Sanders e Buttigieg in testa. Ma nessuno riesce a ricucire le due anime del partito, quella moderata e quella radicale. «E non c'è un candidato ideale», dice l'intellettuale e saggista Ian Buruma

Pete Buttigieg
«Quanto accaduto la settimana scorsa in Iowa può minare la fiducia dei democratici nell’intero processo elettorale. Il vero problema che hanno non è però questo, la domanda fondamentale, ancora senza risposta, è: chi sfiderà Trump? Sarà un candidato di sinistra e populista o un moderato fermo in mezzo alla solita tradizionale strada?».

In un ristorante italiano a pochi blocchi da Central Park, alla vigilia del secondo voto nelle primarie Usa (quelle del New Hampshire) Ian Buruma allarga le braccia. «In questi ultimi quattro anni il partito democratico si è radicalizzato, la sinistra ha guadagnato posizioni, il tradizionale establishment è in difficoltà. Ma nell’elettorato moderato, ancora molto consistente, forse ancora maggioranza relativa, il timore è che possa prevalere un candidato troppo liberal, troppo di sinistra se non dichiaratamente socialista».
Bernie Sanders

Buruma non ha idea di quale sia la soluzione migliore («io non ho la ricetta giusta e sinceramente dubito che qualcuno l’abbia chiara in testa»), ritiene che ogni singolo candidato abbia i suoi pro e i suoi contro e che solo l’uomo (o la donna) in grado di unificare realmente partito ed elettorato abbiano una chance di vittoria nella sfida del 3 novembre contro The Donald. «È una situazione con diverse contraddizioni. Faccio un esempio: per avere indietro i voti che sono andati a Trump in tre Stati dove la classe operaia bianca votava tradizionalmente il candidato democratico come Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, è meglio un moderato alla Biden, un giovane emergente come Buttigieg, un populista come Sanders, o una nemica di Wall Street come la Warren? Sfido chiunque ad avere una certezza assoluta. Sicuramente Sanders e Warren avrebbero un maggior feeling con l’elettorato di questi “Blue Collar State” ma potrebbero essere penalizzati, perdendo i voti moderati, in altri Stati-chiave come la Virginia e la Florida, altrettanto decisivi».

«Un primo punto interrogativo», prosegue Buruma, «che se ne porta dietro subito un secondo. Nel campo ultra-liberal è meglio Bernie Sanders di Elizabeth Warren o è meglio la senatrice del Massachusetts del senatore del Vermont? Qualcuno può dirlo con certezza? Non credo. Io preferirei la Warren, penso che sarebbe un’ottima presidente, ma lei non ispira minimamente lo stesso entusiasmo di Bernie. Sanders è perennemente arrabbiato? Può anche essere la sua forza, in un periodo come questo in cui la gente è arrabbiata ed è attratta da chi mostra un volto rabbioso. Warren è troppo fredda per riscaldare le folle e ha un problema di immagine che non riesce a scrollarsi di dosso».

Sorpreso dal buon risultato iniziale di Pete Buttigieg? «Non lo avevano previsto, non a questi livelli perlomeno. A parte il piccolo problema per cui nessuno sembra in grado di pronunciare correttamente il suo cognome, se avesse dieci anni di più (ne ha compiuti 38 il 19 gennaio scorso, ndr) avrebbe potuto essere il candidato ideale per i democratici. Inoltre non è mai stato testato in una sfida elettorale di alto livello. Penalizzato dall’essere dichiaratamente gay? Non credo proprio, poi dipende molto da che tipo di gay sei. Lui socialmente è un po’ un conservatore, è sposato, dubito che le sue preferenze sessuali nell’America di oggi possano essere un grosso problema, soprattutto nell’elettorato democratico. È la stessa cosa di quando la gente dice “una donna non può essere eletta”: è un ragionamento sbagliato, dipende da che tipo di donna sei. Hillary Clinton era invisa, se non odiata, anche da molti democratici, ma non perché fosse una donna. Ci sono diverse donne che non avrebbero alcun problema ad essere elette».

Chi potrebbe essere presto fuori dai giochi è Joe Biden. Il vice di Barack Obama, per otto anni alla Casa Bianca, è un candidato che rappresenta “la vecchia anima” del partito e il timore - secondo Buruma - «è che possa alienare il voto delle nuove generazioni, dei giovani “millennials” che in questi anni si sono avvicinati alla politica con criteri, ideali e valori non tradizionali e che non vogliono avere altri quattro anni di Donald Trump alla Casa Bianca». Biden potrebbe rinunciare? «Io credo che aspetterà almeno il Super Tuesday del 3 marzo, quando si vota in sedici Stati tra cui California e Texas».

