Ai tempi della giunta militare l’incubo erano le Ford Falcon. Ora i trafficanti arrivano a bordo di furgoni bianchi e caricano ragazze giovanissime. Da costringere alla prostituzione nelle case chiuse di Buenos Aires (Foto di Valerio Bispuri)

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Allora, seconda metà degli anni Settanta, tempo di “junta militar”, l’incubo erano le Ford Falcon. Spuntavano a grande velocità per poi arrestarsi con stridore di freni. Ne uscivano volando degli energumeni armati di pistola, afferravano un passante e lo gettavano nell’abitacolo. Uno in più: desaparecido. Oggi sono furgoncini bianchi a caccia di bambine, adolescenti, ragazze, età compresa tra i 10 e i 22 anni più o meno. Non serve nemmeno l’arma, basta la forza delle braccia. Una in più: desaparecida.

Desaparecidos. Una parola che tormenta l’Argentina. Nel nuovo millennio si coniuga quasi esclusivamente al femminile: desaparecidas. Nel secolo scorso sparivano giovani dissidenti del regime, trentamila secondo le stime più accreditate. Un genocidio politico e generazionale, un politicidio. Il genocidio, una volta sperimentato, si è poi diramato nelle sue diverse specializzazioni. Di etnia, di religione, di ideologia, di età, di caratteristiche fisiche. Ora, in Sudamerica, di sesso. Donne. Per sfamare le capaci fauci dei bordelli, di Buenos Aires, sono milleduecento, del Paese intero, quasi trentamila, come quasi trentamila sono le scomparse.

Le autorità ne accreditano ufficialmente “solo” 5.400. E sarebbe comunque una cifra enorme. Pur salvando le distanze, un filo lega il passato al presente: la connivenza quando non la complicità di branche dello Stato. Quarant’anni fa, lo Stato stesso era terrorista, oggi una parte di esso, funzionari pubblici, agenti di polizia, agenti dei servizi, copre l’immondo traffico a fini di lucro, bustarelle, corruzione, carne giovane regalata per il diletto.
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C’è chi si ribella, c’è chi dice no, nella difficoltà estrema se non di estirpare il fenomeno, sarebbe vasto programma, di denunciarlo, ridurlo e vederlo condannato da un tribunale. Erede delle mitiche “Madres”e “Abuelas” (nonne) di Plaza de Mayo è Margarita Meira, 70 anni, fondatrice dell’associazione “Madres victimas de trata” la quale alza addirittura il tiro fino al vertice della Repubblica e indica in Mauricio Macri, origini italiane, presidente fino al 2019, come un “amico dei prosseneti”, usa proprio questo termine da noi desueto per definire i tenutari dei bordelli.

Circola una foto di Macri in cui è sorridente con i cattivi compagni. Margarita identifica nel “governo” il suo problema principale e non salva nemmeno i partiti di opposizione, freddi nell’affiancarla in una battaglia in cui conta solo su una compagnia di poco più di venti altre madri, affiancate, per fortuna, da una squadra di medici, psichiatri, avvocati, artisti che prestano la loro opera gratuitamente. Sa di dover combattere contro un apparato potente e ramificato dove si intrecciano politicanti, poliziotti e delinquenti uniti da un gigantesco “negocio” (affare) perché in ogni postribolo non si vende solo carne umana ma «si spaccia anche fino a un chilo di cocaina al giorno».

Il furgone bianco è l’incubo relativamente recente, è l’indice di un perfezionamento dell’attività criminale, la sua espansione all’ingrosso. Si aggiunge ad altri stratagemmi. Falsi annunci di lavoro, appuntamenti per spacciare droga. Talvolta sono i fidanzati a vendere le compagne. Come fu il caso della figlia di Margarita, una storia che risale agli albori della tratta ed era ancora il secolo scorso, esattamente il 1991.
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Susana Becker aveva allora 17 anni e si accompagnava con un poco di buono, ladro e spacciatore. Quando svanì nel nulla, le denunce sortirono l’effetto degli scherni in commissariato, le umiliazioni: «Sarà fuggita per amore». In tribunale le consigliarono di non passare troppo tempo in quegli uffici «perché magari mentre sta qui a casa le sequestrano un altro figlio». Una notte un tassista collega di Miguel Angel Santiago Becker, il padre di Susana, gli raccontò che aveva caricato due clienti, uno dei quali confidava all’altro di aver ucciso una certa Susi in un appartamento e simulato una disgrazia, una finta perdita di gas. Quella Susi era proprio Susi. I genitori riconobbero il corpo. Era piena di lividi e incinta, dunque inservibile come schiava sessuale. Morte rubricata come “incidente” e ci volle una lunga causa legale perché fosse riconosciuto l’omicidio: «Almeno l’ho potuta seppellire, ho una tomba su cui piangere».

Una tomba, non un colpevole, non giustizia. Molti anni dopo bussò alla sua porta una ragazza, Lorena, figlia di Raùl Martins, ex agente dell’intelligence argentina. Le portò le prove che il padre gestiva bordelli a Cocodrilo, nell’area dove Susi era stata tenuta prigioniera, più tardi denunciò anche il genitore ma le lungaggini della giustizia unite a un articolo del codice che impedisce di deporre contro un congiunto per un reato commesso verso terzi, non ha prodotto un processo. La verità vicina e mai sancita, sebbene conosciuta.

Il tempo di elaborare il lutto, e ce ne è voluto, il tempo di costruire una rete di relazioni con altre famiglie che a casa hanno un letto vuoto ed ecco Margarita ribellarsi al silenzio assordante attorno alla tratta. Lei, figlia di un uomo che aveva lottato contro la schiavitù nei luoghi di lavoro, moglie di un altro uomo che, lasciato il taxi, si è iscritto all’università ed è diventato avvocato per difendere i diritti delle donne, si è messa a capo di un’associazione.

