Guerra di spie

La vera storia dell’attacco acustico ai diplomatici americani a Cuba

di Daniele Mastrogiacomo   24 febbraio 2021

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Quattro anni fa un suono ossessivo perseguita i funzionari dell’ambasciata Usa nell’isola. Psicosi? Bufala? Oggi le carte rivelano: cavalcare la vicenda fu una manovra trumpiana per innescare una nuova crisi diplomatica

«Sì, lo sento. È capitato anche e me, qualche sera fa, a casa mia. Eravamo in giardino con mia moglie. È durato un’ora e poi è sparito». «Tu cosa pensi? Ci stanno spiando, ci vogliono colpire». La cena tra le due coppie di funzionari dell’ambasciata Usa a L’Avana era stata eccellente. Entrambi arrivati da un paio di mesi con le mogli adesso si godevano novembre, un mese ideale per Cuba.

Il periodo, tra l’altro, era esaltante da un punto di vista politico e ricco di prospettive. Sei mesi prima, nel marzo del 2016, Barack Obama era atterrato sull’isola rompendo un tabù durato 54 anni: un presidente americano sanciva la fine del bloqueo in vigore dal 1961. Aveva promesso di sotterrare «l’ultima vestigia della Guerra Fredda». Si apriva il disgelo. Cuba e Stati Uniti d’America tornavano a parlare.

«Ma dai, sei assurdo», replicò con una risata il funzionario ospite del suo amico. «Sono i grilli. Qui, i grilli sono di una specie diversa, unica. Lo so, sono fastidiosi, ti rompono tutta la notte».

«Sono abbastanza sicuro che non sono i grilli», insistette serio e un po’ risentito il padrone di casa. «È un rumore metallico, provocato da qualcosa di meccanico. Niente di naturale».


La conversazione fa parte del centinaio di pagine di verbali e testimonianze contenute in uno dei dossier più controversi nella storia recente dell’intelligence statunitense. Per quattro anni una speciale task force della Cia ha cercato di risolvere il mistero di quella che è diventata nota come la “Sindrome de L’Avana”: una serie di gravi disfunzioni fisiche che vanno dall’emicrania, alla nausea, ai giramenti di testa, mancanza di equilibrio, che sconfinano nella fobia e anche, in casi limite, nella perdita dell’udito.

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Tre commissioni mediche, in differenti paesi, non sono riuscite a risolvere l’enigma. La sindrome è diventato un vero caso internazionale che ha messo a repentaglio le relazioni tra Cuba e Usa e spento le prime fasi di un disgelo su cui avevano investito i due governi in mesi di sfibranti trattative. Un negoziato condotto nel massimo segreto, con la mediazione del Vaticano, che aveva portato alla liberazione di Alan Gross, un cooperante americano accusato di aver installato illegalmente sull’isola una piattaforma simile a Facebook destinata agli oppositori di Fidel e di Rolando Sarraff Trujillo, ex operativo del servizio segreto cubano definito da Obama «uno degli agenti più importanti che gli Stati Uniti hanno avuto a Cuba». In cambio Washington aveva accettato di rilasciare gli ultimi tre membri del gruppo noto come “Cuban five” che per anni avevano spiato negli Usa prima di essere scoperti e arrestati nel 1998.

Dalla sera dei grilli erano passati due anni. Un giorno uno dei due funzionari viene avvicinato da un collega nella sede dell’ambasciata. Gli racconta di un giovane, sulla trentina, atletico, che era stato ricoverato a Miami dopo una permanenza sull’isola. Soffriva di strane nausee e forti mal di testa. Gli specialisti gli avevano diagnosticato una serie di anomalie fisiche tra cui un’acuta perdita dell’udito. Il collega aggiunge qualcosa di più: il giovane aveva raccontato di essere stato colpito da un fenomeno strano e inquietante, un raggio sonoro che sembrava essere diretto proprio su di lui. Il funzionario pensa subito a quello che gli aveva raccontato l’altro collega nella famosa cena di due anni prima.

Si adombrò ma non disse nulla. Fu l’amico che lo sollecitò. Gli propose di ascoltare un nastro su cui era inciso quel suono. Era identico a quello che aveva avvertito nell’aria anche lui e che il suo collega dell’ambasciata si ostinava a denunciare come un’offensiva ultrasonica del regime di Fidel. Con una differenza: né lui, né il suo amico, né il terzo collega dell’ambasciata, a differenza del «trentenne atletico», avevano avuto delle conseguenze fisiche.

Nel gennaio del 2019 a Cuba il clima era cambiato. Donald Trump aveva vinto le elezioni e tutti, conoscendolo, si preparavano al terremoto che avrebbe provocato. Il nuovo inquilino della Casa Bianca non faceva mistero di voler cancellare ciò che aveva fatto il suo predecessore. Dall’accordo sul nucleare con l’Iran che subito annullò in modo unilaterale, al gelo che voleva di nuovo creare con Cuba. La Cia e l’Fbi avevano chiuso l’ennesima indagine sulla “Sindrome” senza giungere ad alcuna conclusione. Con una differenza che il Bureau sottolineò comunque per iscritto: confermò i sintomi comuni delle vittime ma escluse che queste fossero generate da alcun tipo di apparato sonoro.

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I funzionari dell’intelligence si soffermarono su una coincidenza che alimentò quantomeno dei sospetti: i primi quattro americani che avevano denunciato l’aggressione sonora, compreso il giovane con prestanza atletica, erano tutti ufficiali della Cia che lavoravano sotto copertura diplomatica. Stesso incarico lo avevano altri due funzionari che erano stati colpiti mesi più tardi. Cia e Fbi non hanno mai raggiunto un accordo e sono rimasti su posizioni diverse. Divergenze sottolineate anche dalle altre agenzie di intelligence e della Difesa Usa.

