Le tensioni sociali innescate dalla crisi sono sul punto di esplodere. In italia è pronta a sfruttarle una destra di piazza e incendiaria. Negli Usa chi le alimenta è il presidente che punta sulla rottura

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Siamo alla vigilia di una bomba sociale che sta per esplodere. Ce lo dicono tanti segnali: episodi di microcriminalità non segnalati sulla stampa, una rete pronta a muoversi per intercettare il malcontento e la rabbia, molto distante dalla protesta civile per quello che non va, ma qualcosa di molto distruttivo. I movimenti dei gilet arancioni, affidati a un personaggio folcloristico come un grottesco ma evidentemente ricco di risorse ex generale dei carabinieri, sono soltanto diversivi che servono a distrarre l’opinione pubblica. Mentre qualcosa si muove a livello sotterraneo. E la nostra intelligence da anni è addestrata a fronteggiare e prevenire il terrorismo islamico, ma è molto più impreparata sul fronte interno, collegato con una rete neo-nazista internazionale...

La persona che parla è un uomo delle istituzioni, abituato per professione a decifrare da decenni i segnali in codice che arrivano dalla criminalità mafiosa, allergico alle facili preoccupazioni e ai proclami lanciati in pubblico per fare un titolo giornalistico, e infatti anche in questo caso preferisce non apparire. Ma le sue analisi sono più che preoccupanti, anche perché arrivano alla vigilia della settimana più calda del dopo-emergenza. Il 3 giugno l’Italia ha riaperto ufficialmente pure le frontiere fittizie tra le regioni, ma non è stato un momento allegro. Il giorno prima, festa della Repubblica, il cuore di Roma è stato invaso, di mattina e di pomeriggio, dal centro-destra ufficiale e parlamentare e dalla nuova estrema destra arancione, in attesa della manifestazione degli ultras di sabato 5 giugno. Mentre le città americane sono in fiamme per la rivolta dei neri seguita al brutale assassinio di George Floyd di una settimana fa per mano della polizia.

Sono eventi in apparenza associati soltanto dal calendario. Ma danno il segno di quanto sta accadendo in questo difficilissimo post-covid. In Italia, dopo le settimane del lockdown caratterizzate dall’affidamento docile, forse fin troppo, alle autorità di governo e di pubblica sicurezza, il tessuto sociale e civile torna a rivelarsi per quello che era prima del 21 febbraio. Un sistema politico che cammina su una lastra sottilissima, sempre in procinto di spezzarsi. Partiti che «non esistono più», compreso l’unico partito tradizionale sopravvissuto, il Pd, come ha detto il suo stesso padre nobile Romano Prodi. La fiducia nelle istituzioni che torna a calare, la magistratura percorsa da una guerra intestina con motivazioni in linea con questi tempi mediocri, caratterizzati dall’unica prospettiva del successo facile e immediato, come dimostra il caso di Luca Palamara. Di nuovo, dopo tre mesi di auto-isolamento, paura e oltre trentatremila morti, c’è la disperazione sociale fotografata dal governatore di Banca d’Italia Ignazio Visco. Una miscela esplosiva pronta a essere agitata per infiammare il Paese dagli incendiari di professione, i gruppi neo-fascisti e neo-nazisti che avevano cominciato ad alimentare la tensione prima del contagio e che ora sono rinforzati dalla disoccupazione, i negozi che chiudono, i licenziamenti in arrivo. In tutta Italia, soprattutto si moltiplicano gli allarmi di sindaci e di amministratori, i più sensibili, i più attenti a cogliere i messaggi impliciti nelle manifestazioni di protesta.
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Nelle piazze delle province emiliane o lombarde più colpite dalla doppia crisi sanitaria e economica, impreparate a trasformarsi in un pugno di settimane da centri della crescita e del benessere a territori simili alle aree interne care a economisti come Fabrizio Barca, in bilico tra progresso e arretratezza. Da settimane spuntano sigle di protesta anti-istituzionale che si fa forza dell’impoverimento collettivo: Risorgi Italia, Rialzati Italia. Giuste rivendicazioni, la rabbia per esempio dei ristoratori riuniti attorno al movimento Horeca, si confondono con lo sciopero fiscale, i movimenti contro i nemici della Nazione, la marcia degli ultras. Un Fronte di cui si scorge visibile una trama, anche se manca, per ora, l’imprenditore politico pronto a cogliere tutto quanto seminato. Ma si riconosce in filigrana la strategia della destra italiana e europea, da circa un secolo a questa parte: qualcuno accende il fuoco, qualcun altro si candiderà a spegnerlo.

