
Sono le otto di sera. A fare la guardia all’entrata di un villaggio indonesiano, nell’isola di Giava, si stagliano contro il buio della notte due esseri spaventosi, solitari, immobili, avvolti in bianchi sudari. Le strade sono deserte, silenziose. All’improvviso - tump, tump, tump - un suono sordo, ritmato, insistente si avvicina. A una svolta compare un’altra figura allampanata avvolta in un lenzuolo bianco legato sulla testa e ai piedi da grandi nodi. Avanza saltellando, con un’andatura da coniglio. Il volto è imbiancato, gli occhi cerchiati di nero. Non c’è dubbio, è un “pocong”: un fantasma, un’anima in pena che non è riuscita a liberarsi dal suo sudario e ora, fuggita dal sepolcro, si aggira nel buio in cerca di vittime. Per placarla bisognerà avvicinarsi e sciogliere i legacci del lenzuolo, ma per farlo servirà un vero temerario. Il fantasma sorprende, seduti su un muretto, tre ragazzotti che temerari non sono: appena lo scorgono fuggono a gambe levate.

No, non siamo sul set di “Pocong” il film cult di Rudy Soedjarwo censurato nelle versioni europee perché troppo terrificante, né in uno dei suoi sequel più edulcorati, e neppure in una delle tante sit-com “di paura” che qui hanno molti fan. E non siamo ad Halimunda, la Macondo indonesiana di Eka Kurniawan, scrittore tradotto in 22 lingue amatissimo dal New York Times: lì i protagonisti si levano con nonchalance dalle tombe per riprendere le loro vite dopo esser stati morti e sepolti per più di vent’anni. A prestare più attenzione, anche i ragazzotti dagli sguardi atterriti che sono fuggiti di fronte al pocong hanno il volto in parte coperto di bianco: sono mascherine contro il contagio. Anche a Giava, e in tutta l’Indonesia, questo è il “Waktu Corona”, il tempo del coronavirus. E per convincere la gente a rispettare il lockdown, ogni mezzo è lecito.
Cosi almeno la pensa Pak Anjar Panka, il custode della Moschea Al Himmah di Kesongo, Giava Centrale: «Con i pocong non vogliamo spaventare, ma far capire che di Coronavirus si muore. È una terapia shock, lo so, però parlare di morti aiuta ad attirare l’attenzione. Ora tutti se ne stanno a casa, sembra proprio che i falsi fantasmi gli abbiano fatto paura». I mezzi a disposizione non sono molti e tutta la comunità è solidale nel cercare di far sì che il contagio non prenda piede, visto che il governo fa poco.
E Pak Karno Supadmo, che coordina il gruppo di giovani volontari vestiti da fantasmi della tradizione giavanese, aggiunge: «I pocong fanno la guardia, badano che nessuno vada in giro la notte ed evitano che estranei entrino nel nostro villaggio. Controllano le carte d’identità, chiedono i motivi della visita. Se è il caso, vietano il passaggio o mettono le persone in quarantena. Dobbiamo fermare l’epidemia, volevamo fare qualcosa di diverso e trovo che questo sia stato un modo creativo», aggiunge con una punta di orgoglio. «Siamo fieri dei nostri ragazzi: non è semplice truccarsi e andare in giro saltellando per tutta la notte, tutte le notti».
Già, saltellare tutte le sere nelle vesti di coniglietti bianchi che al lettore italiano ricordano i funerei conigli neri di Collodi, non deve essere esattamente divertente: ma il sistema ideato in Indonesia funziona, e questo è l’essenziale. Convincere alla disciplina della prevenzione una popolazione di 273 milioni di individui sparsi su 17 mila isole che parlano come prima lingua settecento idiomi diversi, professano cinque diverse religioni e sono in un’eta media intorno ai trent’anni non è compito semplice. Eppure far rintanare la gente in casa è l’unica arma reale contro il virus: anche perché qui ogni mille abitanti, i medici sono 0,3, e i letti in ospedale sono 1,2. Bisogna mettere in conto anche la Dengue, che nei primi tre mesi del 2020 ha visto 40mila contagi: a complicare le cose c’è il fatto che il coronavirus al test sierologico può essere scambiato proprio con la Dengue.
Anche Pak Marianus Samsung, capo villaggio di Galang nell’isola di Flores, a quasi duemila chilometri da Giava, per far stare tutti a casa ha seguito le stesse tattiche di paura. «I nostri antenati erano soliti spaventare i bambini per non farli andare in giro di notte», spiega. «Se il governo chiede di mantenere una distanza di sicurezza, noi usiamo la paura per riuscire a metterla in pratica». Sono tecniche che non costano molto, e anche qui l’immagine di un morto intrappolato nel sudario sembra un “memento mori” efficace a fermare il contagio.