Il vuoto di conclusioni ha finito per trasformare l’anomalia in un giallo degno di Graham Green. Nel giro di pochi mesi, la malattia scatena un panico contagioso. Ne sono colpiti 24 impiegati e funzionari dell’ambasciata Usa a L’Avana e altri 8 di quella canadese. Con effetti e conseguenze diverse: per forma e gravità. Tutti vengono portati via dall’isola e sottoposti ad accurate analisi. Ma niente. Non c’è verso di trovare una risposta convincente. I sintomi dei 24 americani hanno intensità difformi e quelli dei canadesi sono completamente diversi. Il direttore medico del Dipartimento di Stato, Charles Rosenfarb, si spinge a riconoscere che «molto probabilmente sono legati al trauma di una fonte non-naturale» e che «nessuna causa può essere esclusa».

Il caso bastava per rompere le relazioni e lanciare l’offensiva contro Cuba. L’amministrazione Trump aggredì il governo di Raúl Castro e lo accusò di aver deliberatamente colpito gli uomini dell’ambasciata. Erano i primi segnali del ritorno della Guerra Fredda. Cuba reagì sorpresa e respinse, sdegnata, un assalto che aveva un suo appiglio, sebbene labile ancora tutto da chiarire; ma appariva chiaramente strumentale. Il presidente cubano offrì tutta la sua collaborazione e propose di partecipare alle indagini. Gli Usa respinsero l’offerta e puntarono il dito anche sulla Russia.

La tensione sale alle stelle. Le relazioni diplomatiche vengono interrotte, i locali dell’ambasciata svuotati, il personale ridotto all’osso. Tutto tornava come tre anni prima. Scattano nuove sanzioni, sono revocate le aperture commerciali di Obama, vengono imposti divieti di soggiorno, viaggi, iniziative private per i cittadini americani con minacce di ritorsioni nei confronti di tutti quei paesi legati agli Usa con interessi a Cuba. Sull’isola si crea il vuoto. Chiudono alberghi e ristoranti, le navi da crociera si tengono al largo. Il piccolo fortino comunista è di nuovo assediato dal bloqueo e la crisi torna a mordere. Il Covid-19 fa il resto.

Il gruppo di investigazioni dell’ Fbi, dopo essere andato per 4 volte a Cuba e aver visitato i luoghi, due case e tre alberghi, dove era stato avvertito l’ultrasuono, giunge a una prima conclusione certa: «Le malattie e le lesioni riscontrate sui pazienti non sono state causate da alcun tipo di apparato sonoro». Il caso della Sindrome si spegne da solo. Fino alla settimana scorsa.

L’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca apre anche gli archivi del Segretario di Stato. Vengono desecretati una serie di documenti che offrono una spiegazione al giallo. Niente di scientifico. Retroscena tenuti nascosti e ora più evidenti. Il suono acuto che aggrediva i diplomatici fu «l’occasione» per smantellare il disgelo avviato da Obama. «La decisione di ridurre il personale a L’Avana non ha seguito il protocollo del Dipartimento di Stato», si legge, «e non è stata preceduta né seguita da alcuna analisi formale dei rischi e dei benefici per il personale presente».

Le critiche si appuntano soprattutto su Rex Tillerson, ex Segretario di Stato, colpevole di «non aver designato un alto funzionario come responsabile generale dell’inchiesta, e lamenta «l’eccessiva segretezza» della Cia per non aver condiviso le informazioni con il Dipartimento di Stato così «da ritardare la risposta che è considerata eccessiva».

Un altro documento conferma che i funzionari americani soffrirono problemi di salute ma ricorda anche che non si è mai potuta stabilire la causa. «Tutto questo ha reso inefficace la reazione che è stata pervasa da mancanza di direzione, inefficacia delle comunicazioni e disorganizzazione sistematica», sentenzia il dossier. Conclusioni amare, sebbene sempre accompagnate da linguaggio diplomatico. Ma che offrono, per la prima volta, un movente più che la causa della “Sindrome de L’Avana”.

Una bufala? Tutta una montatura per creare un caso? Osservatori e analisti geopolitici della Regione, anche statunitensi, ne sono convinti. Nessuno era in grado di dire cosa fosse quel suono ossessivo, tra l’altro mai più apparso. La Cia, coperta probabilmente da Tlllerson, lo ha usato per spianare la strada alla politica estera di Donald Trump. Senza avvertire nessuno. In gran segreto. Tramite i suoi agenti che hanno cominciato a insinuare sospetti, incutere timori, generare allarme, suscitare una psicosi tra lo stesso personale dell’ambasciata che finalmente placava la sua angoscia trovando una risposta ai tanti interrogativi. Non erano dei folli, c’era del vero in quel rumore metallico. Lo confermava anche l’intelligence. Il classico lavoro sporco di un progetto più ampio.

Dopo un lungo silenzio, con il nuovo embargo in vigore, fino all’inserimento di Cuba nella lista dei paesi «fiancheggiatori del terrorismo», un cronista della Ap ottiene il nastro con inciso il suono della Sindrome. Lo porta dal noto biologo americano Alexander Stubbs che assieme all’etomologo Fernando Montealegre, massimo esperto di acustica degli insetti, lo mette a confronto con il fragore prodotto dall’Anurogryllus celerinictus, un grillo delle Indie a coda corta. È assai diffuso nei Caraibi ed è presente ormai solo in questa area. Era identico. Un grillo. Il nostro grillo all’Avana.