Turchia
«Vi racconto il mio inferno nei lager di Erdogan, dove la tortura è una routine»
Artista, scrittore, dissidente: Erdinç Yücel racconta il suo calvario, dalla “cerimonia di benvenuto” in una prigione sul Mar di Marmara alla fuga in Francia. E accusa: «Come Hitler, ogni dittatore ha dei complici»
Tutti i prigionieri vengono torturati all’arrivo in una prigione di tipo F. Si chiama “cerimonia di benvenuto”: ti spogliano e ti picchiano due, tre, a volte quattro ore di continuo. Tra i riti, c’è anche la “conta militare”, tutti i giorni alle 8 e alle 20. Ti metti in riga, dici ad alta voce il tuo nome. Dirai “io sono qui”, risponderai agli ordini: se ti rifiuti vieni picchiato per 5 o 10 minuti.
Prigione di Tekirda ? , sul Mar di Marmara. In fila per la conta c’è anche Erdinç Yücel, 25 anni, sunnita, padre insegnante e madre infermiera vicini alle idee del generale Atatürk, e per questo “turchi bianchi”, come li definirà Erdogan. In quel momento pensa a quando reagiva all’indottrinamento da parte dei seguaci del movimento di Fethullah Gülen nel suo collegio, un liceo scientifico, dove chiamavano Atatürk “Anticristo” e lui cercava di capire i mali del suo paese studiando “proposte” politiche in cui credere: fascismo, socialismo, le sinistre. Sceglie a 17 anni, aderisce a una piccola organizzazione di matrice marxista ortodossa ritenuta illegale dal governo.
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È il 19 gennaio 2001 quando lo arrestano per la quattordicesima volta. Dopo i primi 25 giorni trattenuto a Istanbul senza essere registrato, ora è lì in fila insieme a decine di altri dissidenti a Tekirda ? . Lo hanno preso perché “terrorista, capo di un’organizzazione politica illegale, organizzatore di attacchi contro la polizia”. Le prove sono 5 documenti falsi, in cui qualcuno aveva firmato al posto suo. È successo perché pochi mesi prima, a ottobre, la riforma carceraria rafforzava il sistema di isolamento dei detenuti politici con l’introduzione delle “celle F”, sul modello americano, motivo per cui in 41 prigioni parte un massiccio sciopero della fame.
Il 20 dicembre il governo invia 10 mila soldati, la chiama “Operazione Ritorno alla vita”: i detenuti di 21 prigioni vengono alimentati con la forza, altri sono avvelenati dai gas o bruciati vivi. Muoiono 30 prigionieri, 243 i feriti. Alla fine della protesta nel 2007 i morti saranno 122. In parallelo la polizia stronca le manifestazioni. 2.145 persone vengono arrestate ufficialmente, 900 finiscono sotto custodia della polizia senza registrazione e sottoposte a torture. Erdinç è tra loro e nelle carceri di massima sicurezza ci passerà 5 anni prima di essere momentaneamente rilasciato nel 2006 e poi condannato all’ergastolo del 2010.
Oggi dalla Francia, dove vive come rifugiato politico dopo la fuga da Istanbul, attraverso vignette e disegni fatti durante e dopo il carcere spiega che al momento nessuno può far davvero sentire la voce dei detenuti. «Tu hai doveri ma non esattamente dei diritti, in Turchia. Nel 2005 c’erano 80 mila prigionieri, tutti pensavano che la cosa non sarebbe durata. Oggi sono 270 mila. Censura ovunque, sei condannato per un tweet. Non parlo solo di politica, è così per ogni ambito della vita», racconta.
Perché quella di Recep Tayyip Erdogan è «una dittatura». «Non c’è separazione dei poteri. Non esiste un vero consiglio dei ministri. I suoi consiglieri sono più forti di ministri, deputati, capo di stato maggiore o giudici. È un islamista falso laico». E non si conosce la Turchia senza capire “il sistema giustizia”.
