Un gruppo di bengalesi in un centro di detenzione illegale vicino Tripoli dopo giorni di torture senza fine reagisce contro il criminale libico che li teneva prigionieri. Con esiti terribili

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Hanno ucciso il “maledetto”, hai sentito il colpo di pistola, no? Ora siamo in pericolo..., grida affannata Amandine, in una registrazione telefonica. Si trova nel mezzo di una rivolta di migranti in Libia. Qualche minuto prima, una trentina di loro si sono ribellati alle continue e insopportabili sevizie subite da un criminale libico (soprannominato “maledetto”), in un centro di detenzione illegale, un hangar nei pressi di Tripoli. Amandine è una migrante camerunese. Per giorni è rimasta imprigionata insieme ad altre 300 persone ammanettate, continuamente torturate e testimoniando atti di rara crudeltà. «La situazione è degenerata», racconta Anne, altra testimone camerunense: «Quando un bengalese, che non ne poteva più di soffrire e urlare dal dolore, ha strappato una frusta dalle mani del libico che lo continuava a picchiare imperterrito».

La rivolta, secondo Amandine, è partita per un errore del torturatore libico, si chiamava Mohamed: «Essendo il giorno di Eid, la fine del Ramadan, a tutti i musulmani, e quindi anche ai bengalesi, sono state tolte le manette in segno di compassione. Ma si sono dimenticati di rimetterle. I bengalesi hanno neutralizzato Mohamed, picchiandolo a sangue, mentre lui cercava di prendere la pistola e sparare. Gli hanno strappato anche la pistola dalle mani, prima di prendere un cavo da un ventilatore e strangolarlo, squarciandogli lo stomaco e infilandogli un manico di doccia nelle interiora. In seguito hanno sparato a uno dei ragazzini somali che lo aiutavano a torturarci, obbligati perché non potevano pagare il riscatto. Non ho mai visto tanta crudeltà», commenta Anne.

Amandine si ferma per respirare, prima di continuare il racconto: «È entrata una guardia e l’hanno uccisa, prendendogli il kalashnikov. Poi è toccato al cuoco, un altro ragazzino somalo, entrato nell’hangar per vedere cosa stesse succedendo. Bam. A terra. Freddato con un colpo di pistola in testa. Altre guardie però sono riuscite a rinchiuderci. Eravamo in trappola».
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I bengalesi erano arrivati nell’hangar due giorni prima dell’Eid. «A noi facevano molto male, picchiandoci ovunque con fruste e bastonate sulle mani aprendoci le piaghe infette e piene di pus. Le manette scavano nella pelle. Ma ai bengalesi, beh… non saprei come spiegarlo… Noi, in confronto, non avevamo visto nulla», rivela Amandine con voce spezzata. Le torture, secondo le ragazze, erano talmente dure nei loro confronti che molti perdevano conoscenza.

A Amandine e Anne, come agli altri subsahariani presenti, avevano chiesto 5mila dollari di riscatto, continuando a torturarle per giorni. Ai bengalesi invece, 15mila. Anche loro, come tutti gli altri, erano costrette a chiamare continuamente le loro famiglie supplicando di mandare il denaro, mentre venivano seviziate. Ma una somma del genere, in Africa subsahariana, non è facile da raccogliere in poco tempo. «Sapevamo benissimo che non avremmo mai potuto avere quei soldi» - dice Anne - «Mi ero già rassegnata a morire».

Il libico, secondo le loro voci, veniva ogni sera dopo le 10 e fino alla mattina continuava a torturare tutti. «Lui chiamava le nostre famiglie, inviando fotografie di noi ammanettate o vocali minatori». Le famiglie camerunensi, hanno registrato tutto.
«Il “maledetto” chiedeva sempre di pagare su conti in Somalia, Egitto, Dubai», riferisce Amandine, dicendo che ogni volta che qualcuno pagava, cambiavano il destinatario. Le famiglie però, hanno mantenuto tutti i documenti con nomi e cognomi dei destinatari delle somme. «Il giorno prima della rivolta, ci hanno persino detto di mandare i soldi a questo nome - Hawo Omar Roble, con il numero whatsapp +46722882620. Diceva che era in Svezia, a Stoccolma». Un nome che non può essere falsificato visto che chi ritira i soldi, tramite agenzia come Moneygram o Western Union, deve presentare un documento originale. A dimostrazione che i traffici sono controllati anche da paesi dell’Unione Europea tramite agenzie ufficiali.

