
Con la pandemia l’assertività si è trasformata in aggressività, alimentata da un cocktail di bullismo diplomatico, pressioni su governi e aziende, influenze sulle università e creazione di fake news, non solo sui social ma anche sui media tradizionali. Soprattutto in Europa. «Pechino non può permettersi un’altra situazione post strage di Tiananmen del 1989, quando venne isolata dal mondo», spiega Lucrezia Poggetti, analista di Relazioni Europa-Cina per l’istituto tedesco Merics, «per cui, nella logica che la miglior strategia è l’attacco, ha dato avvio a una grande campagna di soft power».
L’obiettivo contingente è chiaro: fare dimenticare che il virus che sta sconvolgendo il mondo è partito dalla città meridionale di Wuhan, sede, oltre che di un mercato di animali selvatici, anche di due laboratori virali. La mossa di difesa-attacco cinese gira intorno alla pubblicizzazione di una reazione tempestiva alla pandemia come dimostrazione della bontà del suo governo. «Molte persone in fondo ammirano l’efficacia del nostro sistema politico e odiano l’incapacità del proprio Paese di fare altrettanto bene», scrive in un tweet del 27 marzo l’ambasciata cinese in Francia, quando la diffusione del virus in Cina cominciava a essere sotto controllo e dopo che il Paese aveva distribuito, sempre di fronte a grandangoli e microfoni, milioni di mascherine (non tutte gratis e non tutte funzionanti): «Nel momento in cui l’epidemia si è scatenata ovunque è stata la Cina il Paese a cui il mondo intero ha chiesto aiuto e non gli Stati Uniti, “faro della democrazia”».
Saltando politici e media, la Cina ha trovato l’occasione del virus per rivolgersi direttamente ai cittadini europei e vendere loro non solo merci ma anche un’alternativa politica all’interno di un ordine mondiale gestito benevolmente da Pechino e non più da Washington. Gioco mai stato facile come ora, grazie a un Donald Trump alla Casa Bianca che ha lasciato soli, in balia dell’alternativa cinese, i suoi partner europei.
L’Ue fino all’anno scorso non nutriva dubbi sui rapporti con Pechino. La Francia (con la sua grande distribuzione) e soprattutto la Germania (con le sue automobili e i suoi componenti per treni veloci) hanno guadagnato cifre enormi dall’interscambio degli ultimi trent’anni con il Dragone. L’Italia ha seguito, in ritardo. E Pechino, strategicamente, ha mantenuto le sue relazioni sul doppio binario dei rapporti con l’Unione e di quelli con i singoli stati, così da incidere indirettamente nelle decisioni a 27. Ma nel 2019, con l’aggressività di Trump verso Pechino e l’incerto equilibrio politico europeo, qualcosa è cambiato. Bruxelles ha indicato la Cina come “rivale sistemico” e ha aperto un timido fascicolo Cina all’interno della Unità strategica contro la disinformazione del Servizio di azione esterna (l’Eeas, il braccio della Commissione che si occupa di Affari esteri), rafforzato poi nei primi mesi di quest’anno.
La piccola divisione del dipartimento comunicazione dell’Eeas fu voluta nel 2015 dagli stati europei dell’Est per combattere l’allora incipiente disinformazione russa, molto attiva in un primo tempo tra gli ex alleati del periodo sovietico, soprattutto in Polonia. Ma da un anno a questa parte Pechino non solo ha preso a copiare il metodo russo di diffondere falsi tweet e notizie taroccate ma, approfittando della crisi editoriale, ha anche incrementato la diffusione (a pagamento) della sua propaganda sui maggiori quotidiani europei, dal Financial Times a Il Sole 24 Ore (che il 12 aprile ha ospitato quattro pagine di “China Focus”, dopo aver pubblicato, lo scorso autunno, una pagina a sostegno di Pechino durante le proteste di Hong Kong).
Non solo. Per distogliere lo sguardo dalle sue responsabilità (finora si è rifiutata di aprire i laboratori di Wuhan e di fare luce su come si sia diffuso il virus) Pechino ha preso a far girare teorie complottiste sull’origine del virus, tante e in contraddizione tra di loro, come da manuale. Secondo il diplomatico nazionalista Zhao Lijian, ad esempio, il Covid-19 sarebbe stato portato dagli Usa in Cina durante le Olimpiadi militari di novembre, mentre secondo l’organo di partito “Global Times”, che cita a sproposito il virologo italiano Giuseppe Remuzzi, sarebbe originato in Italia prima di Natale. E per contrattaccare la Cina ha anche prodotto un cartone animato: da una parte una versione in miniatura della Statua della Libertà, dall’altra un guerriero in terracotta che indossa una mascherina, incaricato di ridicolizzare gli errori degli Usa mella gestione dell’emergenza. Ma la propaganda passa pure per le vie diplomatiche arrivando così ai media: «Alcune persone accusano la Cina di aver nascosto notizie sull’epidemia: questo è un “virus politico” ancora più terribile», ha ammonito per esempio sul Corriere della Sera del 1 maggio il console cinese a Milano Song Xuefeng.
