L’uccisione di un ceceno in pieno centro, il caso Navalny, l’attacco informatico al Bundestag: fra i due Paesi le relazioni sono diventati pessime e l’affare multimiliardario del gasdotto Nord Stream potrebbe essere bloccato

Angela Merkel e Vladimir Putin
A sangue freddo d’estate in un parco a Berlino. «La prima cosa che ho sentito è stato il suono di uno sparo. Poi l’urlo di una donna. Davanti a me, a circa trenta metri, un uomo scende dalla bicicletta. Un altro uomo è per terra. Quello della bicicletta fa due o tre passi nella sua direzione, gli punta una pistola alla testa e spara. Due volte. Poi torna alla bicicletta, infila l’arma in uno zaino e riparte. Portava una parrucca».

A parlare è Eugene D., 60 anni, insegnante d’inglese, uno dei principali testimoni al processo che potrebbe segnare il punto di non ritorno nei rapporti tra la Germania e la Russia: alla sbarra c’è Vadim Sokolov, 50 anni, l’uomo arrestato poco dopo il delitto compiuto in pieno giorno - il 23 agosto 2019 - al parco Kleiner Tiergarten. La vittima è Zelimkhan Khangoshvili, quarantenne georgiano che aveva combattuto con i ribelli ceceni, odiato da Mosca, freddato con una Glock 26 dotata di silenziatore mentre stava andando in moschea.

Il russo che secondo gli inquirenti tedeschi è il killer, invece, si chiamerebbe in realtà Vadim Krasikov, e non sarebbe un pacifico ingegnere edile come affermato dal suo avvocato, bensì un ex combattente che, tra l’altro, negli anni Ottanta faceva parte di un’unità speciale in Afghanistan. «È stata un’esecuzione», insiste Eugene D., a quanto riferisce la Berliner Zeitung. «Il killer era freddo e sicuro di sé».

Russia
Le 5 mosse con cui Alexei Navalny ha messo spalle al muro Vladimir Putin
2/2/2021
Un omicidio alla luce del sole nel quartiere di Moabit, ad un quarto d’ora di camminata da Schloss Bellevue, residenza del presidente tedesco Frank-Walter Steinmeier, ma anche una “spy story” di respiro internazionale: la Procura federale tedesca è convinta che il delitto sia stato ordinato a Mosca e chiama in causa gli uomini del Gru, il servizio d’intelligence militare russo. Siamo nel pieno di quello che qualcuno ha definito il “lato oscuro” dei rapporti tra Germania e Russia, che negli ultimi anni si sono deteriorati in maniera drammatica: una sequenza di eventi con il loro carico di misteri, accompagnati da un ininterrotto duello diplomatico tra i due Paesi, nel quale si intrecciano le inchieste giudiziarie, la guerriglia delle dichiarazioni politiche e le reciproche espulsioni di personale d’ambasciata, un filo rosso che arriva fino al braccio di ferro intorno al caso dell’avvelenamento di Aleksej Navalny.

A Berlino il campanello d’allarme è suonato per la prima volta nel 2015, quando un formidabile cyber-attacco mandò in tilt l’infrastruttura digitale del Bundestag, il parlamento tedesco, rimasto “al buio” per diversi giorni: un episodio che Angela Merkel otto mesi fa ha definito «doloroso», accusando la Russia di perseguire una «strategia da guerra ibrida», nientemeno. La cancelliera aveva ancora sul tavolo la relazione degli inquirenti, che affermavano di aver identificato l’autore dell’hackeraggio: secondo lo Spiegel, «un agente russo di nome Dimitri Badin, che lavora per il servizio segreto militare Gru».

Il fatto è che la pista degli 007 di Mosca porta anche al delitto del Kleiner Tiergarten. A quanto scrivono i reporter investigativi dello Spiegel e del sito Bellingcat, gli agenti russi hanno avuto «un ruolo centrale» nell’uccisione dell’ex miliziano Khangoshvili. Nelle settimane e nei mesi precedenti il delitto, Krasikov (o Sokolov, a seconda dei punti di vista), avrebbe avuto intensi contatti e rapporti con membri del cosiddetto “Gruppo Vympel”, una formazione di forze speciali sotto il comando dell’Fsb, l’agenzia d’intelligence nata dalle ceneri del Kgb, e considerata la “sorella” del cosiddetto “Gruppo Alpha”, specializzato in missioni anti-terrorismo e operazioni sotto copertura. Mentre la Russia smentisce qualsiasi coinvolgimento, la Procura federale tedesca afferma di avere le prove per dire che il delitto è avvenuto su ordine di «soggetti statali russi», con gli agenti di Mosca che avrebbero infiltrato il killer in Germania sotto falsa identità, aiutandolo poi a mettere a segno l’assassinio: insomma, un atto di “terrorismo di Stato” compiuto sul suolo tedesco. Un piano elaborato con anticipo, con «almeno un complice» che avrebbe - è di nuovo lo Spiegel a sostenerlo - contribuito a prepararlo: impossibile che Krasikov - entrato in Germania il giorno prima del delitto, con un volo da Varsavia - fosse in grado di individuare in una manciata d’ore l’abitazione della vittima, conoscere le sue abitudini e preparare un ragionevole piano di fuga.

