Il cuore di Budpest è in rivolta. E le manifrstazioni più imponenti vengono dagli studenti. Il drammaturgo Schilling: «Ci hanno accusato di essere liberali, che per loro vuol dire ebrei, comunisti, gay, zingari»

Victor Orban
Nemmeno il Covid ferma la protesta. E se Viktor Orbán ha colto l’occasione della pandemia per stringere ancora di più le maglie del controllo sul Paese, il cuore di Budapest rimane pulsante di rivolta. In Ungheria sono gli studenti di teatro e cinema ad aver dato vita a manifestazioni imponenti. Va detto subito: la cultura teatrale ungherese è di lunga data, il teatro ha un ruolo importante nella vita sociale e culturale che ha espresso, ed esprime, molti talenti di fama internazionale, a partire da quel luogo di assoluto prestigio che è il Teatro Nazionale “Katona Josef” di Budapest.

Così, proprio attorno all’idea stessa di teatro, si è accesa, nei mesi scorsi, la fiaccola della resistenza culturale. Fidesz, il partito di governo, intende “bonificare” tutte le istituzioni culturali, convertendole al credo della destra estrema e populista. Ad esempio, privatizzando le università pubbliche, con la scusa di far arrivare maggiori budget e di qualificare la proposta formativa, grazie a “manager” sempre vicini a Orbán. Ma lo scopo è chiaramente altro: impostare la nuova “politica culturale” improntata ai “valori” del nazionalismo, del cattolicesimo più bigotto, del maschilismo, e annientare ogni possibile opposizione.

Eppure, gli studenti e le studentesse della SZFE, la storica università di cinema e teatro, hanno detto no. Da fine agosto, hanno occupato la sede per fermare la lottizzazione selvaggia del Consiglio di amministrazione e del rettorato. E in prima linea si stagliano figure importanti che non esitano a dire la loro. Come Kornél Mundruczó, straordinario regista di teatro e cinema: all’ultima mostra del cinema di Venezia, il suo “Pieces of a Woman” ha riscosso grande successo e vinto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile dato a Vanessa Kirby, mentre il suo potentissimo spettacolo “Imitation of life” si è recentemente visto al Vie Festival di Modena e Bologna. Ci racconta Mundruczó: «È una situazione estrema che, come in ogni regime, può diventare ancora più estrema. Le possibilità di riconciliazione diventano sempre più esigue, fino a che non si raggiunge lo stato di emergenza. Il clima si farebbe certo teso e ostile. L’Ungheria è molto vicina a questo scenario. La battaglia degli intellettuali è nell’arte: ma l’arte è per tutti e dovrebbe renderci uguali. Dimenticarlo, significa tornare alle epoche oscure della storia. Il teatro è conforto e confronto: è lo spazio in cui gli artisti condividono qualcosa di personale, con il pubblico, dal vivo.

Questo momento fragile può facilmente essere rovinato quando un teatro si muta in spazio della propaganda. Anziché nella catarsi, gli artisti e il pubblico si troveranno in un terreno di persuasione politica». Raggiunta la notorietà internazionale, il regista si interroga dunque sul ruolo che un artista può dunque avere rispetto a simili scenari: «Le mie radici sono in Ungheria, le mie maggiori ispirazioni vengono da questo Paese. D’altra parte, fuori dall’Ungheria sono più riconosciuto, e quasi mi sento più a casa. In un’epoca satura di politica, gli artisti devono conservare nelle proprie opere un aspetto personale. In un processo di lavoro ci sono diversi elementi da considerare e limiti da affrontare, come quello economico. Conosciamo bene il principio per cui ogni re ha bisogno di un clown, ma non possiamo permettere a chi ha il potere di fare di noi dei pagliacci». E conclude: «Si ha l’impressione che l’estremismo non possa crescere ulteriormente. Ma poi, invece, continua a crescere: è una bolla o una polveriera? Non lo sai, finché non esplode. L’Ungheria è un piccolo Paese influenzato da eventi globali. Avere in comune delle basi etiche europee dovrebbe essere una responsabilità e un obiettivo. Tanto necessario, affinché noi si possa avere un futuro».