Ha chiesto il permesso, naturalmente ottenendolo, alle Madri e alle Nonne di Plaza de Mayo (Nora Cortinas, Estela de Carlotto, Hebe de Bonafini) di poterle imitare. Ed è iniziato, il terzo venerdì di ogni mese, il rituale della manifestazione attorno alla Piramide, davanti alla Casa Rosada, vestite di rosso, ognuna con un cartello sul quale è impressa la fotografia delle scomparse e accompagnate da “Las Mariposas”, un collettivo di espressione corporea contro il sistema patriarcale.

L'intervento
La tratta delle donne in Argentina: come raccontare l'invisibile
5/1/2021
In contemporanea, l’avvio di indagini proprie per scovare i postriboli, denunciare i tenutari. Organizzare, come già fanno gli “Hijos” i figli dei desaparecidos anni Settanta sotto le case dei torturatori impuniti, degli “escrache”, cortei di protesta, davanti ai bordelli. E approdare, con grande fatica, a qualche risultato: l’individuazione di alcuni boss, il “riscatto” di alcune sequestrate, dai cui racconti si è potuto ricostruire come funziona la fabbrica del crimine. Sono le ragazze che Valerio Bispuri ha fotografato e che vedete in questo articolo.

La tratta in passato riguardava quasi esclusivamente le aree più povere, mentre negli ultimi tempi ha finito per coinvolgere anche i quartieri borghesi della capitale. Oltre a Buenos Aires, le province del Nord sono quelle in cui si scatena la caccia grossa: Misiones, Corrientes, Salta, Jujuy, Chaco, Formosa. Non per caso gli aeroporti dell’area sono tappezzati di fotografie di persone scomparse. Al vertice delle gang soprattutto malavitosi argentini, talvolta in combutta con paraguaiani e peruviani.

Dopo il sequestro le ragazze vengono ammassate nelle “villas miserias” enormi capannoni dove vengono violentate prima di essere vendute ai bordelli. In ciascun bordello ci sono almeno dieci vittime, divise in stanze senza luce, costrette ad avere anche trenta rapporti ogni 24 ore, per un guadagno calcolato in seimila euro al giorno. I clienti appartengono ad ogni categoria e classe: operai, impiegati, dirigenti, professionisti, politici. Talvolta qualcuno si commuove e cerca di aiutare le ragazze a scappare. Per esempio, è il caso di Fabiola, lasciando aperta la porta della loro stanza dopo che hanno consumato. Peccato che una volta arrivata al commissariato è stata riportata nel postribolo da un poliziotto colluso.

Spesso non si arriva a un processo perché gli inquirenti sostengono che le ragazze stanno nelle case chiuse “per propria volontà”. Margarita: «A me non interessa quello che dice la polizia. Posso assicurare che nessuna si prostituisce volontariamente. Nessuna!». Capita che siano costrette a sostenere la tesi dei loro aguzzini: per paura o perché drogate. Fabiola è riuscita a fuggire una seconda volta ed ora è ospite nella casa di Margarita, nel quartiere difficile di Constituciòn, assieme ad altre compagne di sventura. Ha 22 anni, i reni che non funzionano, i denti incisivi mancanti. Un’altra rapita due volte è Nora. La seconda, e decisiva, ha rubato il cellulare a un cliente con cui ha potuto chiamare sua madre e darle un appuntamento alla stazione Caballito. È arrivata di corsa, calzava scarpe con tacchi alti, ed era vestita solo con reggiseno e perizoma.

Le salvate spesso hanno bisogno di assistenza psichiatrica per superare il trauma. Quanto alle sommerse, impossibile stabilire quante di loro siano ancora vive. Di certo dopo i 22, massimo 24 anni, non servono più e vengono eliminate, i loro corpi disseminati chissà dove. Tanto che Margarita Meira non esita a usare un paragone forte: «I bordelli sono i campi di sterminio del ventunesimo secolo». Si vocifera, ma mancano le prove, che parallelo alla prostituzione, sia proliferato il traffico di organi.

Di certo si tratta di criminali che non si fermano davanti a niente. E il loro primo bersaglio è proprio Margarita. Più di un anno fa, mentre stava rilasciando un’intervista, un uomo in motocicletta si è avvicinato al quartier generale delle Madri e ha sparato, senza però riuscire a colpirla. Poco dopo è tornato sui suoi passi per recuperare il berretto che aveva perduto: «Pensavo ci volesse ammazzare tutti». A metà dicembre ignoti sono riusciti a raggiungere il suo terrazzo e a tagliare il cavo della telecamera di sicurezza ed è suonato come un ennesimo avvertimento. Tre giorni prima di Natale le Madri delle Vittime di Tratta (per saperne di più: https://www.facebook.com/MadresVictimasDeTrata) hanno accompagnato al camposanto una di loro, Marta Ramallo, per l’inumazione dei resti di sua figlia Johana, sequestrata nel 2017.

Tra mezzi mancanti, bastoni tra le ruote, ostacoli delle autorità, Margarita procede per la sua strada avendo come stella polare un esempio: «Le Madri di Plaza de Mayo hanno impiegato 30 anni per mettere in prigione la dittatura. Il cambiamento non avviene dall’oggi al domani. Io voglio rendere visibile ciò che avviene nei bordelli. Quando le persone sapranno qualcosa succederà. Credo nelle persone, nella lotta e nei giovani».