A Mojokerto, un villaggio sull’isola di Giava Est, il commissario David Tryi Prasojo ha preso esempio dai suoi colleghi indiani, e più che ai film di zombie si è ispirato a Bollywood: ha dato ai suoi sottoposti elmetti a forma di gigantesche cellule di coronavirus. In diverse città indonesiane questa è diventata la nuova divisa della polizia: si vedono agenti mascherati da virus spruzzare con il disinfettante veicoli o persone, fermare passanti che non hanno il viso coperto, o distribuire mascherine spiegando come usarle, come lavarsi bene le mani e perché sia così importante restare in casa.
A fare paura è anche sceso in campo un mostro verde, protagonista di un video diventato virale in tutto il paese. Annunciato da un ragazzino in corsa che urla «Corona datang Corona datang», cioè “il corona arriva”, compare in una tranquilla stradina un gigante dipinto di verde con sulla testa un elmetto a spunzoni e sul petto la scritta Coronas. Tra chi gioca a scacchi, chi suona la chitarra, chi stende i panni è un fuggi fuggi generale. Quasi tutti hanno la mascherina, ma sta passando un malcapitato motociclista che non la indossa: il mostro lo blocca, gli impiastra la faccia di verde e lo uccide all’istante. Un altro giovane che non porta la mascherina sta per essere impiastricciato quando un amico gliene lancia una: lui rapidissimo l’afferra al volo, l’indossa e il mostro verde si blocca. Il messaggio è chiaro: la mascherina è un obbligo se si vuol salvare la pelle.
Se scendono in campo i mostri non potevano non muoversi anche i super eroi: e infatti eccoli qui schierati nelle strade dei villaggi vicini a Jogyakarta (Giava Centrale). Si piazzano ai semafori, spruzzano disinfettanti, distribuiscono mascherine e insegnano ad indossarle. Regalano anche gong di bambù, che non tengono lontano il virus ma i ladri: servono per allertare i vicini in caso qualche malintenzionato provasse a entrare nelle loro case approfittando della situazione di emergenza.
L’idea è venuta a Pak Agus Widanarko dell’Associazione supereroi e bambini. Ci sono proprio tutti, dal mitico uomo ragno newyorchese al pelatissimo Gatotkaca che invece arriva dritto dall’epopea del Mahabharata. Non mettono paura, incoraggiano, sono solidali, distribuiscono volantini, invitano a restare a casa, a lavarsi le mani, a badare alla distanza. Il loro messaggio è: noi siamo con voi, insieme vinceremo il coronavirus. Può sembrare puerile ma funziona. Diversi padri hanno accolto con favore l’iniziativa: «È così difficile far mettere le mascherine ai bambini», dice un papà. «Oggi tornerò con i miei figli: quando vedranno i loro supereroi distribuirle non faranno più tante storie e saranno lieti di indossarle».

I supereroi sono sbarcati anche nell’isola di Sulawesi e sono scesi in piazza nella città di Makassar. Malgrado questo non tutti gli indonesiani si comportano con disciplina e sono disposti a cooperare. Nel paese che conta più musulmani al mondo, quest’anno una fatwa ha proibito il mudik, l’esodo che conclude il mese del ramadan e che vede le famiglie riunirsi. Lo scorso anno si sono spostati in 20 milioni, sette milioni solo da Jakarta. Il 24 aprile il governo indonesiano ha proibito l’esodo ma circa sei milioni di persone erano già partite.
Altri pur di tornare a casa le hanno provate tutte, nascondendosi nei bagagliai degli autobus, in pulmini in panne trainati da carri attrezzi o dentro container: e questo anche se chi viene colto in flagrante rischia una multa di quasi 10 mila dollari e fino a un anno di prigione. Un’altra fatwa ha permesso di recitare le preghiere in casa, senza bisogno di recarsi nelle moschee. Tutte le cerimonie di massa sono state proibite: anche l’Eid, la festa finale del ramadan. “L’Eid più triste”, cosi è stato definito quello di questo 2020: ma l’allerta è generale.
Al momento l’epicentro del contagio è proprio intorno a Jakarta, ed è per questo che praticamente dappertutto nell’arcipelago è stata istituita la quarantena per chi arriva da quelle località. Non tutti hanno obbedito, e anche qui la creatività si è scatenata. Per i duri a convincersi, quelli che interrompono il periodo di quarantena, il sindaco di Sragen (Giava), Pak Kusdinar Sukowati, ha trovato una punizione originale. Ha chiesto a tutti i distretti sotto la sua giurisdizione di individuare tra le case abbandonate quelle con la fama più sinistra, sospettate di essere infestate dai fantasmi. Una volta trovate vengono ripulite, arredate con letti di fortuna e adibite a ricovero coatto per chi infrange la quarantena.