Chi, da anni, non fa mistero della sua opposizione intellettuale allo strapotere di Orbán è il regista e drammaturgo Árpád Schilling, classe 1974, fondatore della compagnia indipendente Krétakör. Spiega che per capire il presente occorre fare un piccolo passo indietro: «Tutto ha una radice. Dobbiamo dunque chiederci cosa sia accaduto nelle ultime tre decadi. In Ungheria venivamo da una sorta di “Comunismo morbido”: nell’ultima stagione del socialismo, negli anni Ottanta, la società era marcata dalla corruzione, dal compromesso sistematico con il potere. Ci si rassegnava: avevamo tutto quel che potevamo avere, stavamo “meglio” di tante altre nazioni comuniste. Dal 2010, Orbán è stato geniale nell’usare perfettamente la situazione. Ci ha giocato. E ora, in Ungheria c’è di nuovo la stessa corruzione e la stessa paura degli anni Ottanta. Non dobbiamo chiederci perché sia al potere, quanto provare a capire la società che è dietro e prima di lui. Chiedersi perché la nostra società stia accettando e abbia accettato tutto ciò».

Per questo, Schilling ha iniziato a lavorare nelle scuole, incontrando studenti e professori, ma -spiega - i docenti hanno cominciato ad aver paura. Ero ragazzo durante il comunismo, non avevo modo di percepire cosa spaventasse le persone: questa è stata la prima volta in cui ho sentito la paura diffondersi nella nostra società. È triste sentire un insegnante dire: “Mi piace quel che fate, sono d’accordo, ma dovete capirmi, ho paura di perdere il lavoro”. Siamo gente tranquilla, e invece i giornali parlavano di noi come se volessimo formare dei terroristi. È cresciuta la pressione su di me e su quanti, in modo trasparente, difendevano i diritti civili. Abbiamo sbattuto contro il muro del potere e della disinformazione: ci hanno accusato di non essere abbastanza ungheresi, di essere nemici dello Stato. Di essere “liberali”, che in Ungheria vuol dire essere ebrei, comunisti, omosessuali, zingari. Nei giornali, nei media governativi, cambiano il senso delle parole e delle azioni, definendo le nostre idee “stronzate liberali”. Eppure quelle stronzate liberali sono la nostra vita».

E dunque adesso il teatro cosa può fare? Árpád Schilling non ha dubbi: «Il teatro è un simbolo, una questione importante per il governo. A partire dalla definizione: “teatro nazionale”, buona nell’Ottocento. Che vuol dire oggi “nazionale”? Che nazione rappresenta? Che senso ha, in Italia o in Francia o in Ungheria? Avremmo voluto discutere questi temi. Ma i nazionalisti hanno iniziato ad attaccare il direttore, Robert Adolfi, accusandolo di essere omosessuale. E dunque, concludevano: “Se il direttore del Nazionale è gay, tutta la nazione è gay”. Adolfi è stato destituito e ora abbiamo un nuovo direttore, perfettamente in linea con il Governo». Conclude Schilling: «Quando parli di valori, futuro, diritti umani, di questioni sociali o poetiche, se provi a difendere la tua professione, diventi un nemico. Dai argomenti ai nazionalisti. Questa situazione ricadrà sui giovani, che dovranno risolvere i problemi degli ultimi trenta anni. Essere democratici, o semplicemente cittadini, significa anche dire “no”. Anche se per molti significa perdere il lavoro». E no hanno detto gli studenti universitari. Cercano il sostegno internazionale. Lo reclama il regista e scenografo Csaba Antal, molto attivo anche in Italia: «SZFE è diventato un simbolo della libertà e della democrazia. È un grido disperato per il rispetto dei valori universali in un regime che sistematicamente distrugge luoghi storici di indipendenza e di autogoverno, come l’università e il teatro, essenziali alla creatività artistica, alla ricerca accademica e all’insegnamento. E alla vita».