Mondo
febbraio, 2020

Il tallone d'Achille di Donald Trump si chiama economia

3081-0Q69DXVA-jpg
3081-0Q69DXVA-jpg

Ed è proprio il tema di cui lui più si vanta. Perché dietro i numeri sbandierati, c’è una realtà di salari bassissimi e disparità in crescita

3081-0Q69DXVA-jpg
Non portano fortuna gli annunci roboanti, dall’ “anno bellissimo” di Giuseppe Conte (il 2019 è finito con l’Italia sull’orlo della recessione) al discorso sullo stato dell’Unione di Donald Trump del 4 febbraio scorso, quello in cui il presidente americano ha parlato di «boom senza precedenti» e di «eccezionali aumenti salariali per gli operai», annunciando che «il meglio deve ancora venire». Un discorso al termine del quale la speaker democratica del Congresso Nancy Pelosi è sbottata: «Non si possono ascoltare tante sciocchezze tutte insieme», ha detto strappando platealmente la copia del discorso.

In effetti del “meglio” di Trump non si è vista traccia nelle settimane successive. Anzi. Anche se il Pil degli Stati Uniti è in aumento (+2,3 per cento nel 2019 dopo il +2,9 del 2018) e Wall Street è ai massimi, sempre più economisti avvertono che guardando dietro le cifre si legge un’altra verità, e nell’anno elettorale i nodi possono venire al pettine. Così, pur essendo per il momento impegnati per lo più a massacrarsi l’un l’altro, i candidati democratici stanno portando alla luce i punti deboli del “boom” e per aiutarli è sceso in campo il Nobel Joseph Stiglitz con un corposo manifesto sulle incongruenze dell’economia americana.

Tutti - dal socialista Bernie Sanders a Elizabeth Warren, fino ai moderati Pete Buttigieg, Ami Klobuchar e Joseph Biden - ne stanno cominciando a far tesoro. Il più grande bluff è la disoccupazione ai minimi (3,6 per cento), dice Stiglitz con la puntigliosa indicazione della fonte: lo Us Bureau of Labor statistics certifica che i salari medi non hanno avuto un «aumento eccezionale» come dice Trump ma sono saliti di appena il 2,6 per cento da quando The Donald è entrato in carica (molto meno del Pil). La paga media di un dipendente è del 3 per cento inferiore a 40 anni fa, le disparità sul lavoro si sono accentuate e un impiegato nero è pagato in media il 25 per cento meno di un bianco, gli investimenti delle aziende che dovevano decollare favoriti dalla generosa riforma fiscale sono finiti in negativo (-0,6 per cento nel terzo trimestre 2019) perché le aziende destinano i maggiori profitti al riacquisto dei titoli in Borsa (lì sì che c’è un boom). E nei primi 30 mesi dell’amministrazione Trump (cioè fino a ottobre 2019), il ritmo di creazione di nuovi posti è stato di 190 mila al mese contro i 220 mila del 2014-16, una frenata notevole. Come se non bastasse, il Brookings di Washington, uno dei più prestigiosi think-tank del mondo (ancorché dichiaratamente di tendenza Dem), rivela che il 44 per cento dei salariati è pagato così poco che fatica ad arrivare a fine mese. Baristi, cassieri, commessi, benzinai, centralinisti: il 25 per cento vive al di sotto della soglia minima di sussistenza, variabile da zona a zona ma in media fissata in 25mila dollari per una famiglia di quattro persone. Ancora: il Trust for american health rivela che i suicidi sono raddoppiati dal 1999 e le overdose quadruplicate, e la Gallup calcola che è salita dal 10,7 al 13,7 per cento la quota di americani privi di qualsiasi assicurazione sanitaria, «e questo perché con le nuove regole volute da Trump quando ha parzialmente riformato l’Obamacare, è più facile per un’azienda rifiutarsi di assicurare il dipendente», spiega Ettore Greco, vicepresidente dell’Istituto affari internazionali di Roma.

«Se c’è un punto d’accordo in casa Dem è l’aumento del salario minimo da 7,25 a 12-15 dollari l’ora, nonché la revisione su congedi parentali e malattia». Su una riforma della sanità per avvicinarla all’Europa, però, «tutti i candidati dem tranne Sanders sono prudenti», dice Paolo Guerrieri, economista di SciencesPo e della San Diego University, «perché basta pronunciare il termine “assistenza per tutti” per essere accusati di voler trasformare gli Stati Uniti nell’Unione Sovietica».

Ma anche il quadro “ufficiale” comincia a scricchiolare: intanto sono state pubblicate le cifre sul disavanzo commerciale Usa, che è sceso a 616,8 miliardi dai 627,7 del 2018, meno di quanto fosse legittimo aspettarsi visto l’impegno sbandierato da Trump e lo tsunami portato dalle sue politiche protezionistiche. Era di 508 miliardi nel 2015, ultimo anno di Obama. Poi il 14 febbraio il Dipartimento del Commercio ha annunciato che le vendite al dettaglio sono rimaste “piatte” in gennaio, dato inquietante per un’economia basata per il 70 per cento sui consumi. E la produzione industriale è scesa dello 0,4 per cento anno su anno. Altre falle potrebbero aprirsi presto.

Si starebbe materializzando lo scenario temuto, «un’economia che premia l’abituale 1 per cento della parte già ricca della popolazione oltre al big business», dice Marta Dassù, direttrice di Aspenia, la rivista dell’Aspen Institute Italia, «mentre le fasce colpite dalla globalizzazione, cui Trump aveva promesso grandi progressi, non vedono miglioramenti tangibili. Ora Trump deve convincere questa parte dell’elettorato che la situazione generale è molto buona e non solo per Wall Street».

