András Forgách ci aspetta nella sua casa di campagna, a una quarantina di chilometri da Budapest. In fondo a un vialetto alberato intravediamo la vetrata che illumina la cucina, che è anche studio e sala giochi del figlio di 4 anni. Sarà anche il set per la nostra intervista. Una casa essenziale che Forgách ha deciso di eleggere da qualche anno a sua dimora, dove scrivere i suoi libri e ritrarre con la matita le scene quotidiane del figlio. Con loro vive anche Anna, la giovane moglie. L’altro membro della famiglia è un cane meticcio di media taglia, ci tiene compagnia mentre cerca di mordersi la coda, invano.
Sessantaquattro anni, scrittore e drammaturgo, András Forgách è noto in Italia soprattutto per il libro “Gli atti di mia madre” (edito da Neri Pozza), la storia personale e drammatica della sua famiglia, della scoperta di un fascicolo dedicato alla madre, collaboratrice dei servizi segreti nell’Ungheria socialista.
Ed è proprio da qui che parte il racconto di Forgách, dalle diverse ere ideologiche stratificate nella storia ungherese fino all’Ungheria di Orbán, il tema della nostra intervista. «Non c’è una sola Ungheria, ci sono cinque Ungherie. Io sono nato nel 1952 e quella era l'era stalinista. Poi venne il ‘56, l’anno della rivolta, della rivoluzione. Poi è arrivata l'era di Khadar, il primo periodo, dove molte persone sono state torturate e imprigionate. Poi abbiamo avuto un breve periodo di luce. E poi sono arrivati gli anni '70 e '80», dice lo scrittore: «È una storia sempre diversa, mai la stessa, non è mai stata monolitica. Ciò che è rimasto uguale in tutta questa storia, ovviamente, è l'oppressione, la centralizzazione, ma storicamente la consistenza della società ungherese è sempre stata mutevole».
La centralizzazione, dice Forgách, è una costante della storia ungherese. E centralizzazione è anche uno degli aspetti chiave della democrazia illiberale di cui Orbán è ideatore e principale esponente. Un concetto che per la prima volta Orbán utilizza pubblicamente nel 2014. Il primo ricordo di Forgách su Viktor Orbán risale, invece, al 16 giugno 1989, quando più di centomila persone si riuniscono a Budapest, in piazza degli Eroi, per i funerali che riabilitano Imre Nagy, impiccato il 16 giugno 1958.
Forgách, che non ama partecipare alle manifestazioni, quella volta ha deciso di esserci. «Nel 1989 ero in Piazza degli Eroi, ero lì e ho visto questo tizio, mi trovavo a cento metri da lui, un piccoletto barbuto, con una presenza molto forte, era Viktor Orbán. Diceva che le truppe sovietiche devono lasciare l'Ungheria. Era chiaro a tutti in quel momento che sarebbe accaduto comunque. Ma lui stava usando quella piazza per presentarsi come l'unico combattente per la libertà in Ungheria. È stato un lungo processo che ha portato Orbán, tra il 1992 e il 1993 a cambiare completamente colore. E in due o tre anni abbiamo visto cosa è diventato: l’inventore della democrazia illiberale. Queste democrazie hanno un uomo solo al comando, sono oligarchiche. Ciò significa che l’uomo al potere ha duemila amici che gestiscono tutti i soldi o quasi tutti e devono essere nazionalistiche. Illiberale è la parola preferita di Orbán. Lui è il Dio illiberale!».
Orbán, continua lo scrittore, si è reso conto dei punti deboli del cosiddetto sistema liberale, dove i problemi sono ben visibili, sempre, «perché i giornali ne parlano, ci sono discussioni, capisci che non esiste una verità assoluta. Ma molte persone vogliono sicurezza, molte persone vogliono una verità che non sia negabile, loro vogliono certezze».
Questo Orbán lo ha capito e la sua scelta, in termini elettorali e di consenso è stata molto efficace. Da quando è tornato al governo nel 2010 per la seconda volta dopo la parentesi del 1998-2002, quando è diventato il primo ministro più giovane della storia ungherese, Viktor Orbán ha saputo individuare un nemico contro cui combattere. Il nemico principale sono stati i migranti, fin dalla crisi del 2015 che ha coinvolto anche la figura di George Soros, per Orbán e la sua propaganda l’artefice dei flussi migratori. L’effetto di quella propaganda è stata la costruzione della recinzione con la Serbia che ha ridotto drasticamente non solo il numero dei migranti che tentanto di attraversare il confine, ma anche quello dei richiedenti asilo.
