L'emergenza sanitaria ha convinto gli estremisti islamici ad allentare la tensione. Inaugurando la diplomazia del covid: aiuti ai civili e collaborazione con l’odiato governo di Kabul

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Sebak, in Afghanistan, il territorio è sotto il controllo dei Talebani. «E appena sono rientrato al mio villaggio dall’Iran, dove lavoravo, le autorità della guerriglia mi hanno messo in quarantena, come fanno con chiunque torni dall’estero», racconta Hamid, un 25enne cresciuto nella provincia di Wardak. Come milioni di afghani, era emigrato in cerca di lavoro per mantenere la famiglia, ma «quando l’epidemia di Coronavirus è cominciata in Iran, a fine febbraio, avevamo paura che noi afghani non saremmo stati aiutati né curati in caso ci fossimo ammalati. Si diceva anzi che se ti vedevano in giro senza documenti ti arrestavano o ti facevano sparire, a prescindere se eri malato o meno. Molti miei amici sono scomparsi e non sappiamo dove siano, girano voci terribili».

Anche se questi “rumors” sono forse infondati, certo è che negli ultimi due mesi migliaia di afghani sono scappati dall’Iran per sfuggire all’epidemia, rimpatriando e mettendo in allerta sia gli alti ranghi dell’opposizione armata talebana sia il governo nemico di Kabul, colti entrambi impreparati ad affrontare un’epidemia. «Quando sono tornato quasi nessuno nel mio villaggio sapeva che cosa fosse il Covid-19. I capi locali talebani invece erano al corrente e mi hanno detto di correre in ospedale per un controllo. Sono andato alla clinica del mio distretto, ma vista la mancanza di mezzi mi hanno trasferito in ambulanza all’ospedale provinciale di Maidan Shahr, la capitale della provincia di Wardak».

In altri termini, Hamid ha passato - con il consenso di entrambe le parti - la linea di guerra che divide il Paese: Maidan Shahr, un centro a circa 80 chilometri da Kabul, è infatti sotto il controllo del governo. «Lì mi hanno preso un campione di sangue dal collo e lo hanno mandato in un laboratorio di Kabul. Sono rimasto in ospedale una settimana prima che i risultati arrivassero, confermando che ero negativo. Sono quindi tornato a casa, di nuovo dalla parte di Paese in mano ai talebani».

Quello di Hamid è un episodio tra i tanti della collaborazione di fatto, completamente inedita, fra il governo ufficiale di Kabul e la guerriglia talebana, che ora lottano insieme contro il coronavirus. Ufficialmente, a fine aprile il numero dei contagiati in Afghanistan era di 1.330, con due focolai, uno a Kabul e uno a Herat. I morti secondo il ministero della salute sono una cinquantina. Ma la paura è tanta, perché i casi reali potrebbero essere molti di più visto lo scarso numero di test fatti (7 mila su 35 milioni di abitanti). E proprio i rimpatri dall’Iran sono la fonte maggiore di preoccupazione. Di qui la collaborazione tra i due fronti.

Zabihullah Mujahid, portavoce dell’Emirato Islamico Talebano, ammette con L’Espresso che «ci sono degli accordi con delle Ong che portano i casi di sospetti positivi dalle nostre aree agli ospedali sotto il controllo dell’amministrazione di Kabul». E ci spiega: «Noi abbiamo delle cliniche con servizi molto basici e qualche camera separata per i pazienti. Trasferendoli con un’ambulanza possono essere controllati attraverso i laboratori della capitale. Per ora non abbiamo avuto un singolo caso positivo nei nostri territori», continua. Spiegando anche come avviene la collaborazione: «Non abbiamo contatti diretti con l’amministrazione di Kabul. Però Ong, Croce Rossa e Organizzazione mondiale della sanità fanno da mediatori. La guerra è un affare separato dalla salute pubblica».

I territori controllati dai talebani sembrerebbero quindi essere in qualche modo coperti da un punto di vista sanitario. Ma i danni che un’epidemia potrebbe fare sarebbero devastanti, viste le condizioni delle loro strutture. «Non ci sono ancora casi di positivi qui nella provincia di Wardak», ci dice il dottor Sefatullah, un medico locale di una ong tedesca che finanzia un ospedale, «ma non abbiamo la minima idea del numero di persone che sono tornate dall’Iran. E anche se i talebani ci sostengono, distribuiscono materiale e cercano di sensibilizzare, il livello di coscienza generale è molto basso. Un’epidemia potrebbe fare più morti di 18 anni di guerra. Però almeno adesso ci lasciano entrare e uscire dai territori nemici tra loro senza nessun problema, è già qualcosa».

