
La dottoressa D.J. ce ne parla in piena notte, quando ha appena finito uno dei turni massacranti che sono ormai la sua routine. È una donna di mezza età, vive a New York da anni. Da medico in questa città ne ha viste tante, ma mai come questa. «Il protocollo e le ore di lavoro cambiano molto in fretta, stiamo cercando tutti di creare quanti più posti letto possibili per affrontare l’apice che verrà. Ma non ne abbiamo abbastanza», dice. Il picco, secondo le previsioni del governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo, è previsto tra la metà e la fine di aprile, quando secondo i suoi calcoli ci saranno 110 mila persone in ospedale di cui almeno 30 mila in terapia intensiva in tutto lo Stato.
Quello che si può scrivere della dottoressa D.J. è che la struttura ospedaliera in cui lavora è una delle più importanti e blasonate di New York. Nonostante questo la crisi di coronavirus è arrivata anche qui, quasi da un giorno all’altro, tra le mura private della terapia intensiva, come una mareggiata impossibile da arginare: «Ciò che ha reso molto frustranti le ultime settimane è che noi lo sapevamo, ma nessuno ai vertici ci ha ascoltato», dice la dottoressa D.J. «Io, le mie colleghe e i miei colleghi siamo pronti, ma siamo troppo pochi». Sa che cosa sta arrivando, la dottoressa: lo ha visto in Cina prima e in Italia poi: «E penso che qui sarà molto peggio sia di Wuhan sia di Bergamo».
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New York, fuori dagli ospedali sovraccarichi, a noi italiani può sembrare un deja-vu, per quanto ambientato tra i grattacieli. Ristoranti e bar chiusi (per decisione del governatore Cuomo) così come tutti i musei, i teatri di Broadway, le biblioteche, naturalmente le scuole e le università. I newyorkesi però, almeno in parte, sembrano non aver ancora capito la gravità dello tsunami che sta arrivando: camminando per Manhattan si vede gente che si gode le belle giornate di primavera al parco come se nulla fosse, senza mascherine o guanti. E c’è chi fa la spesa o va in banca senza rispettare i due metri di distanza di sicurezza richiesti a gran voce dalle istituzioni.
In compenso, dopo un periodo in cui in città è stato difficilissimo ottenere un test, il sistema dei tamponi ora è diffuso e sembra funzionare: sono migliaia le persone testate ogni giorno gratuitamente in città e bastano poche ore per sapere se si è positivi. La situazione è molto migliorata dopo un deciso intervento del governatore Cuomo: «Siamo letteralmente a caccia di positivi da coronavirus», dice spesso nelle sue conferenze stampa giornaliere da Albany, capitale dello Stato. La strategia è capire dove i contagiati si trovano per isolare loro e la loro cerchia di persone, un po’ come hanno fatto in Corea del Sud.
Sono ancora troppi, invece, i dubbi relativi al costo delle cure, per le quali le bollette a sorpresa sono dietro l’angolo. Di questo si saprà di più tra qualche settimana quando le compagnie assicurative potrebbero inviare le loro fatture ai pazienti che adesso sono in terapia intensiva a lottare per la vita. Il sistema assicurativo privato americano è infatti articolato e complesso: chi sta male ovviamente viene curato, ma spesso non sa se la propria polizza copre tutte le cure che riceve o solo una parte. Quindi la paura è appunto quella di vedersi arrivare a casa, dopo la guarigione, richieste per migliaia di dollari. «E l’ondata dei ricoveri è solo all’inizio», dice la dottoressa D.J. «C’è stata a lungo l’arroganza di credere, a livello federale, che questo non fosse un problema americano, che fosse un "virus cinese" e non una pandemia», continua. «Dopo aver sentito le esperienze di altri miei amici medici in Italia e in Spagna, le ho condivise con molti colleghi qui: alcuni mi prendevano per pazza».
E ora, nel momento del massimo bisogno, a mancare nel suo reparto è letteralmente di tutto: «Abbiamo due problemi enormi. Il primo è che gli operatori sanitari non hanno la protezione adeguata», spiega la dottoressa, e racconta il caso di Kious Kelly, infermiere di 48 anni morto in una struttura sanitaria dove il personale era stato costretto a utilizzare anche sacchi della spazzatura per proteggersi. «Le sembra normale che il Paese più potente del mondo vada in carenza di kit per gli infermieri a pochi giorni dallo scoppio di una crisi pandemica?», si chiede D.J. Il secondo problema è che manca personale specializzato: «Non ci sono abbastanza infermieri capaci di lavorare con un ventilatore correttamente. E le istituzioni, anche federali, lo sapevano: abbiamo solo fatto finta non fosse così».