Quando mi hanno arrestato sono stato torturano per 4-5 ore in un piccolo bosco, poi hanno proseguito in un centro antiterrorismo di Istanbul prima di registrare l’arresto. Sono stato torturato senza mai poter dormire, avevo i polsi legati da dietro e gli occhi bendati per i primi 5 giorni. Lo stesso il primo giorno di carcere: bastonate, peli del corpo bruciati». Un referto medico testimonierà che ha una lesione al ginocchio destro, tagli sotto le ascelle, ha subito pestaggi e un tentativo di stupro con un bastone. Inizia uno sciopero della fame che durerà 123 giorni a seguito del quale arriva a pesare 40 chili e si ammala della sindrome di Wernicke-Korsakoff.
Non sta in piedi, non vede bene, non ha ricordi. A luglio ha la prima udienza del processo: «Faceva caldo, abbiamo chiesto di essere trasferiti dentro il tribunale ma ci hanno lasciati sulla navetta per 4 ore. Poi ci hanno picchiati perché facevamo “rumore”. Quando siamo svenuti ci hanno condotto dentro, ma davanti ai giudici io ero ancora incosciente». La malattia gli risparmia le botte. Ma in un’altra prigione una dozzina di guardie massacrano il suo amico Tuncay Günel fino a tre giorni prima della morte, avvenuta al 122esimo giorno di sciopero della fame. Un altro amico, Salih Sevinel, nel 2004 muore di infarto. Stava male, le guardie si rifiutavano di chiamare il medico e i detenuti iniziarono “la protesta del rumore” per sostenere la sua richiesta di essere visitato.
Lo portano in infermeria. «Il falso dottore gli dice, senza visita, che non ci sono problemi e gli fa un’ iniezione per alleviare il dolore. Un’ora dopo muore nella sua cella», racconta Erdinç: «Era un vero fascista. Leccava il coperchio della lattina di salsa di fronte ai prigionieri che non mangiavano. Si chiamava Adnan Özer, non è mai stato giudicato per le torture inflitte a noi ma è stato arrestato nel 2017 come membro del movimento Gülen».
Le celle F ospitano al massimo 3 persone in 20 metri quadrati, che diventano 8 se la cella è singola. Se hai dei soldi puoi comprare una tv e un bollitore elettrico ma devi pagare l’elettricità. Puoi leggere tre libri in contemporanea e giornali e scrivere ma tutto è controllato. La giornata tipo: “Fai colazione, leggi cose, scrivi cose, racconti le stesse cose per la 150.211 volta, poi mangi qualcosa, aspetti le lettere di familiari e amici, aspetti che le guardie rispondano alle richieste legali, altri aspettano di andare in ospedale o in tribunale. Poi attendi acqua fredda per 10 minuti 3 volte al giorno, l’acqua calda per un’ora due giorni a settimana, fai una piccola protesta perché è sempre necessario, e di nuovo racconti le stesse cose per la 150.212 volta». I parenti in visita una volta a settimana sono dietro un doppio vetro. Dal 2003 senza finestra. «Potevi scrivere loro delle lettere ma se non piacevano alle guardie, venivano buttate».
Il governo accusava di violenza il vecchio regime. Ma Erdogan ha stretto la morsa dalle proteste di Gezi Park nel 2013. Nel 2015 ha interdetto le proteste del sabato delle madri delle vittime di sparizioni forzate. «I miei genitori hanno visto tre colpi di stato militari nel 1960, 1971 e 1980, il colpo postmoderno nel 1997 e tre colpi falliti nel 1962, 1963 e 2016. Le carceri non sono solo un luogo, sono una speciale fonte di cultura. I nostri poeti, i nostri scrittori, i nostri giornalisti, i nostri politici, anche i nostri dittatori sono tutti passati dalle carceri. Fa parte del nostro folklore», spiega Erdinç mentre mostra la sentenza della Corte dell’Aja sul suo caso.
