Turchia
Rock, silenzio e nonviolenza: così gli studenti difendono l’università dalle mani di Erdogan
Da un mese e mezzo ragazzi e docenti si oppongono al tentativo di commissariare l’accademia di Istanbul
Resistono malgrado tutto gli studenti e gli accademici nel campus sud dell’Università del Bosforo a Istanbul. Da sei settimane si oppongono alla nomina a rettore di Melih Bulu, un professore esterno al corpo docente di quella università, esponente politico del Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) al governo del paese, non eletto, ma nominato alla guida del Rettorato dal presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan il primo gennaio 2021.
La nomina del professore Bulu è vista come espressione della famigerata pratica di inserimento di “kayyum”, ovvero di “fiduciari”, nell’amministrazione dello stato. Il termine kayyum evoca il regime del colpo di stato del 1980, quando i militari li utilizzarono scatenando la persecuzione più feroce della storia moderna turca contro il dissenso e i movimenti di sinistra. Kayyum ricorda anche la pratica dell’Akp di sostituzione nei comuni (in particolare nel sudest a maggioranza curda) dei sindaci eletti democraticamente con uomini fiduciari del partito di governo. Dal tentativo di colpo di stato del 2016, il Partito della giustizia e dello sviluppo, nominando direttamente i rettori delle accademie, ha riportato i kayyum nei campus.
Il tentativo di Erdogan di porre la migliore università del paese sotto il suo controllo è dettato da due fattori principali.
Per un verso, dalla necessità di collocare quadri del suo partito e del suo principale alleato di estrema destra, Partito del movimento nazionalista (Mhp) e, per altro verso, da quello di esercitare un controllo diretto nelle istituzioni che sono state sempre appannaggio dell’élite laiche che hanno controllato il paese per lunghi anni e che esprimono una visione aperta e inclusiva della società opposta a quella dell’Akp fortemente conservatrice e basata su valori islamici.
Non è un caso che a finire nel mirino del presidente turco sia stata più di ogni altra la Bogaziçi, l’Università del Bosforo. L’antica accademia fondata nel 1863, la più aperta al mondo occidentale e di cultura liberale, è il cuore del pensiero libero, l’accademia già ribelle nel 2018, dove vive anche il dissenso.
E ora gli studenti del Bosforo con l’arguzia e il coraggio, con una rigorosa pratica nonviolenta, con gioia, col sorriso, con entusiasmo e intelligenza stanno resistendo al tentativo di Erdogan di metterla sotto tutela.
Al loro fianco vi sono anche 147 tra i più prestigiosi intellettuali del paese che hanno firmato un appello dal titolo: “Non guarderemo in basso!” Tra questi vi sono il musicista di fama mondiale Zülfü Livaneli, il premio Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk, la scrittrice Elif Safak, lo scrittore Ihsan Oktay Anar e il poeta Ahmet Ümit. Questi intellettuali rappresentano il paese che non si piega, che non abbassa la testa.
Da un mese e mezzo, tutte le mattine alle ore 12, nel campus sud del Bosforo, immerso nel verde, tutti gli accademici in piedi, distanziati, perfettamente immobili, per trenta interminabili minuti, voltano le spalle all’ufficio del rettore. È la pratica del Duran Adam (persona in piedi, immobile) adottata dalla generazione di Gezi nella primavera del 2013 durante le proteste antigovernative di piazza Taksim. Tutto avviene in silenzio, e in quei trenta minuti c’è la forza della nonviolenza che si sprigiona e restituisce speranza.
Ma l’ira di Erdogan contro l’università ribelle non si placa e con decreto presidenziale istituisce due nuove Facoltà nell’accademia del Bosforo: quella di Giurisprudenza e quella delle Comunicazioni, con l’intento di fornire un sostegno a Melih Bulu che era rimasto completamente solo, perché nessun membro della Bogaziçi vuol lavorare al suo fianco e dunque di fatto non può governare l’accademia perché sfiduciato da tutti. La creazione di due facoltà dovrebbe servire ad aggirare questo ostacolo perché la nomina di professori e dirigenti di esse spetta al rettore, che infatti ha subito designato come vicerettori due persone disposte a lavorare con lui.
