Il presidente americano vuole sfruttare il caos per poi potersi presentare come uomo d’ordine: un sistema che ha favorito Richard Nixon nel 1968. Ma si tratta di una scommessa azzardata

La cinica strategia di Donald Trump: aizza gli scontri per poter vincere le elezioni

11/05/2020 Washington, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump in conferenza stampa nel giardino delle Rose
Città a fuoco. L’economia tenuta in vita artificialmente. Milioni di disoccupati. La pandemia di Covid. La popolazione impaurita, confusa, arrabbiata, spaccata, sia nell’isolamento per il virus sia per le strade, dove spesso le proteste pacifiche degenerano tra azioni violente, atti vandalici e saccheggi. Questa è l’istantanea dell’America di oggi: lacerata, ferita, spossata, caotica, con un bisogno estremo di una guida, in fiamme. L’inquietudine è palpabile ovunque.

Il presidente Trump ha trascorso la notte del 30 maggio nel bunker della Casa Bianca, fremente di collera. Il lunedì successivo, quando è uscito per una breve dichiarazione nel Giardino delle rose della Casa Bianca, ha dato sfogo a tutta la sua ira: «Sono il vostro presidente della legge e dell’ordine», ha dichiarato, prima di aggiungere di essere anche «un alleato di tutti i manifestanti pacifici». Mentre parlava, però, la polizia stava sparando lacrimogeni, granate stordenti e proiettili di gomma proprio contro centinaia di manifestanti pacifici, lì di fronte, dall’altra parte della strada, a Lafayette Park. Più tardi, scortato da numerosi agenti dei servizi e trascinandosi dietro un codazzo di alti gradi dell’esercito, Trump ha attraversato a piedi la piazza ormai svuotata, passando in mezzo all’aria acre che puzzava ancora, e ha raggiunto la chiesa di St. John. Lì si è messo in posa con torvo cipiglio per i fotografi, mostrando una copia della Bibbia, anzi impugnandola quasi fosse un’arma d’assalto. Il vescovo ha definito il suo gesto una trovata propagandistica irriverente.

Trump ha fatto il ritratto di un’America che vacilla sull’orlo di un’apocalisse. Ha strigliato i governatori dei vari Stati, ha definito “terroristi” i manifestanti, ha minacciato di dispiegare unità militari nelle loro città. «Dovete governare», ha intimato Trump, «dovete punirli». Poi ha predisposto l’arrivo di un’unità aviotrasportata dell’esercito nella capitale, l’unica giurisdizione dove non ha bisogno dell’autorizzazione di un governatore.

Editoriale
Chi soffia sul fuoco
5/6/2020
La televisione trasmette di continuo scene violente e brutali, le telecamere si accalcano attorno ai saccheggi e agli incendi. Durante il finesettimana a Indianapolis ci sono stati conflitti a fuoco. La violenza ha rischiato di delegittimare il movimento di protesta. E Trump forse contava proprio su questo. Dopo che i vandali hanno devastato l’iconica Times Square a New York, il presidente è parso segnare un punto a suo favore con i media: è successo martedì mattina, quando il “New York Times”, il giornale liberal più influente della nazione, ha pubblicato in prima pagina un titolo a grossi caratteri apparentemente filo-presidente: «Mentre il caos dilaga, Trump promette di mettervi fine subito».
[[ge:rep-locali:espresso:285345398]]
Un titolo coerente con quello che dice all’Espresso Mark Kurlansky, autore del libro “1968, l’anno che ha fatto saltare il mondo”: «Quando la gente ha paura, i repubblicani passano in vantaggio». Richard Nixon, il candidato repubblicano alla presidenza nel 1968, fu avvantaggiato dai disordini scoppiati nell’aprile di quell’anno dopo l’assassinio di Martin Luther King Jr. E vinse le elezioni con la promessa di ripristinare “legge e ordine”. «I disordini razziali pesarono molto sull’elezione di Nixon», spiega all’Espresso Sidney Blumenthal, autore della biografia in cinque volumi ancora in corso d’opera “The political life of Abraham Lincoln”. «Il suo modo di parlare però era completamente diverso da quello di Trump. Aveva un’oratoria pacata». Lunedì, invece, Trump ha inveito contro un movimento di protesta «in mano ad anarchici di professione, plebaglia violenta, feccia di piromani, saccheggiatori, delinquenti, agitatori, antifa».

La sua però è una grossolana distorsione degli eventi. L’identità dei vandali in realtà continua a non essere chiara. Alcuni filmati hanno ripreso alcuni uomini atletici, muniti di attrezzature e protezioni da professionisti e di maschere antigas, che procedevano a una distruzione sistematica delle vetrine dei negozi per poi dileguarsi. In un altro video è stato inquadrato un uomo che prelevava dal baule della sua automobile un fucile d’assalto. Ad alcuni osservatori queste scene hanno suggerito il coinvolgimento dei “Boogaloo Bois”, il gruppo di nazionalisti bianchi che vuole provocare una guerra civile: alcune settimane prima si erano mostrati mascherati e armati di armi semiautomatiche nelle capitali di diversi Stati per protestare contro le restrizioni sociali imposte dal Covid-19. I sospetti a carico dei Boogaloo Bois sono cresciuti quando, in altre immagini girate a Los Angeles, si sono visti mattoni allineati lungo i marciapiedi, quasi per indurre i manifestanti ad afferrarli e lanciarli.