Intanto i talebani, sul loro sito “Alemarah” e su Twitter, pubblicano annunci e video mostrando riunioni informative per la popolazione, distribuzione di materiale igienico di base come guanti e gel. «Dall’inizio dell’epidemia, abbiamo ascoltato i nostri leader», ci dice il loro portavoce Hafiz Mandani. «Abbiamo informato le persone sulla crisi, facendo arrivare esperti da territori fuori dal nostro controllo e abbiamo diviso le moschee, le scuole e i bazar. La leadership ci ha inviato materiale sanitario come sapone, guanti e materiale informativo su come prevenire la propagazione. Nella provincia abbiamo una quarantina di ospedali e il personale sanitario è quasi tutto locale. Per fortuna abbiamo l’aiuto di ulteriore personale specializzato proveniente dalle Ong. A Wardak, ad esempio, collaboriamo con l’associazione svedese Swedish Committee. Ripeto: non siamo in contatto diretto con il governo, ma se Kabul ha un messaggio da dare alla gente, lo può dare a loro e noi lo trasmettiamo».

L’Ong Swedish Committee conferma all’Espresso le parole di Mandani: «Neutralità e imparzialità politica hanno fatto si che potessimo lavorare liberamente in tutte le aree del paese», dice il dottor Hafizullah Malang, responsabile dei progetti regionali. «Il governo non può arrivare dove noi possiamo. Facciamo sensibilizzazione, portiamo materiale medico e gestiamo strutture sanitarie. Dall’inizio dell’epidemia, soprattutto a Herat, sia i talebani sia il governo si sono attivati. I talebani ci hanno sempre facilitato il lavoro e possiamo trasportare i pazienti con le nostre ambulanze negli ospedali del governo. Bisogna però dire che non hanno nessuna nozione tecnica: imparano dai media. E i loro dipendenti nelle strutture sanitarie spesso non sono neppure professionisti».

Anche dall’altra parte, quella del governo di Kabul, confermano gli accordi di fatto in corso. Ci dice Wahidullah Mayar, portavoce del ministro della sanità: «Dall’inizio della crisi i talebani sono stati cooperativi. Speriamo davvero che questo possa unirci e portarci a un cessate il fuoco, visto che ogni giorno muoiono afghani da entrambi i lati. Inoltre, la nostra situazione economica precaria e le nostre strutture disastrate potrebbero portarci a un collasso generale, se si arrivasse a una pandemia. Le Ong possono entrare nei territori talebani e così il governo può dare sostegno a tutti, senza discriminazione. E quando di là c’è un problema, i nostri ospedali sono pronti».

Ma il vero ostacolo nel Paese sembra essere a monte, nella fase di prevenzione, da entrambe le parti: la gente non rispetta le distanze e i negozi sono tutti aperti. «A Jalalabad, Kabul e altre città, alcune zone sono piene di gente. I quartieri diplomatici e il centro della capitale sono chiusi, con i soldati ai check-point che fermano chiunque, ma nelle altre aree il traffico è ancora peggio del normale», racconta un abitante di Kabul che preferisce restare anonimo.

Anche nei territori della guerriglia, la stessa cosa: «Non ci sono restrizioni di nessun tipo e andiamo in moschea come al solito», ci dice Manzur Khan, 30 anni, abitante del distretto di Khushi controllato dai talebani, nella provincia di Logar. «Qui ci sono due tipi di persone: chi conosce il problema ma non se ne preoccupa affatto e chi invece è spaventato e non mette il naso fuori di casa. Ci sono stati anche casi di gente fuggita dagli ospedali per paura di contrarre il virus lì. Nei centri più grandi i talebani hanno fatto raduni per informare la popolazione e nel Paese sono stati usati tutti i metodi di comunicazione, coinvolgendo anche i leader tribali. Ma un conto è sensibilizzare, un altro vedere un cambiamento nel comportamento. Ci vorrà del tempo».

Tempo che l’Afghanistan sembra putroppo non avere. Guerra, povertà e soprattutto un’economia dipendente dagli aiuti finanziari di una comunità internazionale in ginocchio, che ora guarda a se stessa. Ecco perché, anche se il lockdown è formalmente in vigore, il governo sembra avere le mani legate. «Non vogliono mettere troppa pressione sulla popolazione per timore di rivolte, sanno che molti faticano a mangiare. Se ti vedono per strada in difficoltà, ti lasciano andare. E permettono perfino che alcuni vadano di là ad arruolarsi con i talebani per sopravvivere», ci dice un anonimo cittadino di Kabul.

In questo quadro, l’unica certezza è appunto la provvisoria collaborazione tra i due fronti armati, forse anche causata da esigenze di propaganda di entrambi. Ma intanto la situazione militare resta bloccata: anche dopo la firma dell’accordo di pace fra i talebani e gli Stati Uniti lo scorso 29 febbraio a Doha, i guerriglieri non hanno deposto le armi. I problemi anzi sono cominciati subito, con il rifiuto del governo di rilasciare 5 mila prigionieri, come da accordi, in cambio di mille soldati afghani. «Ora stiamo combattendo solo al 40 per cento delle nostre forze», afferma Mujahid. Che aggiunge: «Abbiamo fronti aperti in quattro regioni principali, da sud a nord. Se i prigionieri non verranno rilasciati e gli americani non smetterranno di sostenerli, potremmo anche aumentare la violenza». Appena finirà il virus.