«Per me questa terra di nessuno che si trova al confine è un tragico monumento per qualcosa che noi non dovremmo essere», aggiunge Forgách: «Sono davvero sorpreso che a molti ungheresi questo provochi un sentimento di soddisfazione. L'idea di picchiarli e lasciarli affamati, forse positiva per qualcuno, è un istinto animale che abbiamo dentro… e loro puntano proprio su questo istinto egoistico e animalesco. Per Fidesz è importante dimostrare che la crudeltà non è qualcosa di disumano, anzi loro deridono l'umanesimo. Volete aiutare questi rifiuti della terra? Sii crudele, sii brutale con loro… Questo è fascismo per me. Tutto ciò per Orbán è una dimostrazione politica per dire: “Io posso fare quello che voglio e nessuno può fermarmi”».
Secondo Forgách, quando Orbán è diventato per la prima volta primo ministro pensava di dover usare gli intellettuali. Ma poi ha capito che non aveva bisogno di loro per vincere un'elezione, assolutamente no, quello di cui aveva bisogno erano i giornali, le televisioni, molti soldi, e molta manipolazione.
In Ungheria esiste una fondazione, chiamata Kesma, controllata da una forte lobby vicino al governo. E questa fondazione raccoglie centinaia di agenzie di stampa. E tutte esprimono narrazioni filo-governative. Secondo la classifica che Reporter senza frontiere pubblica ogni anni sulla libertà di stampa, negli anni in cui Orbán è al potere, l’Ungheria ha peggiorato la sua posizione. In Ungheria i giornalisti non rischiano la vita, non vengono imprigionati. Per loro è semplicemente impossibile ottenere informazioni sull’attività del governo.
«Il primo ministro possiede, tramite altre persone, tutti i giornali di tutte le regioni. E lo stesso giorno, di solito, sulle copertine di tutti questi giornali compare la stessa foto di lui…e se metti insieme tutti questi fogli, avrai venti volte Orbán, la stessa foto, la stessa. E non se ne vergognano. C’è una costante influenza su un certo modo di pensare, una costante produzione di finte narrazioni. Questa gente che ora è al potere odia la libertà».
Dove sta andando l’Ungheria? «Penso che l'Ungheria stia andando lentamente ma inesorabilmente verso una cattiva direzione, che è quella della Cina, della Russia, della Turchia. Il modello è chiaro, non ne fanno mica un segreto».
Nell’ultimo anno un segnale di opposizione ad Orbán è arrivato dall’occupazione dell’università delle arti cinematografiche e teatrali di Budapest, una delle più antiche e prestigiose accademie del Paese, la Szfe. Come per tutte le aree della vita pubblica ungherese, Orbán ha deciso di intervenire nella cultura, affidandone la gestione ad una fondazione, anche questa vicina al governo. Non proprio una privatizzazione, sostengono i critici della riforma sulle università votata in parlamento nello scorso aprile, ma una gestione privata di soldi pubblici. Una costante nel sistema di potere, centralizzato e illiberale, voluto da Viktor Orbán.
«Ho insegnato per dieci anni alla Szfe, l’accademia di teatro e cinema di Budapest. Sapevamo già un’anno prima dell’occupazione dell’università, con storica determinazione, cosa sarebbe successo. Era molto chiaro per me che avrebbero perso, che avremmo perso, che l’occupazione sarebbe terminata e che avrebbero vinto loro, ma è stata una magnifica sconfitta. Il movimento che ha occupato la Szfe (FreeSzfe, ndr) è stata una sconfitta molto significativa per l'orbánismo, che verrà utilizzata in seguito, nei momenti critici, come una tecnica di sopravvivenza, una tecnica dell'apertura mentale, della semplicità. Non c’è niente di più grande di questo movimento nella storia ungherese. Niente».
Forgách, che si definisce narcisista ed egoista come tutti gli artisti, vorrebbe sfuggire alla domanda di rito sul futuro dell’Ungheria. Ma risponde con onestà: «Sarei molto felice se Orbán fallisse alle elezioni del prossimo anno. Ma questo non è assolutamente certo. La situazione è molto aperta per varie ragioni, non solo perché l'opposizione non è abbastanza forte oggi, ma anche perché loro sono pronti a tutto pur di rimanere al potere».