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Cosa significa la visita di papa Francesco a Qaraqosh, la città irachena dei martiri che non potrà mai rinascere

Distrutta dall’Isis, ospitava la più grande comunità cristiana del paese. Ma la ricostruzione è solo il primo passo. E la visita del Pontefice nella chiesa di al-Tahira è un inno alla speranza perché ritornino profughi ed emigrati

Sulla strada che porta a Qaraqosh, da Erbil, le bandiere vaticane sono legate assieme a quelle curde e a quelle irachene.


Ai check point grandi cartelli raffigurano papa Francesco. Benvenuto a Bagheda, l’altro nome di Qaraqosh con cui i cristiani preferiscono chiamare la città, 30 chilometri a est di Mosul, che un tempo era la più grande città cristiana in Iraq.


Nella chiesa di al-Tahira, l’Immacolata Concezione, la più grande chiesa siro-cattolica del Medio Oriente, un gruppo di giovani in ginocchio, a terra, lucida il pavimento. I volontari più anziani sistemano le sedie, di legno e velluto rosso, fila dopo fila.

 

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Sono le nove di mattina dell’ultimo lunedì di febbraio a Qaraqosh, quando il convoglio delle forze militari della piana di Ninive si ferma di fronte alla chiesa di al-Tahira.


Il capo delle forze militari, il comandante Ismail Shihab al Mahlawi, cammina verso padre Ammar Yako, che supervisiona i lavori: «Andrà tutto bene, padre, stia tranquillo». Parlano dei danni della guerra, sorridono a favore di telecamere – poche per la verità – si siedono qualche minuto nella cripta insieme.
I soldati monitorano l’area esterna alla chiesa, il tetto, l’altare che aspetta la visita di papa Francesco. I fedeli raggiungono la chiesa, uno dopo l’altro, vogliono tutti partecipare alla preparazione. Si guarda intorno in un misto di emozione e raccoglimento: «Non l’avremmo mai immaginato possibile», dice, indicando un giovane che dipinge un cartello di benvenuto. C’è scritto: «Vogliamo la pace».


È da qui che la notte del 6 agosto 2014, quando l’Isis stava per occupare il villaggio, padre Ammar faceva spola per accompagnare la sua gente al check point di Erbil, e aiutarli a scappare. Nel raccontare quelle ore ha la minuzia di chi ha trattenuto i ricordi ogni giorno per tre anni. Gli anni in cui la vita era una vita da sfollato, nel kurdistan iracheno.

 

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«Abbiamo detto messa al mattino. Eravano solo venticinque. La gente aveva già paura di uscire di casa. Sapevamo che l’Isis stava arrivando, io ero angosciato e pensavo solo a come aiutare la mia comunità, ma molti facevano resistenza, speravano che sarebbe stato come due mesi prima, a giugno, quando l’Isis aveva attaccato la piana di Ninive. Avevamo tutti lasciato casa per tre giorni, e poi siamo tornati».
Invece nell’agosto del 2014 stava cambiando tutto. Padre Ammar la chiama «l’inizio della trasfigurazione». Le famiglie arrivavano in chiesa con le buste e le valigie, e lui chiamava tutti i fedeli con automobili e camion per portare gli sfollati in Kurdistan.


Per raccontare il momento in cui ha capito che tutto stava precipitando pensa a una famiglia nel cuore della notte, che cammina lungo la strada adiacente alla chiesa, madre, padre e due figli piccoli. I bambini piangono, i genitori trascinano due valigie. Non avevano un mezzo di trasporto, volevano raggiungere il Kurdistan a piedi: «Ci porti lei Padre, per favore». E così ha fatto, per tutta la notte, convincendo anche i più determinati a restare che la fuga fosse l’unica possibilità di sopravvivere.


Una notte di staffetta tra Qaraqosh e Erbil: «C’erano migliaia, migliaia di persone ammassate e in fuga», fino all’ultimo viaggio. Quello dell’alba. «Erano le sette del mattino, ho guardato la strada che conduce al villaggio e ho pensato che non l’avrei rivisto».


Quella notte dalla piana di Ninive sono fuggiti 120 mila cristiani.

