Il dittatore Kim Jong-un continua a negare che l'epidemia abbia colpito il Paese. Ma i morti sarebbero migliaia, anche nell'esercito. E gli attivisti denunciano “strutture di isolamento” presidiate dalla polizia

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Quando Yeonmi Park era bambina, l’insegnamento numero uno che sua mamma le diede era di parlare il meno possibile. «La tua lingua è la parte del corpo più pericolosa che hai, in questo Paese, non dimenticarlo», ricorda l’attivista nordcoreana, ora 26enne, che dal regime di Kim Jong-il riuscì alla fine a scappare, proprio con la mamma, nell’ormai lontano 2007.

Da allora, gli equilibri del mondo sono cambiati. Negli Stati Uniti, dove Yeonmi vive (di base a New York) sono passati da due presidenti diversi: Barack Obama prima, poi Donald Trump, che ha incontrato due volte l’attuale dittatore di Pyongyang, Kim Jong-Un, succeduto nel 2011 al padre. Un mese fa il giovane dittatore era stato dato per morto, invece si era probabilmente solo messo al sicuro dal coronavirus in un resort balneare sulla costa orientale del Paese. Il Covid, appunto, la cui presenza in Corea del Nord viene ostinatamente negata dal governo.

«Sulla pandemia il regime sta dando il peggio di sé, mentendo alla comunità internazionale, ai suoi cittadini e operando con le peggiori violenze», denuncia Yeonmi Park, conosciuta per la sua fuga dal Paese durante la quale sia lei sia sua mamma sono state vittime di violenza sessuale, rapimenti e abusi di ogni genere. Una fuga iniziata dalla Cina e finita in Corea del Sud, dove arrivò via Mongolia dopo due anni come rifugiata. «Ora il mio obiettivo è di battermi come attivista per i giovani del mio Paese, dopo aver capito che cosa sia la libertà, un concetto che mio papà ha sempre eroicamente cercato di insegnarmi, ma di cui in Corea del Nord nemmeno si conosce il significato».

La questione Covid in Corea del Nord ha aspetti grotteschi. Il regime continua ad assicurare: zero contagi. Ma le immagini che arrivano dal Paese mostrano ancora tutte le persone munite di mascherina. E un focolaio è esploso pochi giorni fa nella provincia cinese di Jilin, proprio a ridosso del confine nordcoreano: un’area di scambi commerciali, quelli grazie ai quali la Corea del Nord sopravvive.

Ufficialmente soppressi durante la pandemia, questi traffici sono però in parte continuati clandestinamente, come documentato da fotografie satellitari. Inoltre il 23 aprile scorso un uomo che cercava di scappare dalla Corea del nord attraversando il fiume Tumen (che segna il confine con la Cina) è stato abbattuto dai colpi dell’esercito di Pyongyang ma il suo corpo è arrivato sull’altra sponda e l’autopsia ha scoperto che era positivo al virus. Mentre il dittatore ha ordinato la costruzione di diversi nuovi ospedali, ufficialmente senza correlazione col Covid.

«È ridicola e patetica questa bugia del governo», dice Yeonmi Park, che citando sue fonti riservate dice: «Dal Paese mi raccontano di episodi agghiaccianti: se hai i sintomi, non ti fanno nemmeno il test ma ti spediscono direttamente in quelli che chiamano “centri di quarantena”». Strutture che, spiega l’attivista all’Espresso, sono distribuite in tutto il Paese, «dalle grandi città ai piccoli villaggi» e dove «non ci sono dottori o personale medico qualificato, né cibo o ventilatori: se entri lì, devi sperare di uscirne da solo con le tue forze».

La maggior parte non ce la fa: «Svaniscono semplicemente nel nulla, spesso per la fame prima che per le complicazioni del virus». Uno di questi lazzaretti è stato identificato nella contea di Kilju, nel nordest del Paese: un’ex fabbrica di conservanti trasformata in una struttura di isolamento per i malati. Secondo il sito specializzato Dailynk.com, che cita fonti anonime locali, la polizia sorveglia la strada che conduce all’edificio in cui sono rinchiusi i contagiati.