La lotta contro la pandemia negli Stati Uniti è appena iniziata. Anthony Fauci - l’immunologo considerato la massima autorità Usa in materia, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases - ha previsto tra le 100 mila e le 200 mila vittime, da qui all’estate. Trump ha confermato che «con meno di 100 mila morti avremo fatto un buon lavoro». Commenta con l’Espresso Antonio Giordano, patologo e genetista italiano che dal 1992 lavora a Philadelphia, autore di più di 400 pubblicazioni scientifiche: «Fare una previsione più precisa, ora, è molto difficile perché non abbiamo a disposizione abbastanza dati per fare delle valutazioni realistiche sul rischio di diffusione. L’attuale imposizione del "travel-ban" non è sufficiente e la pratica del distanziamento sociale, che potrebbe aiutare a limitare la diffusione del virus, non viene praticata adeguatamente negli Stati Uniti oggi. Gli Usa sono semplicemente troppo grandi e le persone si muovono facilmente. È un Paese dove le persone, anche in questi giorni di crisi, non hanno smesso di viaggiare da uno Stato all’altro, coprendo grandi distanze. Così diffondono il virus in diverse zone e con una diversa incidenza».
E gli effetti si stanno già vedendo. Nell’Illinois, un paio di settimane fa, è stata registrata la vittima più giovane del Covid-19: un bambino di nemmeno un anno. In Louisiana April Dunn, 33 anni, membro dello staff del governatore John Bel Edwards, ha perso la vita a seguito di complicazioni da coronavirus, mentre la capitale New Orleans sta diventando, con Detroit e Chicago, un nuovo epicentro del contagio.
Il virus si muove in fretta, anche in Florida e in Texas, dove un’infermiera come Jackie Salon, californiana che vive a Austin, racconta la sua sensazione di paurosa attesa: «Per ora abbiamo solo qualche caso in terapia intensiva ma la tensione è altissima: se la situazione è così a New York, dove hanno le strutture migliori, qui potrebbe andare molto peggio».
E i problemi non sono diversi né nel Connecticut né nel New Jersey, dove un chirurgo italiano di un importante ospedale al confine con New York ci dice la classica frase che abbiamo sentito tante volte in Lombardia: «Siamo al collasso». Anche lui, come D.J., chiede di rimanere anonimo: «Non sono in prima linea perché il mio ruolo non è legato alla crisi, ma già ora non mi arrivano più le mascherine di cui normalmente dispongo per i miei interventi: vengono date tutte ai colleghi che hanno a che fare col virus», racconta. «Una N95 me la faccio durare una giornata intera, molti del mio reparto sono in quarantena e gli infermieri stanno affrontando questa emergenza senza le dovute protezioni», aggiunge. Poi spiega: «Applicare un ventilatore a una persona non è uno scherzo o un gioco da ragazzi: il paziente è consapevole di quello che sta succedendo, è facile che si muova, che tossisca ed emetta saliva, durante il procedimento». Senza essere adeguatamente protetto, «un infermiere contrae il virus come se nulla fosse».
Racconta all’Espresso Sumiyah Gordon, infermiera 31enne laureata alla Columbia University: «Il numero di pazienti in arrivo negli ultimi giorni è aumentato e c’è già carenza di tutto. Mancano le mascherine N95 e spesso accogliamo i pazienti senza guanti». Infermiere come lei, pur non lavorando in terapia intensiva, ricoprono un ruolo importante perché si occupano della parte della popolazione più debole e più esposta al coronavirus: gli homeless. «Sempre più senzatetto vengono qui con febbre e tosse. Se risultano positivi li trasportiamo agli "shelter Covid" che lo Stato di New York ha dedicato». I due principali sono a Brooklyn e nel Bronx, dove però i numeri in crescita di casi positivi stanno già mettendo a dura prova la loro capacità. Spesso non c’è più spazio e molti senzatetto sono costretti a ritornare da dove sono venuti, propagando il virus facilmente. «È stato messo in atto il piano più solido che abbiamo», dice Sumiyah, «ma questo rischia di non essere sufficiente, anche perché tracciare i movimenti di tutti gli homeless risultati positivi è quasi impossibile».
E le differenze di classe si fanno sentire anche per chi una casa ce l’ha. Uno studio recente curato dallo United Hospital Fund Neighborhood di New York ha dimostrato che in termini percentuali il maggior numero di positivi abita nei quartieri meno abbienti e più densamente popolati della città. Se nell’Upper East Side e Upper West Side di Manhattan (o a Park Slope a Brooklyn) risulta positivo al coronavirus tra il 40 e il 50 per cento di chi effettua il test, in aree come High Bridge e Mott Haven nel Bronx, West Queens e Jamaica nel Queens, East Flatbush a Brooklyn, il range di positivi è tra il 68 e l’86 per cento.
Nonostante lo Stato di New York abbia dimostrato di avere un piano, il numero di morti continua a crescere e il rumore delle sirene nelle avenue della città si fa sempre più frequente. Domenica scorsa, una fotografia scattata da un’infermiera del Nyc Hospital ha scioccato la città: dentro il camion nell’area davanti all’ospedale c’erano i corpi di chi era morto di Covid nelle ore precedenti.
Di camion così ce ne saranno sempre di più, da qui alle prossime settimane, in quella che una volta, per i turisti, era chiamata la Grande Mela.