La guerra in Libia va avanti tra gli interessi di Turchia e Russia e i silenzi europei

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Al-Sarraj attacca con il supporto di Erdogan e dei ribelli siriani. Haftar risponde con l’aiuto di Egitto, Emirati, mercenari russi e Assad. Così il Paese ricco di gas e petrolio rimane sospeso nel limbo mentre il Vecchio Continente resta immobile

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Haftar ritira parte delle sue truppe dal fronte alle porte di Tripoli, Erdogan gioisce, la Russia media e cambia strategia, gli Emirati inviano armi in supporto del generale della Cirenaica e l’Europa sta a guardare. Così si potrebbe riassumere il recente cambio di passo della guerra libica. Se non fosse che, come sempre nel paese nordafricano, i piani di sovrappongono e le alleanze sono fluide.

Il 20 maggio scorso le forze del governo di Tripoli hanno sfilato nella capitale con un Pantsir, un sistema di difesa aereo costruito dalla Russia e finanziato dagli Emirati, bottino della riconquista della base aerea di al Watiya, che era in mano alle forze di Haftar dal 2014. Una settimana dopo il GNA (Government of National Accord, quello di Fayez al-Sarraj) ha riconquistato i campi di Yarmouk, al Sawarikh e Hamza, a sud della capitale. Sono solo le ultime vittorie sul fronte di Tripoli da quando Erdogan sta supportando con uomini e mezzi il governo di al-Sarraj.

Prendere al Watiya segna un passaggio decisivo della guerra, sia in termini strategici - la base militare è vicina al confine tunisino ed era utilizzata dagli aerei del generale Haftar per attaccare Tripoli - sia perché la vittoria ha rafforzato il morale delle truppe.

L’«offensiva-lampo» lanciata da Haftar 14 mesi fa, l’attacco che nei suoi piani avrebbe dovuto essere solo una formalità, si è trasformata in una guerra di interessi. Haftar è sostenuto dagli Emirati e dall’Egitto, e le sue truppe rafforzate da mesi dalla presenza di mercenari russi del gruppo Wagner e mercenari sudanesi e ciadiani. Un anno fa c’erano tutte le premesse affinché, fallite le negoziazioni politiche, una rapida soluzione militare consegnasse il paese a una dittatura in stile egiziano.

Mentre Haftar avanzava verso la capitale e continuava a boicottare tavoli di trattative conducendo una guerra che ha prodotto centinaia di morti e 400 mila sfollati, il governo di Sarraj, sostenuto dalle Nazioni Unite ma trascurato nei fatti dagli storici alleati europei, ha stretto due accordi con la Turchia di Erdogan: uno sulle aree di giurisdizione marittima nel Mediterraneo e uno sulla cooperazione militare. La Turchia si è dichiarata pronta ad aiutare il premier di Tripoli a patto di rafforzare i propri interessi i nella regione, e non solo economici perché Ankara vuole anche rafforzare la presenza della Fratellanza Musulmana contro i rivali Emiratini. Un do ut des. Così Erdogan ha fornito a Sarraj droni, sistemi missilistici, blindati, personale addestrato e migliaia di ribelli siriani, elementi che hanno trasformato la guerra di Libia in una guerra di Siria nordafricana, e reso la partita per Tripoli simile a quella di Idlib, cambiando le sorti del conflitto.

Gli Emirati Arabi Uniti hanno effettuato 900 attacchi aerei con droni da combattimento cinesi, la Turchia ha risposto schierando droni Bayraktar TB2 nel tentativo di aiutare il GNA a resistere all’attacco. La Turchia ha inviato tremila miliziani siriani ribelli mentre altri duemila siriani fedeli al regime di Bashar al Assad, starebbero invece combattendo a fianco delle forze di Haftar, che in risposta ha aperto una sede diplomatica a Damasco.
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Secondo i dati analizzati dallo specialista di localizzazione di aeromobili Gerjon, «negli ultimi mesi ci sono stati numerosi voli dagli Emirati verso la Libia e Sidi Barrani, in Egitto, che sembra essere una fermata intermedia sulla rotta verso la Libia. Dal lato di Tripoli, invece, nell’ultima settimana l’aeronautica turca ha volato regolarmente in Libia con il supporto dei Globemaster del Qatar C-17A». Gerjon conferma i dati sui voli diretti dalla Siria: «Principalmente voli da Latakia verso aereporti affiliati alla Libyan National Army (LNA) di Haftar. Ed è ormai chiaro che Cham Wings (compagnia aerea privata siriana, con base a Damasco, ndr) è coinvolta nel trasporto di mercenari centrafricani in Libia via Latakia».
L’attuale situazione libica sconta fortemente la debolezza e l’incertezza europea, ne è conseguenza diretta, secondo Jalel Harchaoui.