È cosi che Pak Heri Susanto, uscito di casa quando non doveva per soddisfare un capriccio del suo bambino, si è ritrovato scortato in una di queste case e ha sentito la chiave girare e rinchiuderlo dentro. «Mio figlio mi aveva chiesto un giocattolo. Quando stavo rientrando a casa sono stato sorpreso da una ronda che mi ha portato qui. Non ho potuto neanche avvertire la mia famiglia. Ma so che lo fanno per la sicurezza di tutti», dice a denti stretti: chissà come e se dormirà questa notte…
Anche a Bali, l’isola più famosa dell’arcipelago indonesiano, che spera di riaprire al turismo il prossimo ottobre, si sono prese delle misure contro il contagio. Alla fine del ramadan sono stati in più di seimila ad abbandonare l’isola ritornando via mare a Giava. Entrare però è sempre più difficile e bisogna passare un periodo in quarantena. Le spiagge sono state chiuse a tutti, solo pochi giorni fa ne hanno riaperte alcune ma unicamente per i pescatori. Si invita a rimanere a casa, sono sospesi matrimoni, cremazioni e altre cerimonie che possono essere rimandate.
La polizia tradizionale, chiamata pecalang, ha iniziato a indossare i costumi di Hanuman e Rahwana, temibili personaggi del poema epico Ramayana, affiancati dall’impertinente Sangut, che invece arriva dalle “wayang kulit”, il teatro delle ombre. Contro il coronavirus, è sceso in strada anche il Leyak, lo sposo di Rangda, la regina delle streghe: è una testa volante fornita di temibili zanne, di una lingua lunghissima e di altri terrificanti attributi. Anche qui insomma ogni mezzo è lecito per far passare la voglia di uscire di casa.
Il virus ha rovinato una delle feste più importanti per gli isolani. Il 25 marzo è stato il capodanno balinese, conosciuto anche come il giorno del silenzio. La festa è da sempre una sorta di lockdown ante litteram: per 24 ore non si può uscire di casa, non si accendono fuochi né luci elettriche, gli aeroplani non volano, le strade sono deserte. In quel giorno si svolge una battaglia tra il bene e il male: non si cerca di sconfiggere il male ma di trovare un equilibrio tra queste due forze vitali essenziali.
Solitamente il giorno dopo si va a far visita agli amici e parenti, è un giorno di grande festa conviviale. Quest’anno però le autorità religiose hanno detto che era obbligatorio rimanere in casa. E hanno invitato gli isolani a preparare con peperoncini piccanti, spicchi d’aglio e cipolle un “penolak mala”, un talismano per cacciare le forze del male , che non amano gli odori pungenti. L’amuleto doveva poi essere posto fuori della porta di casa e affiancato da un segno di croce vergato col gesso bianco: il “tapak dara”, anche questo sgradito ai demoni. Per gli indù balinesi, infatti, le malattie sono causate da demoni invisibili al servizio di Durga, la temibile dea della morte.
Una settimana più tardi, il 2 di aprile, al tramonto davanti a tutte le case è stata deposta un’offerta particolare, il “Nasi wong wongan manca warna”, una figura umana stilizzata assemblata con riso multicolore. Ci spiega come ha realizzato i suoi I Nyoman Sugita, famoso danzatore di legon. «Solo la testa è realizzata con il riso bianco, per simbolizzare pensieri puri. Il braccio destro è di riso color rosa a indicare la forza fisica, il braccio sinistro è giallo di curcuma a simbolizzare la forza spirituale. Le gambe di riso rosso e avvertono del pericolo incombente, infine il torso ha tutti i colori e simbolizza la potenza di tutte le forze unite contro il pericolo. Il 4 aprile, al crepuscolo, ho posto un “nasi wong wongan” che avevo realizzato con solo riso bianco nel tempio dedicato a Shiva, il dio della reincarnazione e della morte. Nel mezzo del cortile ne ho adagiato un altro composto di riso di ogni colore per Ibu Pertiwi, la Madre terra. Poi appena fuori del cancello di casa ne ho messo uno fatto con riso rosso e ho fatto un’offerta per Durga, per pregarla di non entrare in casa e di non farci ammalare. Poi abbiamo chiuso i cancelli in modo che le divinità potessero consumare in pace i nostri doni e abbiamo annodato al polso un braccialetto, un “tri datu” composto di tre fili, rosso, nero e bianco: è un incantesimo potente che protegge in nome di Brahma, Wisnu e Siwa».

I Nyoman non è uno sprovveduto: la mascherina la indossa, e chiuso a casa ci rimane. Non è un credulone e non è sempre rimasto nel suo villaggio alle pendici del Monte Agung, ma la sua fede nel mondo popolato da demoni è intatta. È così che vanno le cose non solo a Bali ma un poco in tutta l’Indonesia, dove la realtà ha sempre diverse sfaccettature. Non a caso il Ministero della Salute ha incluso, nei suoi manifesti informativi sul coronavirus, solleciti sia a lavarsi le mani sia a pregare. E poco tempo fa il presidente ha organizzato, in diretta on line, una preghiera di massa con tutti gli esponenti religiosi: cristiani, musulmani, confuciani… Così, vivendo in Indonesia, si impara, anche senza l’aiuto del Bardo, che ci sono più cose tra cielo e terra di quante ce ne siano nella nostra filosofia.