Cresciuto a Parigi, figlio dell’establishment intellettuale, il nuovo segretario di Stato Usa ha la missione di capovolgere la politica estera di Trump

Chiedi di Tony Blinken, tutti ti diranno che è cresciuto a Parigi, che parla francese senza l’ombra di un accento, che tuttora si diletta a suonare il blues alla chitarra, che quand’era ragazzino la madre gli fece avere un autografo di John Lennon (aveva passato una giornata con Yoko Ono, la signora mamma, a leggere poesie).

E poi che in casa capitavano Arthur Rubinstein e Grace di Monaco, che il padre era un banchiere amante dell’arte in rapporti fraterni con gente come Mark Rothko e Robert Rauschenberg, che da teenager si lanciava in appassionate discussioni politiche con Jane Fonda e Catherine Deneuve, che è di famiglia ebraica e origini ucraine.

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Ma se si vuole provare a capire chi sia davvero il nuovo segretario di Stato americano - ossia colui che insieme a Joe Biden vuole rivoltare come un guanto il ruolo degli Stati Uniti nel mondo dopo la tempesta trumpiana - c’è un solo nome che è opportuno segnarsi: quello di Samuel Pisar. Era il suo patrigno, con il quale il ragazzo visse dall’età di nove anni nella ville lumière, dove mamma Judith - manager della fascinosa compagnia di danza di Merce Cunningham - si era trasferita in seguito al divorzio da papà Donald. Su questo ci sono due racconti. Uno è dello stesso Pisar: nato in Polonia nel 1929, non solo era un celebre avvocato (aveva trattato il primo divorzio di Richard Burton) nonché il “sussurratore” di vari presidenti francesi, ma era anche un sopravvissuto dell’Olocausto.

In un’intervista del 2013 con il Washington Post, Pisar racconta che da adolescente Antony (senza l’h, come il Marc’Antonio di Shakespeare) «voleva sapere tutto» sulle cicatrici che la Shoah gli aveva lasciato: «Rimase impressionato da quello che mi era accaduto quando avevo la sua età. Soprattutto gli dette un’altra dimensione, un altro sguardo sul mondo e su quello che vi può accadere. Quando oggi si deve occupare dei gas usati in Siria, inevitabilmente pensa ai gas con i quali è stata eliminata la mia intera famiglia».

L’altro racconto è quello del medesimo Blinken, che ricorda come Pisar gli avesse mostrato il numero da detenuto tatuato sull’avambraccio di quando era stato deportato ad Auschwitz (ma anche a Sachsenhausen, Majdanek e Dachau). Il patrigno gli aveva anche raccontato di come era scampato ad una “marcia della morte” fuori dal Tunnel Engelberg vicino a Leonberg in Germania, trasformato dai nazisti in una fabbrica di pezzi d’aereo con i deportati ai lavori forzati. Samuel se ne stava nascosto in una foresta quando, un giorno verso la fine della guerra, sentì un «suono profondo e rombante»: era un carro armato americano.

Uscito allo scoperto disse le uniche tre parole d’inglese che conosceva: «God bless America». L’attuale segretario di Stato ancora oggi ama ripetere: «Questa è la storia con la quale sono cresciuto, e parla di quel che rappresenta il nostro Paese, e cosa significa quando gli Stati Uniti si impegnano in prima linea ed esprimono la loro funzione di guida».

Che sia mitologia dello storytelling o che si noti la grande foto in bianco e nero che campeggia sul suo account Twitter personale - scattata allo Studio Ovale, alla scrivania è seduto Barack Obama, al suo fianco c’è lui, il diplomatico cresciuto a Parigi - quel che colpisce della biografia di Blinken è che rappresenta plasticamente e antropologicamente il contrario di tutto quello che era il mondo di Trump. Il che potrebbe anche essere considerato un handicap di fronte al quella parte di elettorato bianco che ha votato per l’ex tycoon: Blinken rappresenta la quintessenza dell’establishment filo-europeista, atlantista, multilaterale, progressista, acculturato e cosmopolita, praticamente l’abominio per il trumpiano furioso.

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«Il mondo non si ordina da solo» è una delle frasi che il cinquantottenne ama ripetere più spesso, l’opposto della logica dell’“America first”, come non si è mancato di annotare a Berlino e a Bruxelles, ma anche a Mosca e a Pechino. Di sicuro la sua biografia è perfettamente coerente con le sue scelte politiche. Appena ne ha avuto occasione, Blinken ha ribadito il suo personale “Yes we can”: «Possiamo affrontare la minaccia esistenziale posta dal cambiamento climatico. Possiamo rivitalizzare le nostre alleanze principali, moltiplicando la nostra influenza nel mondo. Insieme, saremo posizionati in modo decisamente migliore per contrastare le minacce in arrivo da Russia, Iran, Corea del Nord, difendendo la democrazia e i diritti umani».

