Negli Stati Uniti tra il 2010 e il 2018 quasi 300.000 ragazzi si sono uniti in matrimonio ben prima dei 18 anni. E l’86 per cento è di sesso femminile. La denuncia di Fraidy Reiss, fondatrice di Unchained at last: «Ho iniziato questa lotta per affrontare il trauma vissuto in prima persona»

Fraidy Reiss per la sua famiglia è morta. Quando nel 2007 ha deciso di trasferirsi e iscriversi al college, lasciando un uomo violento e la comunità ebraica ultraortodossa che glielo aveva imposto a 19 anni, madre e sorelle hanno celebrato il suo funerale. All’ennesima minaccia, all’ennesimo disegnino del marito che spiegava nel dettaglio come sarebbe stata uccisa insieme alle due figlie, si è rivolta alla madre, chiedendo di essere accolta in casa. Ma lei è rimasta in silenzio, la faccia sdegnata. È uscita dalla stanza senza dire nulla.
Un anno dopo il divorzio, ufficializzato nel 2010, Reiss ha fondato un’organizzazione, Unchained at last, da dieci anni l’unica negli Stati Uniti che si batte contro i matrimoni forzati e/o imposti ai minori.
A oggi ha rimesso in piedi la vita di più di 700 persone. All’assistenza legale donata pro bono dagli avvocati dei più importanti studi newyorchesi per separarsi dal marito, o per affrontare le pratiche di regolarizzazione di persone immigrate, altro motivo di ricatto, si aggiunge il supporto economico, psicologico e morale. Molte ragazze, una buona percentuale provenienti da comunità religiose, proprio nell’avere qualcuno che si occupi di loro, che voglia il loro bene, trovano un appiglio più forte di qualsiasi altra cosa.
Nel sito dell’organizzazione sono raccolte numerose storie di “sopravvissute”. April, nata da un rapporto tra la madre e lo zio, è cresciuta senza genitori, entrambi alcolizzati. All’età di 12 anni ha iniziato a frequentare un ragazzo già ventenne, che viveva in un camper in Arkansas. Nemmeno adolescente, la drogava e la faceva ubriacare. Solo molto più tardi, grazie a una psicoterapia, ha capito che si trattava dei primi segnali di abuso.
A 15 anni si sono sposati, e la violenza sessuale, fin dalla notte nella “luna di miele”, rientrava in una più ampia costrizione. April non poteva andare a scuola, non frequentava amici. A 28 anni le sono stati diagnosticati i primi disturbi della personalità e attacchi di panico. Solo a 30 ha deciso di raccontare la sua storia, e di affidarsi ad Unchained at last.


Una recente inchiesta svela che tra il 2010 e il 2018 quasi 300.000 ragazzi, l’86 per cento di sesso femminile, si sono sposati prima dei 18 anni. Esclusi pochi Stati che, sotto la pressione di Unchained, solo di recente hanno adottato delle leggi a loro tutela – Delawere e New Jersey nel 2018, Pennsylvania e Minnesota nel 2020, Rhode Island e New York nel 2021 – in America la pratica è legale. Nonostante il Dipartimento di Stato l’abbia certificata come un abuso dei diritti umani.
 

«Ho iniziato questa lotta per affrontare il trauma», spiega Reiss in un’intervista al New York Times, «una volta stabilizzata nella mia nuova vita, ho sentito l’urgenza di aiutare altre persone che stanno vivendo la mia stessa situazione». Traumatica a dir poco. Nella sua comunità ebraica ultraortodossa, racconta in numerose testimonianze, gli uomini pregano ogni giorno per ringraziare Dio di non averli fatti nascere non-ebrei, e per non essere nati donne. Se una ragazza vuole lasciare liberi i capelli, indossare pantaloni attillati o, addirittura, studiare, le autorità giudiziarie della comunità hanno il diritto di sequestrarle i figli. Il divorzio non è contemplato. O meglio, lo è solo se l’uomo è d’accordo e firma un atto, chiamato in gergo “get”, che autorizzi la donna a iniziare una nuova vita. Non è stato il caso di Reiss. C’è un termine preciso in ebraico, agunah, che rimanda alla condizione di prigionia delle ragazze. E a cui il nome della fondazione, Unchained, rimanda.


«Rimanere nubile a 20 anni era considerata una vergogna. Non avevo realmente la facoltà di rifiutare il pretendente. Né tantomeno, una volta resami conto della sua pericolosità, di lasciarlo», conferma la fondatrice di Unchained at last. Dopo l’ennesimo episodio di violenza, si è rivolta alla polizia, prima donna a farlo nella sua comunità, per chiedere un ordine restrittivo. Un errore, con il senno di poi. Il rabbino ha mandato un avvocato, che l’ha scortata fin dentro al tribunale per ritirare la richiesta. Quando il giudice ha provato ad accertare la spontaneità della scelta, Reiss non ha avuto il coraggio di denunciarlo. Non solo. Spesso i tribunali civili, nel momento di pronunciare la sentenza di affidamento, tengono conto anche del giudizio dei giudici della comunità religiosa, ritenuta un elemento di stabilità importante per i figli.


«È stato un processo agonizzante. Ci sono voluti dodici anni solo per cambiare la serratura della porta. La rabbia mi ha dato l’energia di guardare avanti. Ho imparato a svegliarmi ogni giorno con il pensiero di provare alla mia famiglia che si sono sbagliati. E l’ho fatto».