Ma intanto si alza la tensione tra movimento studentesco e governo. In una lettera aperta a Erdogan gli studenti dettano le loro condizioni, chiedono l’abrogazione della decisione di aprire nuove Facoltà, le dimissioni del rettore, la revoca dell’assedio della polizia nell’accademia e la liberazione degli studenti ancora detenuti.
La rivolta studentesca dilaga e ai giovani del Bosforo si uniscono quelli di altre università, si uniscono il movimento dei diritti civili, gli ambientalisti, i pacifisti, le femministe, l’agguerrito e variegato movimento di lesbiche, gay, bisessuali, travestiti, transgender, intersessuali e queer, Lgbttiq.
«Sono un rettore che ascolta l’hard rock», aveva detto Bulu nel presentarsi agli studenti per catturare la loro simpatia. «Mi piacciono i Metallica e gli sport estremi», aveva aggiunto. Da allora, ogni giorno, i giovani universitari sotto le finestre del Rettorato ascoltano a tutto volume la fragorosa colonna sonora di “Master of Puppets”. Gli studenti ricevono anche la solidarietà degli abitanti dei quartieri roccaforte della sinistra di Istanbul, come quelli di Kad?köy e di Hisarüstü, che ogni sera alle 21 danno vita alla “tencere tava çalmak”, ovvero alla “battitura di pentole e padelle”.
La repressione della polizia è sproporzionata: gli studenti vengono inseguiti ovunque, nei negozi e nei centri commerciali, trascinati e malmenati lontano dai fotografi. Ai giornalisti è vietato riprendere le scene dei pestaggi documentati dai ragazzi che mostrano i loro volti e gli arti tumefatti. I centri storici delle tre maggiori città del paese sono letteralmente presidiati da terra, cielo e mare con centinaia di poliziotti in assetto antisommossa. L’ordine di ingaggio della polizia è quello di evitare a tutti i costi un’altra Gezi. «Non ci sarà un’altra Gezi’’, aveva detto in maniera ferma Erdogan e dunque la tecnica è quella di stroncare sul nascere ogni tipo di sit-in.
Ma gli studenti non ci stanno: repressione, detenzioni, arresti, gas, proiettili di gomma non li scoraggiano. Anche dopo l’arresto di quattro esponenti del movimento Lgbttiq che avevano allestito una mostra fotografica nel campus e avevano disegnato un arcobaleno, simbolo della comunità gay e del movimento pacifista mondiale, su una foto della Kaaba, il sito più sacro per l’Islam. È bastato questo per fare scattare contro i manifestanti l’accusa di «insulto ai valori religiosi». Il ministro dell’Interno Soylu in un suo tweet li ha definiti «pervertiti» e il Governatore di Istanbul ha ordinato il sequestro delle bandiere arcobaleno, diventate così uno dei simboli della rivolta studentesca. Lontani sono i tempi in cui il presidente turco si esprimeva come un difensore dei diritti di genere con queste parole: «Anche gli omosessuali devono essere legalmente protetti nel quadro dei loro diritti e delle loro libertà».
Per il leader turco ora non ci sono studenti che protestano, ma solo terroristi. Il 12 settembre 1980 l’Università Bogaziçi si vide sbarrare l’ingresso da un carro armato. Quarantuno anni dopo i suoi cancelli vengono di nuovo sbarrati, questa volta non da un carro armato, ma dalle manette. L’immagine dei cancelli dell’università chiusa con le manette ha fatto il giro del mondo a simboleggiare che ad essere arrestati non sono stati solo 159 studenti, ma l’istituzione universitaria in sé.
La comunità del Bosforo promette che la protesta continuerà ancora più gioiosa, al ritmo di rap, dei Metallica, di canti e balli.