Insomma, «il mondo è più sicuro per la gente d’America se abbiamo amici, partner e alleati», insiste il segretario di Stato. E l’Europa? Un “partner vitale”, of course. Secco il commento sul ritiro di dodicimila soldati americani dalle basi Nato in Germania, deciso da Trump in dispetto ad Angela Merkel, apparentemente in assenza di un piano strutturato: si tratta di una mossa «sciocca, dispettosa, fallimentare dal punto di vista strategico, che indebolisce la Nato, aiuta Vladimir Putin e danneggia la Germania, il nostro alleato più importante in Europa».

I toni sono cambiati anche sulla Russia: Blinken ha parlato degli «attacchi e attentati» contro chi si impegna per la libertà e si è detto «profondamente disturbato» per la «violenta repressione» dei sostenitori di Aleksej Navalny. Per quanto riguarda il rapporto con la Cina, «è il più grande test geopolitico del secolo», dato che si tratta «di una potenza economica, diplomatica, militare e tecnologica che può seriamente sfidare un sistema internazionale stabile e aperto». Echi di Roosevelt, Kennedy (e Obama) in salsa post-trumpiana.

C’è poi il capitolo Iran, ovvio. Che il ritorno al tavolo con Teheran fosse una delle mosse più attese non sorprende nessuno che conosca Blinken: l’attuale segretario di Stato è uno dei padri dell’intesa firmata nel 2015 sotto Obama. Non a caso sono state innumerevoli le volte che Blinken ha avvertito che la decisione di Trump di ritirarsi da quell’accordo «senza che vi fosse niente a rimpiazzarlo» rischia di mettere proprio Israele «nella trincea di fuoco se l’Iran davvero riuscisse a sviluppare un ordigno nucleare».

Ebbene, qui conviene ricordare che parallelamente alla nomina di Blinken al Dipartimento di Stato c’è quella di Jake Sullivan come consigliere della sicurezza nazionale: ad unire i due è proprio l’accordo con gli ayatollah. Fu una missione segreta a lanciare sette anni fa la carriera di Sullivan - allora trentasettenne - mandato da Obama ad incontrare, lontano dai riflettori e da ogni ufficialità, gli emissari del governo di Teheran per iniziare ad imbastire quello che sarà, due anni dopo, l’intesa con la repubblica islamica. Almeno cinque appuntamenti segreti, faccia a faccia, in Oman.

Pur essendo considerati ambedue membri stabili del cerchio magico di Biden, sia a Blinken che a Sullivan viene attribuita la capacità di dire anche dei no: come vice segretario di Stato, il primo era su posizioni opposte a quelle di Biden nel sostenere la necessità di un intervento armato in Libia, così come fu Sullivan ad essere l’unico nello staff di Hillary Clinton (che aveva già seguito in 112 Paesi quando era lei a guidare la politica estera Usa) a suggerire che forse sarebbe stata «una buona idea» passare più tempo negli Stati del Midwest, che poi si rivelarono decisivi nel decretare la sconfitta dell’ex first lady.

Quel che è sicuro è che nessuna delle due teste d’ariete della politica estera Usa è un parvenu alla Casa Bianca. Per quanto riguarda Tony Blinken, immancabili studi di legge a Harvard e dottorato alla Columbia University Law School, la sua carriera l’ha vissuta in gran parte nel cuore delle ultime presidenze democratiche: è stato vice segretario di Stato negli ultimi due anni dell’amministrazione Obama, preceduti da quattro anni passati come consigliere per la sicurezza nazionale di Biden quand’era vicepresidente, e prim’ancora aveva servito nella squadra per la sicurezza nazionale di Bill Clinton.

Ma è stato anche il principale consulente per la politica estera dell’ex senatore del Delaware durante tutta la sua campagna presidenziale, così com’era al fianco del futuro capo della Casa Bianca quando questi era presidente della Commissione estera del Senato. Nel corso degli anni i dossier a lui affidati sono stati quasi sempre i più infiammabili: Pakistan, Afghanistan, Iran durante la prima amministrazione Obama, Siria e conflitto ucraino quando si era trasferito nella West Wing come vice consigliere per la sicurezza nazionale.

Dicono, insomma, che in politica estera Blinken sia considerato un “regista”. Narrano che da ragazzo volesse fare proprio il regista, ma di cinema. Di sicuro è un uomo di passioni. Quella per il rock non l’ha mai abbandonata: su Spotify ci sono anche i brani registrati con la sua band, il cui nome è, significativamente, Ablinken. Lui ne va fiero, tanto da pubblicizzare la sua musica su Twitter. Nel pezzo Lip Service il segretario di Stato confessa le sue fragilità: «Oh, era un tale crimine chiederti di restare. E poi sono venuto da te, ma tu mi hai detto rimaniamo solo amici. Yeah».