Un alto funzionario della polizia di New York ha invece puntato il dito contro gli anarchici e li ha accusati di istigazione alla violenza. John Miller, vicecommissario a capo della sezione antiterrorismo e intelligence del Nypd (New York Police Department), ha riferito al New York Times che gli anarchici «avevano pianificato di scatenare l’inferno in città ancora prima che avessero inizio le proteste e hanno utilizzato messaggi criptati per raccogliere soldi per le cauzioni e per reclutare paramedici. Durante le manifestazioni hanno assicurato il rifornimento di benzina, sassi e bottiglie».

Certo è che la città è stata devastata dai saccheggi. In molti casi documentati da giornalisti e reporter, tuttavia, i manifestanti pacifici hanno imbracciato le armi per proteggere le loro proprietà dai razziatori e hanno impedito ad altri di raccogliere i mattoni e di scagliarli contro gli agenti o di usarli per spaccare le vetrine. L’identità dei provocatori resta dubbia a Minneapolis, dove le proteste hanno avuto inizio. Tim Walz, governatore del Minnesota, ha ventilato l’idea che i responsabili delle violenze fossero i suprematisti bianchi e altre persone provenienti da altri Stati (poi ha sminuito accusando solo «persone malvagie»). È probabile che le indagini in corso possano chiarire le cose.

Nel frattempo a Philadelphia, Jon Ehrens, reporter di una radio locale, ha riferito che «un folto numero di bianchi aggressivi, armati di mazze da baseball, da golf e da cricket» ha minacciato i manifestanti che sfilavano per protestare contro la brutalità della polizia. Il reporter è stato malmenato e bastonato per averli ripresi e ha postato su Twitter la foto della sua faccia ricoperta di sangue.

Per tutta la settimana, spesso la polizia ha sparato proiettili di gomma e gas lacrimogeni in direzione dei giornalisti. A Minneapolis, un reporter afroamericano della Cnn è stato arrestato mentre riprendeva le scene dal vivo (il suo collega bianco invece non è stato fermato). In altre città però la polizia però ha fatto di tutto per farsi perdonare dai reporter, rilasciando scuse formali e in qualche caso mettendosi in ginocchio in segno di solidarietà. In sostanza, con il loro gesto è giunto il riconoscimento da tempo dovuto a Colin Kapernick, il quarterback dei San Francisco che nel 2017 era stato cacciato dalla squadra per essersi inginocchiato in segno di protesta contro i modi spietati della polizia.

Con il dilagare della pandemia e l’economia al collasso (fattori aggravati dai tumulti), al momento non si intravedono strade percorribili per fare ritorno alla normalità. Agli occhi della maggior parte degli americani, la leadership incendiaria di Trump è controproducente. Secondo i sondaggi aggregati il primo giugno dal sito FiveThirtyEight la percentuale di chi ne disapprova l’operato cresce e ha raggiunto il 53,6 per cento.

Inoltre, a differenza di Nixon nel 1968, Trump non può promettere di raddrizzare la situazione alla stregua di un outsider qualsiasi che desideri essere eletto. Il presidente punta alla rielezione, ma è il principale responsabile del disastro che si trova sotto il naso. Blumenthal, ex consigliere di Bill e Hillary Clinton, ha detto all’Espresso che «ormai rappresenta lo status quo delegittimato». Vuole «essere considerato l’uomo della legge e dell’ordine, quando lui per primo è senza legge e aggressivo». Le probabilità che Trump crei una commissione sulle violenze della polizia, come fece Lyndon Johnson dopo i tumulti razziali del 1967, sono zero. Non è nella sua natura comportarsi da pacificatore, da collante per le lacerazioni della nazione.

«Purtroppo non vedo proprio come le cose possano andare a finire bene», dice Mark Kurlansky, che era con Robert F. Kennedy a Indianapolis la sera in cui Martin Luther King fu assassinato. Secondo Kurlansky, «molte altre persone soffriranno, i neri più di altri» per colpa di un mix di controffensiva razzista e di pessima gestione della crisi per il virus. Kennedy, che due mesi dopo sarebbe stato assassinato anche lui, salì sul pianale di un camion e, con parole diventate leggendarie, invitò alla calma una folla enorme, composta perlopiù da afroamericani. Disse che anche suo fratello era stato assassinato da un bianco. «Ciò di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti, non è divisione. Ciò di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti, non è odio. Ciò di cui abbiamo bisogno negli Stati Uniti, non è violenza e rifiuto della legge, ma è amore, saggezza, e compassione gli uni verso gli altri, e un senso di giustizia per coloro che ancora soffrono nel nostro Paese, siano essi bianchi o siano essi neri». È opinione unanime, perfino tra i suoi sostenitori e amici, che Trump sia incapace di pronunciare un discorso simile.

Traduzione di Anna Bissanti

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Pronto chi truffa? - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 23 maggio, è disponibile in edicola e in app