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Per Buruma Michael Bloomberg, che non partecipa al voto in queste prime quattro sfide di febbraio in attesa proprio del Super Martedì, «appare, a sorpresa, molto più forte di quanto si pensasse. È possibile che alla fine sia lui il candidato dell’ala centrista o moderata o anche che sia lui l’unico in grado di unificare un elettorato che non è mai stato così diviso». C’è chi pensa che un miliardario di New York, ebreo, abbia poche chance nell’America populista di oggi. «Ebreo è anche Sanders, miliardario è Trump, io non credo che sia questo oggi il problema dell’ex sindaco di New York City. Ripeto, non c’è un candidato ideale, non è lui, non è Biden, non è Sanders, non è la Warren, non è Buttigieg. Ognuno di loro per avere una chance di successo contro il presidente in carica deve riuscire a unificare i militanti prima della Convention di luglio e il più vasto elettorato il 3 novembre. Solo chi riuscirà a fare le due cose può conquistare la Casa Bianca».

Sarà decisiva la mobilitazione giovanile? «Io credo che si stia un po’ sovrastimando l’impatto sul voto dei giovani di sinistra. Sono una bella novità, ma vivono in maggioranza in Stati come la California, come New York, Stati che sono saldamente a maggioranza democratica. Oppure vivono, lavorano e studiano nei grandi centri urbani, anche queste realtà dove il partito democratico vince abbastanza facilmente. Alle presidenziali degli Stati Uniti, per via del sistema elettorale, finiscono per contare di più gli elettori degli Stati in bilico, delle aree rurali, di quel che rimane della classe operaia bianca. Lo abbiamo visto nel 2016, i democratici non possono non tenerne conto».

Dubbioso sulle capacità di rimonta di Biden («non credo sia in grado di unificare partito ed elettorato») Buruma si dice convinto che Sanders - nel caso ottenesse la nomination - non commetterebbe l’errore di impostare una campagna elettorale “troppo socialista”. E se si arrivasse ancora divisi e senza un candidato chiaro alla Convention di luglio? «È possibile, ma non credo accadrà perché per il partito democratico sarebbe un suicidio. Penso che da qui a fine aprile avremo un quadro più chiaro e forse un candidato in netto vantaggio».
Donald Trump

Dall’Iowa alle questioni più globali che riguardano elezioni e populismo. Sta ancora avanzando nei paesi occidentali o si vedono i primi segnali di ritirata? Brexit e Boris Johnson aiutano Trump o accade il contrario? «Per rispondere alla prima domanda direi che dipende molto da quanto accadrà in Germania e in Francia. In altri paesi più piccoli dell’Europa occidentale, ad esempio l’Olanda, l’estrema destra populista è indubbiamente forte, ma non è forte abbastanza per conquistare il governo perché il sistema elettorale forza a formare delle coalizioni. Cosa che non accade in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove il vincitore prende tutto. In Francia dipenderà da quanto o meno Macron avrà successo. Ha molte difficoltà ma ha ancora del tempo per rimediare. È possibile che fallisca e che l’estrema destra abbia un’altra chance. Ma al momento non sembra che possa accadere. In Germania non credo che l’estrema destra possa arrivare a un successo tale da conquistare il governo. In Polonia e in Ungheria i populisti sono già al potere e anzi vediamo piccoli segni di crisi al loro interno. Gli effetti della Brexit sono ancora tutti da verificare, le ricadute potrebbero non essere quelle che i fautori dell’uscita dall’Unione Europea volevano. La Brexit inoltre può dare all’Europa quel coraggio che finora non ha avuto, su questioni politiche ed economiche per evitare che un altro paese o più scelgano la via presa dalla Gran Bretagna. Infine credo che Boris Johnson sia in una situazione piuttosto difficile nei confronti degli Stati Uniti perché se non riesce a fare un buon accordo con l’Europa diventerà troppo dipendente dagli Usa. La Casa Bianca non ha alcuna intenzione di fare concessioni a un paese europeo, sia pure un alleato di ferro come la Gran Bretagna, anche perché Johnson qui viene visto come una sorta di “poodle”, di cagnolino, degli Stati Uniti. Nel mio prossimo libro (in uscita a settembre) affronto le relazioni tra Usa e Gran Bretagna dalla Seconda guerra mondiale fino alla Brexit. Si chiama “The Churchill Complex” ed è quello che inizia nel 1941 tra Roosevelt e Churchill».

Buruma, che insegna diritti umani e giornalismo al Bard College di New York, non è cittadino americano, «non ho mai preso neanche la green card». Se potesse votare voterebbe «per qualsiasi candidato, anche il peggiore, purché sia in grado di battere Donald Trump; e spero che la maggioranza degli elettori abbiano la mia stessa convinzione».

Non esclude che si possa arrivare a un ticket (presidente e vice-presidente) che rappresentino le due grandi anime del partito democratico. «Sì, proprio un ticket moderati-socialisti o viceversa. Alcuni non accetterebbero, la Warren non farebbe mai da vice a un Biden o a un Bloomberg, ma Sanders potrebbe scegliersi un vice, magari una donna, in grado di coprire quella parte di elettorato che ha molti dubbi su di lui. Un esempio? Amy Klobuchar, la senatrice del Minnesota che in Iowa è arrivata quasi alla pari con Joe Biden. È una moderata, ma viene dal Midwest, secondo me sarebbe la scelta ideale per unire almeno l’elettorato il 3 novembre».

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