Anche prima della pandemia, del resto, il regime nordcoreano costruiva prigioni clandestine: è una prassi rodata. Come denunciato lo scorso anno da Tomas Ojea Quintana, osservatore speciale Onu sulla condizione dei diritti umani in Corea del Nord, «sono continui gli aggiornamenti che ci arrivano sull’esistenza di campi di prigionia in cui le persone vengono spedite, senza processo, per ragioni politiche».

Strutture di detenzione, queste, conosciute con il nome di “kwanliso” dove «torture e maltrattamenti continuano a essere diffusi e sistematici». E nei quali, secondo quanto emerso da un rapporto redatto dalla commissione dei crimini di guerra della International Bar Association (Iba), sarebbero stati commessi dieci degli undici crimini contro l’umanità inseriti nello Statuto di Roma dell’International Criminal Court (Icc).

«È possibile credere che il numero di casi certificati di coronavirus sia pari allo zero, ma questo non significa che in Corea del Nord non circoli il virus», conferma Kee Park, docente universitario di Global Health and Social Medicine a Harvard Medical School. «I dati che abbiamo ci dicono che la media di test effettuati è di circa sessanta al giorno: il Paese non ha la struttura per farne di più e con queste cifre non è sufficiente avere un quadro preciso», continua il professore, a conoscenza di diverse Ong, alcune di queste americane, che operano per portare a Pyongyang e nelle altre province la strumentazione medica che manca.

«Il supporto giunto da fuori ha aiutato le autorità nord-coreane ad aumentare il numero di posti letto negli ospedali», spiega. Secondo quanto r iporta il professore, le proiezioni giunte sul tavolo del governo di Kim Jong-un parlavano di 150 mila morti potenziali da coronavirus. La capacità è di 13 mila posti letto e di appena 2.500 posti da terapia intensiva in tutto il Paese. La Corea del Nord del resto è al 193° posto su 195 nazioni nella ricerca della Johns Hopkins University del 2019 sulla sicurezza sanitaria globale.

«Anche per questo il governo di Pyongyang è stato tra i primi del mondo a imporre stringenti regole di quarantena» compresi i suoi ufficiali, chiudendo i confini con l’esterno e sospendendo «voli aerei e spostamenti interni non necessari». Il tutto in un contesto dove pure gli operatori sanitari non mancano: «Il problema è che non hanno sempre accesso alle pubblicazioni scientifiche internazionali e le strumentazioni sono vecchie, di trenta o quarant’anni fa, nonostante abbiano iniziato ad aumentare gli investimenti sulla sanità», spiega Kee Park.

Ma oltre a questo è stata messa in atto anche un’imponente e severa “strategia educativa”: «Hanno dato tutte le informazioni sul virus in modo continuo, tramite i loro organi di comunicazione: le persone devono aver avuto timore a uscire di casa», dice ancora il professor Park. Una campagna che, secondo la ricostruzione fatta da Jina Kim, docente della Oregon University, esperta di Corea del Nord e collaboratrice del portale 38north.org, ha creato uno stigma mentale all’interno di una popolazione già molto poco abituata a pensare con la propria testa: «È passato il messaggio che chiunque risultasse positivo al test diventasse un elemento da rifiutare, isolare e da evitare, all’interno della società, un elemento pericoloso: è quindi molto probabile che diverse persone nel Paese, dove c’è una cultura della sorveglianza rigidissima, abbiano finto di non avere sintomi o non si siano presentate in ospedale per timore delle ripercussioni, e non solo perché le cure non fossero disponibili».

Ufficialmente, delle persone testate nessuno è risultato positivo. Sarebbero poche centinaia anche le persone in quarantena precauzionale, dopo che è stato concesso a migliaia di nordcoreani di ricominciare timidamente a uscire dopo mesi di reclusione in casa.

