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Bandiere euopee
La polemica politica intorno alla questione delle aziende con sede fiscale e legale all’estero che ricevono aiuti economici dallo Stato in cui operano è cresciuta in Italia attorno a Fca ma in realtà riguarda l’intera Europa. La Danimarca, poi seguita dalla Francia, è stato il primo Paese ad annunciare di non volere dare sussidi ad aziende che non pagano le tasse in patria mediante manovre elusive.
Non solo. Gli stati più duramente colpiti dal Covid-19, come Italia e Francia, sono anche quelli che da anni soffrono della distorsione della concorrenza fiscale di Paesi conosciuti come paradisi fiscali europei (Olanda, Lussemburgo e Irlanda soprattutto, ma anche Ungheria, Cipro e Malta, con la Gran Bretagna caso a parte) e definiti da Bruxelles «a tassazione aggressiva». L’economista Gabriel Zucman, autore de “La ricchezza nascosta delle nazioni”, ha calcolato che l’Italia solo nel 2017 ha perso quasi il 19 per cento delle imposte societarie a causa loro.
Dal 2016 ad oggi, dopo inchieste giornalistiche internazionali come LuxLeaks pubblicata in Italia dall’Espresso, Bruxelles ha portato al Consiglio europeo - che in materia fiscale decide all’unanimità - diverse correzioni alle normative di quei Paesi diventati veicolo di elusione fiscale. Ma tra eccezioni e ritardi nel recepimento delle norme da parte degli Stati, la nuova legislazione o non è entrata ancora in vigore oppure è stata diluita tanto da risultare inefficace. Secondo la televisione danese, negli ultimi due mesi il governo sarebbe stato costretto a dare 38 milioni di dollari a 247 società con sede in un paradiso fiscale europeo. Il no agli aiuti di Stato vale solo per i 12 paesi non-Ue sulla lista nera stilata dalla Ue nel 2017.
«Gli Stati europei non vogliono abolire i paradisi fiscali interni perché ritengono sia meglio averli dentro anziché fuori», dice Philippe Lambert, co-presidente del Gruppo dei Verdi, che ha recentemente pubblicato un appello alla Commissione perché imponga una serie di condizioni di trasparenza per le aziende che chiedono aiuti di stato. «È incredibile come perfino grandi aziende pubbliche di Paesi che perdono a causa della concorrenza sleale abbiano ancora la sede fiscale in Olanda».
Il piano di azione che la Commissione guidata da Ursula von der Leyen annuncerà entro il 15 luglio dovrebbe dividersi in tre parti. Innanzitutto prevederà una serie di vantaggi per i cittadini virtuosi che seguono volontariamente le regole fiscali, soprattutto in tema di imposte indirette. Poi chiederà la riforma del Codice di condotta in materia di tassazione delle imprese. Il Codice è un impegno politico per limitare la tassazione fiscale dannosa firmato dal Consiglio europeo nel 1997 ma che, 22 anni dopo, è considerato inefficace a causa dell’opposizione di quei piccoli stati che nel Dopoguerra hanno deciso di fondare la ripresa economica sulla facilitazione dell’elusione. E che ora stentano a riconvertire il proprio modello economico.
«Il codice ha abolito i regimi preferenziali che accordavano a investitori stranieri aliquote fiscali più favorevoli rispetto a quelle nazionali ma non ha agito sui meccanismi dannosi, come la mancata tassazione dei profitti in uscita dall’Unione e le aliquote vicine allo zero sui profitti derivanti da brevetti e innovazioni», dice Catherine Olier, europarlamentare verde.
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Il problema è che, a causa dell’opposizione dei Paesi “fiscalmente aggressivi”, il gruppo di lavoro in seno al Consiglio che monitora l’applicazione del Codice non ha competenza sui regimi fiscali che distorcono la concorrenza, solo su quelli discriminanti. Sarebbe urgente una revisione dei trattati europei per cambiare le maggioranze, e non solo in materia fiscale. Ma, dalla bocciatura del referendum sulla Costituzione europea in Francia e in Olanda nel 2005, nessuno osa più parlarne. Negli ultimi giorni però la cancelliera Angela Merkel ha tolto il tabù, ridando speranza alla possibilità di nuove riforme.
Intanto, e veniamo al terzo punto del piano, la Commissione potrebbe intervenire ad un altro livello, quello internazionale dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Dovrebbe presentare una proposta di miglioramento delle linee guida contro «l’erosione della base imponibile e dello spostamento tra stati dei profitti» (Beps) da parte delle multinazionali al fine di minimizzarne la tassazione, come definite dall’Ocse e dal G20 nel 2016.
Le due direttive - Atad 1 e Atad 2 - con cui la Ue ha recepito questo accordo internazionale anti-elusione hanno funzionato bene verso i paradisi fiscali extra-Ue ma non sono riuscite a limitare il fenomeno dello spostamento dei profitti tra Stati europei, perché possono essere aggirate facilmente con semplici accorgimenti e poca spesa. Di qui l’esigenza sentita dal gabinetto di Paolo Gentiloni di intervenire ancora una volta (dopo le riforme proposte dal commissario Pierre Moscovici) per correggere definitivamente le distorsioni.
Al netto delle direttive emanate, due rimangono i problemi maggiori. Il primo è la mancanza negli stati a tassazione aggressiva di una tassa (in parte è stata introdotta ma a partire in alcuni casi dal 2021 e in altri dal 2024) sui pagamenti per interessi e royalties in uscita. Questo flusso di soldi lascia l’Unione senza pagare tasse per finire in un paradiso fiscale estero dove non sarà tassato. La seconda questione è il livello di tassazione effettiva, che in questi Stati è troppo bassa grazie alle differenze tra tassazione nominale e reale. In Lussemburgo, 650 mila abitanti e (non a caso) un numero di investimenti diretti esteri pari agli Usa, la prima è del 23 mentre la seconda è dell’1 per cento.
La questione della disarmonia fiscale è talmente gravida di conseguenze per la ripresa economica dei Paesi manifatturieri europei che la Commissione starebbe addirittura valutando l’utilizzo per la prima volta dell’articolo 116 del Trattato di Lisbona che permette al Consiglio di evitare l’unanimità di voto per l’adozione di misure che rettificano una distorsione della concorrenza nel mercato.
Tutti concordano sul fatto che la questione non si risolverà se non verrà imposta a tutti una tassazione minima reale sui redditi d’impresa. Ma la realtà politica europea è tale che in molti ritengono sia più facile trovare le maggioranze necessarie in seno all’Ocse che in Consiglio. In sede di Ocse-G20 non esiste l’unanimità e la maggior parte degli stati europei sono allineati. Una volta ottenuta la vittoria in sede Ocse poi sarebbe più facile ratificare l’accordo a Bruxelles. Per questo la Commissione guarda con speranza alla riunione dell’Ocse in ottobre dove verranno discusse due questioni cruciali: la tassa digitale globale che dovrebbe stabilire il principio generale per cui tutti gli utili si calcolano in base al Paese in cui sono prodotti, indipendentemente dalla sede fiscale della società (“pillar 1”) e un livello di tassazione effettiva minima per tutti i Paesi (“pillar 2”).
Entrambe le questioni dovranno però affrontare i due giganti mondiali: la prima ha contro gli Usa, ben intenzionati a proteggere i big del digitale, la seconda si scontra con la Cina e il suo complicato meccanismo di riduzione della tassazione reale. «Aspetteremo fino alla fine dell’anno di vedere cosa succede. Poi saremo pronti con altre iniziative». Bruxelles si è tolta i guantoni.