Siamo tutti dio, Donald e famiglia: ecco gli evangelici che votano (quasi tutti) Trump
Quattro anni fa lo hanno scelto in massa. Ma oggi, dopo la pandemia, c’è chi si è pentito
Nel villaggio di New Freedom, 5mila anime a sud della cittadina di Lancaster in Pennsylvania, il reverendo protestante Mitchell Hescox capì fin da subito che la crisi del coronavirus si sarebbe ritagliata un ruolo drammatico. Quando ha visto un numero crescente di fedeli continuare a fingere che il problema non ci fosse, ha deciso di intervenire. «Tra i protestanti c’è stato a lungo il sentore che fosse un’invenzione dei media, invece la pandemia è reale eccome», dice all’Espresso Hescox, che a New Freedom ci vive e ricopre il ruolo di presidente dell’Evangelical Environmental Network negli Stati Uniti. Lui però non è mai stato tra gli scettici: «Ho percepito il potenziale devastante di questo virus ai danni della nostra comunità fin da subito e iniziato a sensibilizzare quante più persone possibile». Anche perché in primavera, a New Freedom come nel resto della Pennsylvania rurale, decisiva per il voto del 3 novembre, la malattia Covid-19 ha mostrato il conto da pagare. Prima i ricoveri in ospedale e le lunghe file per i test. Poi i posti di lavoro persi e le terapie intensive intasate. Infine, i decessi. «Abbiamo capito che quanto detto dal presidente Trump fosse falso: il virus non è una semplice influenza».
Capire il mondo degli evangelici negli Stati Uniti non è facile. Le differenze in questa comunità religiosa sono diverse e variano a seconda dello stato in cui ci si trova. Ma per comprendere le loro intenzioni di voto, in un Paese dove un americano su tre si riconosce come evangelico, è sufficiente guardare cosa accadde nel 2016, quando supportarono in massa Donald Trump: quattro su cinque, tra i bianchi protestanti, votarono per lui, secondo gli exit poll. «Ma non dobbiamo vederli come numeri sorprendenti, anche Romney nel 2012 vinse il voto dei protestanti bianchi in modo schiacciante, perdendo le elezioni», spiega Candy Brown, professoressa di religione all’università di Bloomington, nel cuore dell’Indiana che ha dato i natali all’attuale vice presidente statunitense, Mike Pence. «Gli evangelici scelgono Trump per difendere tre battaglie: matrimonio tradizionale, lotta all’aborto, libertà religiosa». L’ufficio della professoressa e quello del reverendo Hescox sono separati da circa 700 chilometri, collegati soltanto dalle infinite strade statali nel verde del Midwest. Ma c’è un aspetto che accomuna il pensiero degli evangelici d’America di questi due stati: il giudizio sulla gestione del coronavirus da parte del Presidente Trump, considerata pessima anche nell’America conservatrice di Hescox. «Non credo però che questo possa stravolgere in modo radicale le intenzioni di voto di questa comunità», spiega ancora la Brown. Il Presidente infatti, considerato da molti evangelici come peccatore per la sua vita di eccessi, ha dalla sua un risultato che lo pone di diritto sopra ogni suo peccato: la nomina dei tre giudici della Corte Suprema, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett, in tre anni e mezzo. «Sono destinati a cambiare il Paese verso destra sui temi che gli evangelici hanno loro a cuore», dice la Brown. Negli Stati Uniti dove i giudici della Corte Suprema ricoprono quel ruolo fino alla morte, sceglierne tre su nove in un solo mandato significa dettare la direzione del Paese per decenni. E a tremare ora, con la nomina della Barrett, sono sentenze storiche mai digerite dagli evangelici come la Roe v. Wade, uno dei capisaldi più importanti sulla legislazione relativa all’aborto, dal 1973.
Ma c’è di più. Perché nelle contee rurali ultra-conservatrici della Pennsylvania, al confine con il Delaware a sud così come a New York a nord, la religione si intreccia con gli scontri generazionali. «Ho sbagliato a seguire l’esempio dei miei genitori nel 2016», dice Rachel Smith dalla minuscola cittadina di Carbondale, non lontana da Scranton, città natale di Joe Biden. Ex elettrice di Donald Trump, Rachel non è il suo vero nome ma preferisce parlare in anonimato, spaventata che i suoi genitori possano venirlo a sapere, anche in Italia. Ha 26 anni e ha perso il lavoro durante la crisi coronavirus. «Ho bisogno di un presidente empatico, la mia fede mi insegna a esserlo, perché chi voto può permettersi di farne a meno?», si chiede da un caffè di paese. Molti protestanti millennials sono diversi dai loro padri e dalle loro madri perché riconoscono, ad esempio, che il cambiamento climatico sia un problema reale e rispettano le regole sul coronavirus come se fossero sacramento: «Questo virus può ucciderti e uccidere i tuoi cari. Mettere una mascherina e praticare il distanziamento fisico per me è normalità». Come per la comunità mormona nello Utah a ovest, anche per gli evangelisti a est si tende a credere allo stereotipo secondo cui le persone di queste comunità religiosa si frequentino solo tra loro. «Ma non è così», precisano in due conversazioni diverse sia Rachel che il pastore Hescox. I protestanti hanno regolari posti di lavoro e affrontano gli stessi problemi di tanti americani non religiosi, conseguenze economiche da Covid-19 incluse. «Donald Trump ha dato un terribile esempio nel rifiutarsi di assumere adeguate misure di sicurezza e ha messo in pericolo migliaia di persone con le sue manifestazioni pubbliche», attacca Patrick McCornick, professore di studi religiosi a Gonzaga University.
I social media si sono ritagliati un ruolo decisivo nello scalfire l’approccio dei protestanti millennials. Giovani che interpretano i valori conservatori della famiglia, ma che si sono più flessibili rispetto ai genitori: «Non mi permetterei mai di giudicare una coppia omosessuale per le decisioni che prende», dice ad esempio Rachel. Giovani come lei non rappresentano ancora una maggioranza: secondo Pew Research Center, solo il 17 per cento degli evangelici ha tra i 18 e i 29 anni. E l’amministrazione Trump, come spiega all’Espresso Darren Dochuk, scrittore e professore a Notre Dame, nella South Bend da cui proviene la giudice Amy Coney Barrett, ha coccolato l’orgoglio bianco smarrito di tanti evangelisti over 50, specialmente nel Midwest. «Sono stati a lungo impegnati in una guerra culturale data per persa, contro una società che considerano peccatrice e smarrita, a causa del secolarismo. Trump ha fornito loro l’opportunità di rivendicare alcune vittorie fondamentali», spiega il professore. Ma secondo il reverendo Hescox, sono persone della generazione di Rachel che potranno fare la differenza in futuro, perchè capaci di infondere un senso di speranza e apertura: «Se ci chiuderemo seguendo la strada dell’odio e della paura sarà la fine per tutti noi». L’etimologia insegna che il termine “Evangelico” provenga da“Evangelo”, il cui significato è, letteralmente, buone notizie. Tornare alle radici potrebbe dare l’opportunità di cambiare. «C’è l’opportunità storica di reintrodurre questo messaggio», lancia il monito Hescox. «A patto che si torni a leggere la Bibbia e a fare gli evangelici per davvero, invece di guardare i video complottisti di QAnon».