Le proteste del 2000 sono uno dei capitoli della storia della repressione in Turchia e del movimento di resistenza, il cui “punto di rottura” è stato il golpe del 1980. «45 mila prigionieri politici, dei quali 5 mila di estrema destra. Un inferno. Cosa puoi mantenere del tuo spirito di libertà e rispetto di te stesso se sei in prigione e una forza senza legge cerca di schiacciarti, ti affoga negli escrementi, ti minaccia di stupro, ti tortura? Sono sopravvissuti in poche centinaia ma hanno creato una tradizione». Lo sciopero della fame era la principale forma di protesta. Per i prigionieri curdi invece era darsi fuoco. «Entrambe sono un messaggio allo Stato: colpisci il mio corpo per aumentare il tuo potere ma le nostre volontà sono più forti dei tuoi strumenti di violenza. Il messaggio è rivolto anche ad altri prigionieri: resta forte come me. E alle persone: non puoi sentire la nostra voce a causa della censura delle parole, ma noi siamo ancora qui e resistiamo».
Ma nessuno è al sicuro sotto un regime, né torturatori, giudici, né le sue vittime, precisa Erdinç, spiegando che alcuni leader del movimento di Gülen si sono riciclati con Erdogan nel 2015 “torturando” per lui. «Il procuratore che mi ha accusato è Celal Kara, famoso membro di questa organizzazione, ricercato dall’Interpol con notifica rossa. Due giudici che hanno condannato me all’ergastolo sono stati condannati per terrorismo. La polizia e le guardie non sono state condannate per le torture che mi infliggevano. Pensavano di essere al sicuro sotto un altro padrone, ma gli sono stati solo utili». Nel libro “Propaganda”, uscito nel 2017, Yücel affronta il tema del sostegno che ha avuto Adolf Hitler. Un «assassino e vergogna della storia» che non è mai stato un uomo solo al comando: dirigenti, leader internazionali collaborativi, uomini d’affari, la società civile “innocente” ne accompagnarono l’ascesa.
Pubblicato nel 2019, “Icinki Adamlar” invece racconta i “secondi uomini”: figure che cambiarono la storia rimanendo fantasmi accanto a colleghi celebri. In entrambi i saggi, comunicazione e “percezione” giocano un ruolo fondamentale. «L’opinione pubblica in Turchia è silenziosa. Ma paradossalmente nessuno ascolta i media di Erdogan. Sto esaminando la top ten dei giornali più venduti e 9 sono pro-governo. La loro tiratura totale è inferiore a un milione, la popolazione è di 80 milioni. Il giornalismo è completamente morto in Turchia. Nessuno si fida davvero dei media. Né quelli pro-Erdogan né oppositori. Abbiamo solo Twitter e lui ha migliaia di troll stipendiati, gli AK-troll, ignoranti e non qualificati che fanno linciaggio mediatico».
Oltre le vignette, Yücel ha scritto un dossier sulle carceri, oggi fa il fotografo, ha fondato il magazine on line “Draje Dergi” e segue i mutamenti della sinistra turca: «Lo stalinismo è la base dell’estrema sinistra, ma sta perdendo il suo dominio nel movimento sociale perché hanno scoperto le autonomie, il movimento ecologico, il femminismo, l’obiezione di coscienza, l’Lgbt». I giovani turchi, seppur in larga parte manipolati secondo Yücel, si stanno laicizzando, vogliono “respirare” democrazia e sono cambiati dopo le rivolte del 2013. Su di loro e non su “creature preistoriche” devono convergere progetti politici futuri.
«Il popolo turco è tra i più conservatori del mondo, ma è politica, non si tratta di religione. Circa il 90 per cento dei turchi è musulmano ma solo il 20 è strettamente praticante. Siamo meno religiosi degli italiani. I turchi sono il popolo più moderato del mondo islamico con un massimo di 20 mila salafiti. L’islamismo rafforza il fascismo in Europa. Fascismo rafforzato dal jihadismo. Il fascismo e il jihadismo sono esattamente la stessa cosa creata da due culture diverse», spiega. Credo che l’Occidente sia un po’ ingenuo circa le organizzazioni islamiste. Ad esempio, aveva sostenuto l’Akp tra il 2002 e il 2013 e similmente i Fratelli Musulmani, pensava che fossero “moderati”. Ma l’islamismo non è una questione di religione. È una tendenza politica che è sempre totalitaria. Cercare un’organizzazione islamista moderata è come cercare un’organizzazione fascista moderata. Anche Gülen è molto pericoloso. Nessun futuro con gli islamisti, né con i fascisti. Per noi e per l’Occidente».