Secondo Radio Free Asia, una delle voci indipendenti del mondo asiatico, la città cinese con cui la Corea del Nord dialoga quotidianamente, Sinuiju e almeno altre tre regioni di confine avrebbero fatto registrare infezioni da coronavirus, seppur in forma minore rispetto alla bomba cinese di Wuhan. Il primo decesso da Covid a Pyongyang sarebbe avvenuto il 7 febbraio. La prima vittima nella città di Chongjin, a otto ore di macchina dalla capitale, sarebbe avvenuta qualche giorno dopo, il 21.

Secondo la testata giapponese Yomiuri Shimbun a oggi sarebbero migliaia le morti, di cui almeno 100 tra gli ufficiali dell’esercito. «Uno dei racconti più scioccanti che mi sono arrivati riguarda proprio la città di Chongjin», spiega ancora l’attivista Yeonmi Park. Chongjin è un centro particolare. Nell’estremo nordest, con circa 600 mila abitanti, affacciato sul Mar del Giappone, è la terza realtà urbana più importante del Paese ed è un distretto industriale e siderurgico strategico per la Corea del Nord.

«Qui mi è stato riportato che una famiglia di cinque persone è stata lasciata morire da sola, rinchiusa con la forza in casa», dopo che uno dei membri aveva presentato sintomi del coronavirus. Ad aver fatto la spia sarebbero stati i vicini. «Per il timore che quella famiglia potesse diffondere il virus, le autorità li hanno costretti tutti a non uscire e nessuno ha portato loro cibo o medicine», dice ancora la Park. Che fosse per il virus o per l’assenza di sostentamento, «la famiglia è scomparsa nel giro di qualche settimana».

L’episodio di Chongjin apre lo squarcio sull’altro problema che sta mettendo in ginocchio le sorti della Corea del Nord: la fame. «Non si è potuto andare nemmeno al mercato per settimane e questo è un dramma, sia per chi ci lavora sia per chi compra gli alimenti», dice ancora Yeonmi Park. I nordcoreani oggi si preoccupano del coronavirus perché temono le misure punitive del governo, ma provano sulla loro pelle quale sia il primo dramma: «Non riescono a mettere insieme due pasti: chi è più benestante nella scala sociale ha comprato tutto il comprabile, prima dello scoppio della crisi, chi è più povero non ha nemmeno le briciole».

Vivere in questo momento in Corea del Nord, denuncia l’attivista con un paragone, «è come stare nel film “Hunger Games”: la motivazione è trovare come arrivare fino al giorno dopo e di combattere pasto per pasto». Insomma il virus c’è ma manca il tempo per pensarci, «bisogna solo sopravvivere».

Dalla Cina passa circa il 90 per cento del traffico commerciale del Paese e la chiusura di quel confine, durata settimane con camionisti e operatori della filiera alimentare costretti alla quarantena da entrambi i Paesi, ha provocato un danno profondo anche dal punto di vista economico, che il contrabbando non ha potuto compensare.

Nonostante le ultime decisioni abbiano portato a un allentamento dei divieti e oggi una certa vitalità al confine sembra sia tornata, siamo lontani ai livelli precedenti alla pandemia. «Quando avvenne la grande carestia all’inizio degli anni ’90, la politica di Kim Jong-il fu quella di dare priorità ai soldati e di dare le poche razioni di cibo disponibile a loro, non ai cittadini comuni», spiega ancora la professoressa Jina Kim all’Espresso. Ora non è chiaro che cosa accadrà: «Non sono sicura che l’attuale regime voglia applicare la stessa politica alimentare, ma è probabile che i nordcoreani delle aree rurali subiranno il peso più grave di questo problema».

Problema che si aggiunge alla paura di un’ulteriore diffusione del virus. In un video rilasciato dalla tv di Stato, quello in cui Kim Jong-Un è riapparso in pubblico dopo settimane, si sono viste centinaia di persone accalcate, una di fianco all’altra, per accogliere il leader. Pochi a rispettare il distanziamento fisico nonostante le mascherine. «Kim finge di amare il suo popolo, ma lo calpesta ogni giorno e pensa solo a sé: la pandemia è solo l’ultimo di un lungo elenco di crimini e bugie», conclude Yeonmi Park.