Ma ricordare fa male. Anne e Amandine piangono ancora. Perché quello che hanno vissuto il giorno della rivolta, ha preso una piega ancora più macabra. «Dopo aver ucciso il libico, i bengalesi hanno preso il suo telefonino. Abbiamo potuto chiamare persone per dire dov’eravamo e cosa stava succedendo. Avevamo un contatto a Tripoli, un fratello. Ingenuamente, abbiamo chiamato anche la polizia», riferisce Amandine. Il contatto a Tripoli, L., ha registrato la conversazione come prova.
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«Presto però, altre guardie hanno accerchiato l’edificio e hanno cominciato a sparare ininterrottamente verso di noi. Dopo ore, ci hanno costretti ad uscire», continua Amandine. «I bengalesi dicevano che era una trappola. Cercavano di convincerci a non farlo. Ma rimanere era firmare la propria morte», ribatte poi Anne: «Solo chi era ferito e non poteva farcela, è rimasto dentro con i bengalesi. C’erano molti feriti per via delle continue torture. Avevamo tutti piaghe infette e aperte da giorni. Alcuni avevano subito talmente tante torture, frustate, bastonate, che non ragionavano più. Un sudanese, per aver nascosto qualche soldo, aveva incassato talmente tante botte che alla fine abbaiava come fosse un cane. Il libico lo ha ucciso, innervosito, lasciando il suo cadavere imputridire per tre giorni di fianco a noi. E non è stato l’unico. Altri avevano proiettili nel corpo e non riuscivano più a ragionare dal dolore».

Dopo essere uscite dall’hangar, Amandine e Anne hanno confermato che «solo cinque bengalesi dei circa trenta sono usciti insieme a noi. Una volta fuori, i libici hanno chiesto chi avesse ucciso il “maledetto”. E tutti hanno gridato che erano stati i bengalesi», afferma Anne.

Amandine ricorda i dettagli: «Ci hanno portati in una casa, a un centinaio di metri. Stipati, avevamo una finestrella per vedere cosa accadeva fuori. All’improvviso, una serie ininterrotta di boati e colpi di mitragliatore. Senza fine. Per ore. Dal buco della finestra vedevamo che stavano lanciando delle granate nell’hangar dove erano rimasti i bengalesi e i feriti». Le due migranti faticano a spiegare quello che è toccato loro vedere nei minuti a seguire. «I bengalesi sopravvissuti in qualche modo al bombardamento sono stati portati fuori. I libici, di fronte ai nostri occhi, li hanno fatti a pezzettini. Letteralmente, li hanno mutilati ancora vivi, prima di ucciderli».
La polizia, secondo Amandine, è venuta nella stanza dove erano rinchiusi. «Ci hanno gridato addosso. In seguito se ne sono andati. Abbiamo capito che erano complici».

Quella di Amandine e Anne è una storia raccapricciante. Si sono conosciute quando sono arrivate in Libia, nel sud, insieme a un gruppo di persone. «Pensavamo di avercela fatta. Soprattutto perché i primi giorni, quando dei libici ci hanno trovati in una casetta sperduta, ci trattavano bene, spostandoci ogni giorno per ore e ore con la macchina».

Fino a quando arrivano nell’hangar della morte. Il benvenuto, questa volta, è servito con la frusta. «L’ambiente era diverso», ricorda Amandine. «La puzza di cadavere e di marcio penetrava nelle narici, era insopportabile. Ci hanno preso tutti i nostri averi chiedendoci un numero di telefono di un parente. Non abbiamo opposto resistenza perché ci picchiavano». Dopo cinque o sei giorni di permanenza e di sofferenza sono entrati i bengalesi. Poi la rivolta. Amandine e Anne sono riuscite a sopravvivere. Nascoste in un ghetto della capitale Tripoli, oggi la loro volontà è sempre la stessa: raggiungere l’Europa. Ma per ora, traumatizzate, devono usare la cenere delle sigarette per curarsi le piaghe, viste le scarse risorse. Forse una cura più sciamanica che con un effetto reale.