Ed è l’Italia (dove il ministro degli Esteri ha incoraggiato la propaganda cinese di benevolenza, affermando che «chi ci ha deriso sulla Via della Seta ora deve ammettere che investire in questa amicizia ci ha permesso di salvare vite») il Paese in cui la disinformazione cinese avrebbe più calcato la mano. Sui social media sono addirittura spuntati video di cittadini che applaudono dai balconi col sottofondo dell’inno nazionale cinese e si sono moltiplicati i tweet entusiasti ai post dell’ambasciata cinese in Italia con l’hashtag #GrazieCina e #ForzaCinaItalia, frutto per la maggior parte di bot, come riscontrato da uno studio di Formiche.net. Anche perché, come si è poi saputo più tardi, milioni di mascherine cinesi sono risultate inutilizzabili e i mille respiratori li abbiamo pagati alla Cina. Senza contare che, quando la Commissione europea ha deciso ai primi di maggio di lanciare una vera raccolta fondi globale con cui investire per la ricerca e diffusione di un vaccino in tutto il mondo, offrendo alla Cina un’occasione concreta di essere utile, questa ha deciso (insieme a Usa e Russia) di non partecipare, sostenendo di avere già contribuito abbastanza.
Lo studio sull’Italia è tra quelli citati nell’ultimo, contestato rapporto dell’Eeas sulla disinformazione in Europa, pubblicato lo scorso 24 aprile e diventato metafora dell’ambiguità europea nei confronti della Cina. La Commissione è stata accusata da media e europarlamentari di avere annacquato il rapporto originale dell’unità di lotta alla disinformazione che puntava il dito soprattutto su Pechino, a seguito di due telefonate alla delegazione Ue in Cina e di pressioni a Bruxelles. E se l’Alto rappresentante Josep Borrell ha negato il 30 aprile di essersi piegato alla volontà cinese, fonti del suo entourage spiegano all’Espresso che non tutte le informazioni e i giudizi che circolano internamente possono essere pubblicati se non tutti gli Stati membri (leggi Italia e Grecia che in passato hanno impedito l’unanimità su decisioni riguardanti Cina e diritti umani) sono d’accordo, e, a maggior ragione, quando Bruxelles «sta negoziando importanti accordi» con Pechino.
Una nemmeno tanto nascosta ambizione della prossima presidenza tedesca dell’Unione sarebbe infatti quella di chiudere il trattato commerciale in discussione da anni con la Cina per mettere fine agli oltre 80 accordi bilaterali con i singoli stati membri. «I timori di ritorsioni economiche da parte di un Paese con cui la Germania ha un forte avanzo commerciale fanno fare avanti e indietro alla cancelliera tedesca Angela Merkel sull’atteggiamento da tenere verso Pechino», aggiunge Poggetti: «Certo è che la Germania non è contenta ». Soprattutto dopo avere sopportato (e poi respinto) gli sforzi di Pechino di convincerla a dipingere in una luce positiva la gestione cinese dell’epidemia. Per non parlare della rabbia del governo francese accusato dalla solita iperattiva ambasciata cinese a Parigi (il cui sito assomiglia sempre più a un pamphlet politico) di aver permesso ai lavoratori sanitari di abbandonare le case di cura, lasciando morire gli anziani residenti.
I timori sono che il coordinamento della propaganda estera sul Coronavirus sia solo l’inizio di un’offensiva politica cinese sempre più pressante alla conquista dell’opinione pubblica europea. Non a caso, la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen, il giorno dopo l’audizione di Borrell, ha immediatamente chiesto a Pechino chiarezza sulle origini dell’epidemia.
Al momento l’unica certezza è che la prima nazione ad avvisare l’Organizzazione mondiale della sanità è stata Taiwan, il 30 dicembre, lo stesso giorno in cui l’oftalmologo Li Wenliang avvertiva alcuni colleghi su WeChat dell’esistenza di una nuova pericolosa forma di infezione polmonare (e curiosamente Taiwan nemmeno fa parte dell’Oms, proprio per il veto cinese). Pechino ha chiamato l’Oms solo il 3 gennaio, giorno in cui ha spedito la polizia a casa di Wenliang. La morte per Covid-19 del dottore, il 7 febbraio, tre giorni dopo la sua riabilitazione da parte del regime, fu seguita online da milioni di cinesi dentro e fuori il Paese, così da convincere la dirigenza del bisogno di una potente campagna di controinformazione, non solo interna.
«Fino a oggi in Europa la Cina entrava nei dibattiti solo per le questioni economiche», dice Poggetti. «È ora che cominciamo a parlarne anche sul piano politico e a considerare i costi politici degli accordi economici». Soprattutto adesso che il tema della sicurezza sanitaria, militare ed economica si è rivelato cruciale per la nostra società.