlo “populismo”? «C’è una differenza tra il populismo europeo di questi anni e quanto succede negli Stati Uniti. Qui da noi si combinano l’anti elitismo, l’individuazione di nemici, il nazionalismo bianco e il conservatorismo religioso, ma queste cose si accompagnano a politiche economiche così a favore dei ricchi che nessuno ha il coraggio di adottarle altrove. Non c’è un Paese occidentale diseguale come gli Stati Uniti e la verità è che se descrivessimo alcune delle politiche economiche adottate dai repubblicani negli ultimi decenni agli elettori, questi reagirebbero dicendo: “ma no, non è possibile che abbiano davvero fatto queste cose”. I tagli alle tasse di Trump sono andati al 60 per cento al 20 per cento più ricco della popolazione ma lo slogan è “il più grande taglio delle tasse della storia” mentre le proposte repubblicane in materia di Sanità priverebbero 20 milioni di persone dell’assicurazione ed eliminerebbero il divieto contenuto in Obamacare di penalizzare chi ha cronicità. Ma negli spot elettorali la promessa è quella di non cambiare nella direzione che le proposte scritte indicano».
Ma come è possibile convincere i milioni della working class bianca che danno il loro consenso ai repubblicani nonostante certe politiche economiche? «I ricchi da soli non fanno vincere le presidenziali, era necessario generare consenso altrimenti. Come? Generando allarme e risentimento attorno a una serie di questioni sociali. Ci sono diversi precedenti storici, specie in periodi di grandi diseguaglianze. Nel contesto americano, nel quale i partiti sono leggeri e non hanno la capacità di generare partecipazione, servivano alleanze con gruppi che avessero quella capacità. In questo senso il partito repubblicano ha dato le chiavi di casa all’alleanza che si è formata nel tempo tra ricchezza e organizzazioni conservatrici come la NRA o le chiese evangeliche. Parallelamente, a fare da cassa di risonanza c’erano i media di destra, la galassia delle talk radio e dal 1996, FoxNews, che ha creato un business model vincente basato sul promuovere la rabbia e creare bolle nelle quali la gente ascolta solo un tipo di messaggio. Naturalmente questa alleanza non è frutto di una decisione presa durante una riunione, ci sono forze che spingono in questa direzione e c’è chi frena. Ma le forze plutocratiche nel partito repubblicano diventano sempre più forti ed è sempre più difficile per chi è contrario deviarne il tragitto. Al fondo credo che alla radice di tutto questo ci sia un progressivo smottamento del potere economico in America negli ultimi 50 anni che i repubblicani hanno deciso di adottare e promuovere. Poi c’è il progressivo collasso dei sindacati, che ha pesato moltissimo».
Se il messaggio funziona, però, vuol dire che c’è anche una quantità di gente disposta ad ascoltarlo.... «Se Trump ha vinto vuol dire che sottovalutavamo il livello del rancore razziale nell’elettorato bianco. Assieme al trasferimento di potere economico verso l’alto, il passaggio dalla società a netta predominanza bianca a una società mista è stato un fattore che ha turbato nel profondo quei bianchi che non hanno altri vantaggi se non la razza, chi ha studiato meno e vive in aree meno dinamiche. Noi però pensiamo che sia riduttivo quel che i media tendono a fare dicendo “è colpa delle diseguaglianze e dell’ansia economica”, oppure “è colpa del rancore razziale”. La verità è che è emersa una politica identitaria di destra che fa una macedonia di diversi ingredienti che si sommano, diventando molto più potenti di quanto non lo siano presi singolarmente. L’emergere della rabbia, che sia collegata alla difesa del possesso di armi, che sia quella alimentata dai media o che sia per motivi religiosi, ha spesso come sottofondo la questione razziale ma non basta. Gli evangelici ad esempio sono convinti che la loro fede e il loro modo di vivere siano minacciati. La maggioranza degli americani non si occupa granché di politica e così tende a recepire quel che sente. E molto di ciò che le persone ascoltano è generato dall’alto, dalle organizzazioni che ho citato e dall’ecosistema mediatico che fa loro da grancassa. Queste organizzazioni sanno usare al meglio le inquietudini e paure di certe fasce della popolazione relative alla trasformazione demografica della società e dalle opportunità che diminuiscono. Ma la forma regressiva presa da queste inquietudini è il prodotto di un lavorìo dall’alto e non solo dei sentimenti nella pancia della classe lavoratrice bianca».
E i democratici? Non hanno anche loro un problema di eccessiva vicinanza a certi poteri economici? «I democratici hanno come primo problema quello di fare i conti con un sistema politico che li sotto-rappresenta: dal 1988 i repubblicani hanno vinto tre volte su sette le presidenziali e solo in un caso hanno preso più voti. Questa struttura istituzionale implica anche che l’unico modo che i democratici hanno per vincere le elezioni è avere una coalizione ampia che raccolga anche un consenso moderato. I repubblicani possono vincere la Casa Bianca o il Senato con il 45 per cento, ai democratici serve il 55. Questa necessità si traduce in un partito meno omogeneo, che richiede un tasso più alto di moderazione. C’è una religione civile accettata dalla maggioranza che narra l’idea che abbiamo un sistema politico perfetto, nonostante sia invece disfunzionale. Riforme politiche sono cruciali perché oggi il sistema sembra costruito per impedire risposte agli enormi problemi del Paese. Ma il sistema è anche pensato per non essere cambiato. Quindi, nonostante si parli di superamento del collegio elettorale o di aumentare il numero di seggi alla Corte Suprema, l’unica cosa che forse cambierà è la regola del filibuster (l’ostruzionismo ad oltranza, ndr). Il fatto è che la religione civile è anche condivisa da molti senatori democratici anziani - e perfino dal candidato presidente. Costoro conservano la memoria di un modo di fare politica in Congresso che non c’è più, spazzato via dalla polarizzazione attuale».