Certo, neanche Khangoshvili era un’anima pia: nei primi anni Duemila aveva combattuto in Cecenia al fianco dei separatisti, Vladimir Putin in persona ha avuto modo, in passato, di definirlo «bandito» e «assassino». La Russia lo classifica come terrorista, né più né meno: l’agenzia di stampa Ria Novosti riferisce di una «fonte di sicurezza russa» secondo la quale nel 2004 Khangoshvili «ha preso parte alla pianificazione e alla preparazione degli attacchi a Beslan e alla metropolitana di Mosca». Facile capire perché sul “Tiergarten-Mord” - l’omicidio del Tiergarten, come lo chiamano i media tedeschi - i nervi siano così tesi. Da quando la Procura federale, più di un anno fa, ha puntato il dito sulla Russia, è stata un’escalation: con Berlino che convoca l’ambasciatore Sergej Nechayev ed espelle senza troppi complimenti due diplomatici (in realtà, ancora una volta, due agenti del Gru, secondo i giornali), e Mosca che risponde a stretto giro di posta con la contro-espulsione di due funzionari accreditati all’ambasciata tedesca.

Dopodiché, dallo scorso agosto è la vicenda Navalny ad infiammare ulteriormente le relazioni: e ancora una volta si chiamano in causa i servizi segreti russi. Sin dall’inizio la partita si gioca tra Berlino e Mosca. In agosto, quando esplode il caso dell’avvelenamento del dissidente russo, è Berlino a mettere in piedi l’operazione di salvataggio, organizzando il volo verso la capitale tedesca ed il suo ricovero all’ospedale della Charité, ed è il laboratorio della Bundeswehr a determinare che era stato avvelenato con l’agente nervino Novichok. E poi sono Merkel e Steinmeier a ribadire che «i responsabili stanno a Mosca», facendo andare su tutte le furie il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, che evoca «spiacevoli conseguenze». Affermazione che non impedisce alla cancelliera di andare a trovare l’attivista in ospedale: in privato, lontano dai riflettori, senza fanfare, com’è nel suo stile, a dimostrazione di una sensibilità particolare dell’ex “ragazza dell’est” in merito alla vicenda.

Dopo l’arresto del dissidente appena messo piede a Mosca, prim’ancora delle manifestazioni e degli arresti a centinaia in decine di città russe, Berlino è tra le prime a far sentire la propria voce. Parole che vanno oltre la dichiarazione di rito: «Le autorità russe hanno arrestato la vittima di un tentato omicidio compiuto con armi chimiche e non i responsabili», attacca il portavoce della cancelliera, Steffen Seibert. «Il governo tedesco chiede esplicitamente che il signor Navalny venga liberato e che sia fatta piena luce sulle circostanze dell’attacco chimico». Di fronte ai cortei ai quattro angoli della Russia, è il Tagesspiegel a commentare: «Qui non è in gioco solo il futuro di un uomo, ma il futuro del Paese». A nessuno sfugge che c’è un convitato di pietra in tutta questa storia: l’affare Nord Stream 2, e non sorprende che ad un certo punto abbiano cominciato a farsi rumorose le voci che chiedono il blocco dei lavori per il gasdotto dal costo multi-miliardario, volto ad aumentare vertiginosamente il volume di gas trasportato dalla Russia alla Germania.

Sono sideralmente lontani i tempi in cui il telefono che collegava la cancelleria ed il Cremlino era rovente, quando Merkel era il leader con il quale Putin si sentiva più spesso, pur nella distanza delle posizioni. Nel 2014 fu il Guardian a contare le telefonate del presidente russo con gli altri leader mondiali: almeno 35 quelle con Merkel contro le sole 10 chiamate a Obama, le 9 al presidente kazako Nazarbayev e le 3 indirizzate all’allora segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Oggi, invece, è interessante notare che il gelo siberiano dei rapporti è sostanzialmente spezzato a Berlino da una sola voce: quella dell’Afd, il partito dell’ultradestra tedesca. Tanto che qualche settimana fa il ministro degli Esteri Lavrov ha accettato di ricevere una delegazione della formazione nazional-populista per discutere della “ripartenza” delle relazioni tra i due Paesi. Ricevimento improntato a grande cordialità, durante il quale il capo dell’Afd Tino Chrupalla non ha mancato di lamentare «i tentativi di impedire il dialogo» in patria.

Al processo, intanto, Krasikov-Sokolov segue la regola del silenzio: tace. Come emerso durante le udienze, le uniche parole che l’uomo accusato di essere il killer del Kleiner Tiergarten ha pronunciato sono quelle dette il 18 novembre 2019 agli inquirenti che lo visitavano in carcere: «La Russia sa che sono qui. E non rinuncerà a me».