Research Fellow al Clingendael Institute de L’Aia, spiega che «la Libia occidentale è ormai diventata un protettorato turco, e a questo punto è improbabile che la Turchia se ne vada. Ma rimane una domanda: cosa significa esattamente Libia occidentale? Si ferma a Sirte o include Oil Crescent? Contiene il Fezzan? Include al-Jufrah? Rispondere a ognuna di queste domande significa prevedere un sanguinoso conflitto».

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Ora gli occhi sono puntati alle prossime mosse di Haftar. Che nel discorso al paese alla vigilia del Ramadan, il 27 aprile, ha annullato gli accordi del 2015 rivendicando un mandato del popolo per assumere la guida militare, anche se solo tre giorni dopo, Ahmed Mismari, portavoce del suo esercito, dichiarava di accettare la richiesta della comunità internazionale di attuare una tregua durante il mese sacro del digiuno.
Contraddizioni di un uomo non più forte come prima e ormai sulla difensiva su molti fronti. Haftar sa che il prossimo obiettivo di Sarraj e del suo alleato turco sarà la roccaforte Tarhuna, 90 chilometri a sud est della capitale, e sa che perderla significa perdere la guerra, perché Tarhuna è il principale centro operativo del suo esercito nell’Ovest ed è da lì che vengono rifornite le sue truppe di armi e approvvigionamenti.

Haftar ha finora agito in un clima di quasi totale impunità. La comunità internazionale è stata timida, se non assente, quando ha lanciato l’offensiva su Tripoli e di nuovo tiepida ogni volta che il generale della Cirenaica ha fatto saltare i tavoli negoziali. Anche quando, nelle stesse ore in cui si discuteva la possibilità di una soluzione negoziale a Berlino, le milizie che lo sostengono hanno bloccato i pozzi petroliferi, provocando danni di un miliardo e mezzo di dollari al mese alle casse dello Stato e aerei emiratini rifornivano di armi le sue truppe.

La partita vera, come sempre in Libia, torna sempre lì. Al gas e al petrolio. Perché se è vero come è vero che Haftar è indebolito e in ritirata in molte aree, è altrettanto vero che la maggioranza dei pozzi resta sotto il suo controllo. Eche dalle entrate della vendita del petrolio e del gas si sostiene lo Stato, cioè gli stipendi pubblici cioè - anche - le paghe dei suoi soldati. Ecco perché la guerra di Tripoli è stata e continua ad essere anche una guerra per indebolire sia il NOC (National Oil Corporation, unica istituzione deputata a vendere greggio) sia la Banca centrale Libica. Se Haftar riuscisse nell’impresa di vedere riconosciute delle istituzioni omologhe sotto il suo controllo, i proventi delle esportazioni non sarebbero più spartite con il governo di Tripoli, la capitale resterebbe strozzata e cadrebbe velocemente.

Difficile dunque pensare che gli Emirati rinuncino ora al piatto ricco del petrolio, più probabile e temibile che le battaglie che si stanno preparando siano più feroci di quelle cui abbiamo assistito finora. Il ministro degli Interni del governo di Sarraj, Fathi Bashaga ha dichiarato che Haftar ha «zero chance» di prendere la città. Eppure le truppe si stanno muovendo, armate dagli alleati. Secondo il Financial Times, la Russia avrebbe dispiegato otto aerei da combattimento nell’est della Libia. Bashaga ha confermato a Bloomberg di avere informazioni sull’arrivo in Cirenaica di sei aerei da combattimento MIG-29 e due Sukhoi24 direttamente dalla base di Hmeimim in Siria.

L’elemento imprevedibile sono gli Emirati, partner di molti governi europei che non vogliono conflittualità nel golfo. «Il principe ereditario di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed continuerà a combattere e sabotare Tripoli. Gli Emirati si occupano principalmente di immagine e ideologia, non di efficacia militare o di sicurezza nel senso convenzionale del termine. Infine, sono ricchissimi, quindi possono permettersi di andare avanti», dice Jalel Harchaoui.

Turchi e russi, invece, hanno obiettivi comuni: sono rivali ma non nemici, in cerca di accordi strategici che tutelino gli investimenti a lungo termine sulla regione. Continua Jalel Harchaoui: «La Russia gode di un certo grado di coordinamento con la Turchia e non desidera bruciare ponti con essa. Le due potenze non europee e non arabe non sono certamente alleate, ma non sono neppure nemiche. Questo spiega molto della cinica realpolitik a cui stiamo assistendo».

Intanto i mercenari e le truppe muovono verso sud. La guerra in Libia è tutt’altro che finita.

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