Prima che il presidente ci riesca, i candidati democratici stanno affannandosi a dimostrare la vacuità delle promesse del 2016. Michael Bloomberg, il presunto “uomo della provvidenza” dei democratici che scenderà in campo al Super Tuesday del 3 marzo, ha speso finora 400 milioni di dollari per una martellante serie di spot visibili nei 16 Stati in cui si voterà, tutti rivolti a demolire la personalità di Trump: dagli azzardi in politica estera ai pregiudizi anti-immigrati, senza risparmiare «i tentativi di mascherare l’obesità e la calvizie».

La cifra spesa dal 12° uomo più ricco del pianeta e ottavo d’America con 60 miliardi di fortuna personale secondo Forbes (Trump 3,1 miliardi è 275° negli Usa con e 576° nel mondo), fa impallidire quelle pur cospicue investite dagli altri candidati. Biden ha un budget di 59,5 milioni che sta rafforzando con eventi a raffica come la doppia cena del weekend di San Valentino in due affluenti ristoranti di Midtown Manhattan, Sarabeth e Wayfarer, che gli ha fruttato 800 mila dollari in donazioni da 2800 dollari. Di piccoli contributi è fatto invece il budget di Sanders, che comunque arriva a 96 milioni, mentre Buttigieg ha quasi esaurito il suo fondo spese di 76 milioni. Dipende da come va la campagna: dopo la sua inaspettata performance in New Hampshire, la senatrice Klobuchar ha rimediato 3 milioni in 48 ore. Ma in più Bloomberg ha investito la stratosferica somma di 8 miliardi in 15 anni per precostituirsi una constituency di consenso con donazioni a charities e associazioni di ogni tipo, da quella contro le armi a quella dell’assistenza ai figli di madri singole. Ora siamo alla prova dei fatti.

«Non dovrebbe essere impossibile per un candidato d’opposizione riconquistare il voto degli operai e degli agricoltori della Pennsylvania, del Michigan, del Wisconsin, che quattro anni fa scelsero l’impopolare Trump sull’altrettanto impopolare Hillary Clinton per un pugno di voti», commenta Tim Graf, economista della State Street di Boston. «Bisogna capire quanto questi Stati industriali siano stati avvantaggiati dalla politica protezionistica di Trump, e a prima vista non sembra molto. C’è stato qualche “reshoring” di aziende che avevano delocalizzato e sono tornate, ma non di grandi proporzioni. Il danno provocato all’economia e agli scambi dalla tensione per la guerra dei dazi fino all’armistizio con i cinesi del 16 febbraio, è stato sicuramente maggiore. Ora poi è arrivato il coronavirus a confondere le acque e a gettare tutti in una specie di limbo di incertezza in cui non è facile neanche fare la campagna elettorale».

Proprio queste nuove tensioni, commenta Riccardo Perissich, che dopo una lunga esperienza nelle istituzioni internazionali è ora ricercatore alla Luiss, potrebbero favorire Trump, «che a differenza della precedente occasione, quando era a tutti gli effetti un outsider, è riuscito a ricompattare intorno a sé il partito repubblicano».
Sarebbe questa la via per portare a votare l’intera base elettorale conservatrice che in parte si era astenuta nel 2016. Trump deve sfruttare il fattore tempo: «Sul terreno su cui si gioca apparentemente la mobilitazione politica oggi, e cioè la battaglia relativa ai temi identitari», dice Marta Dassù, «Trump si è dimostrato per ora ben più efficace dei candidati democratici».

Politica ed economia si intrecciano in America come sullo scenario internazionale. «La più grossa prova di fiducia in Trump l’hanno data i risparmiatori tedeschi», osserva Ludovic Subran, capo economista di Allianz, «riversando nelle casse del Tesoro di Washington, e in misura minore nelle azioni, 36 miliardi di euro solo nel 2019, l’anno del rallentamento economico di Berlino. Ora quello che gli investitori internazionali vedono con scetticismo è solo una vittoria del radicale Sanders che potrebbe cambiare le regole dell’intero capitalismo occidentale, opzione non probabile ma neanche impossibile. Se vincerà Trump o uno dei democratici moderati, non cambierà molto. Purché non si riaprano deleterie battaglie commerciali: vale la lezione del 2019, anno che - caso rarissimo - si è chiuso con una crescita negativa del commercio mondiale in valore dell’1,7 per cento. Ecco, questo è ciò che non dovrà più accadere».

Chiunque vinca le elezioni, conclude Branko Milanovic, economista della City University of New York che ha appena pubblicato “Capitalism, Alone” sul prezzo morale della dottrina Trump e sulle scarse garanzie di stabilità che offre (uscirà in Italia a maggio per Laterza con il titolo “Capitalismo contro capitalismo”), «dovrà rimettere mano alla riforma fiscale, che così come è congegnata favorisce in modo sfacciato e inaccettabile solo i più ricchi oltre che le imprese. L’attuale presidente, se vuole vincere di nuovo dovrà rendersi conto che questo problema, al di là della congiuntura economica, graverà sempre sulla sua presidenza e sulla campagna elettorale».

L'edicola

Le radici culturali dell'Europa, antidoto al caos

Contro la crisi identitaria del Continente non c’è che uno sbocco: la riaffermazione dei valori comuni

La copertina del decimo numero: "Vieni avanti, straniero".