È la storia della Francia di questi anni con i gilet gialli che hanno devastato per mesi Parigi un anno fa e furono corteggiati da quel Luigi Di Maio che invece in questa settimana ha incontrato a Roma il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, ma anche della Germania, dove esattamente un anno fa, il 2 giugno 2019, un estremista di destra uccise il democristiano Walter Lübcke, sostenitore della politica di apertura ai rifugiati di Angela Merkel, un giovane neonazista ha assaltato la sinagoga di Halle, un altro lupo solitario neo-nazista ha provocato una strage (undici morti) a Hanau, il giorno prima che in Italia cominciasse l’emergenza coronavirus.
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È un ricatto della paura che passa per il negazionismo (dello sterminio degli ebrei o della pandemia), perché per ideologi e militanti il sistema che tiene in pugno i popoli mente per definizione, individua un nemico da sterilizzare (lo straniero invasore oppure, per un capovolgimento della realtà, i giornalisti che indossano la mascherina), affida a qualcuno il compito di riportare l’ordine.

È quanto sta accadendo nel cuore della democrazia occidentale. Negli Stati Uniti il capo degli incendiari brandisce in modo blasfemo la Bibbia e il fucile, dichiara guerra agli Antifa, ai governatori democratici e a un pezzo consistente dei cittadini ed è il vertice della Nazione, il presidente degli Stati Uniti in cerca di una rielezione più difficile di quanto si aspettasse, Donald Trump. Dal bunker il capo della Casa Bianca lancia la sua istigazione alla violenza in un Paese che non bruciava così dal 1968, porta l’America alla rottura (Paul Krugman), come avvenuto in altri momenti della storia, nel grande Paese che è la patria della democrazia e della libertà, ma è percorso fin dalla fondazione dai loro opposti, il razzismo, lo schiavismo, la discriminazione per il colore della pelle o per motivi di genere, come dimostra Jill Lepore nel suo voluminoso racconto appena pubblicato in Italia (“Queste verità”, Rizzoli).

La destra punta a spezzare, rompere, lacerare, sia nella sua versione di piazza fetida e mascalzona, come quella italiana, sia in quella che si traveste da populista e occupa i vertici della forza pubblica e economica, come quella americana. E poi si propone di ricostruire, dopo aver distrutto la possibilità di convivenza civile e di uscita solidale dalla crisi drammatica in cui siamo immersi in tutto l’Occidente. Per questo diventa ancora più urgente una ricostruzione non astratta, di carne e di sangue, di riforme che agiscano nel corpo vivo delle persone con i loro bisogni e le loro attese, una ricomposizione attenta e paziente, anche se non lenta, perché di lentezza e di cavilli si muore e anche di astratte fasi costituenti, come quella che vagheggiano il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il suo predecessore Silvio Berlusconi, ma anche il segretario del Pd Nicola Zingaretti.

Non si ricostruisce che sulle macerie, certamente, ma va evitato che questi impegni siano soltanto la pura anteprima dell’ennesima manovra di Palazzo, magari un governo Conte tre allargato a Forza Italia che isoli la destra politica ma che non servirebbe a isolare la destra nella società. Nello spirito di verità e di coraggio richiesto dall’istituzione ancora capace di parlare al Paese e dalla persona che le dà autorevolezza e prestigio, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Il destino comune, l’unità morale, sono le parole antidoto al virus dell’odio e della rottura democratica, che arrivano da Codogno, la città lombarda da cui è partito tutto. Il silenzio e il vuoto delle piazze e delle strade di quelle settimane in cui l’Italia è apparsa unita sono già dimenticati, le stesse vie sono di nuovo percorse dagli apprendisti stregoni di ieri e di sempre. Per questo l’unità morale di Mattarella è oggi il contrario di un indistinto approdo tecnico, del trasformismo, dell’embrassons nous. È un ambizioso programma, un manifesto politico. Che attende interpreti all’altezza.