 

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Padre Ammar è rimasto in Kurdistan per due anni. È tornato con le truppe il giorno della liberazione. Era ottobre del 2016. Della chiesa di al-Tahira e della sua storia rimanevano solo rovine. Per più di due anni gli jihadisti dell’Isis avevano cercato di cancellare qualsiasi prova del cristianesimo da Qaraqosh: chiese abbattute, icone e statue distrutte, campanili gettati a terra, croci date alle fiamme.


Duemila case civili erano andate distrutte. Non c’era più acqua né elettricità.


Padre Ammar è nato qui, ci tiene a dirlo, e non solo Qaraqosh è la sua terra ma «la chiesa è una madre per me e tutta la mia gente».


Gli abitanti della città hanno cominciato a costruirla nel 1932, ognuno ha contribuito come poteva, lavorando o finanziando, fino al 1946, quando la chiesa è stata inaugurata.


«Ognuno qui ha una storia da raccontare legata alla chiesa di al-Tahira. Ecco perché la visita di papa Francesco è importante, perché ricorda che gli sforzi non svaniscono, che dalle ceneri si può ricostruire».
Prima dell’Isis a Qaraqosh vivevano 50 mila persone. Secondo gli ultimi dati pubblicati dal Nineveh Reconstruction Committee (Nrc) solo la metà delle 11.111 famiglie cristiane fuggite è tornata a Qaraqosh.
Una comunità zoppa. Fuggiti all’estero nei primi mesi dell’occupazione dell’Isis o rimasti in Kurdistan perché è vero che la città è stata liberata ma è vero anche che per i giovani non c’è lavoro.
 

Lo sottolinea padre Ammar: «Qui per i lavori di ricostruzione il governo di Baghdad non ha dato un soldo, la chiesa è tornata a vivere grazie a donazioni private e così le case dei cristiani. Chi è tornato lo ha fatto ricostruendo a proprie spese. Il governo ha asfaltato le strade. Si è ricordato di noi ora, per la visita del Papa».

La maggior parte dei cristiani di Ninive sono discendenti degli Assiri, il cui impero si diffuse in tutto l’Iraq più di 3000 anni fa. Un tempo il paese ospitava quattro milioni di cristiani. È difficile oggi conoscere il numero esatto di cristiani che ancora vivono in Iraq, perché non esiste un censimento completo dal 1987. L’organizzazione per i diritti umani di Baghdad Hammurabi, che fa campagne a favore delle minoranze, ritiene che al momento dell’invasione statunitense del 2003 ci fossero ancora in Iraq un milione e mezzo di cristiani, in un paese di 25 milioni di persone, ovvero circa il 6 per cento della popolazione.


Però, mentre la popolazione irachena cresceva rapidamente, la percentuale delle minoranze si riduceva. Oggi gli iracheni sono 40 milioni e i cristiani solo 400 mila, secondo William Warda, co-fondatore di Hammurabi.


La gestione del potere post invasione ha aperto la strada ai partiti sciiti e alle milizie a essi legati che negli anni hanno monopolizzato il potere sia nei ministeri che nelle forze di sicurezza. Ai cristiani, che oggi rappresentano meno dell’un per cento della popolazione, spettano cinque parlamentari su 329 seggi. Troppo pochi e troppo deboli.


La visita del Papa serve anche a questo, a dire ai cristiani d’Oriente: non siete soli.

 

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A dire alle comunità dimezzate di non sparire. È questo il più grave danno dell’occupazione jihadista, ben più dei saccheggi delle case, delle infrastrutture carbonizzate, è la gente che è andata via. Le città e i villaggi svuotati: «Non possiamo far tornare chi ha deciso di andare via ma possiamo cercare di costruire le condizioni affinché i giovani che sono qui non se ne vadano», dice padre Ammar. Per questo ha riaperto la biblioteca della Casa di San Paolo. I giovani cantano. Provano i cori per la visita di papa Francesco. Leggono libri tornati in Iraq dopo la liberazione perché l’intera biblioteca era stata data alle fiamme. Studiano.


Ma la libertà di tornare a casa non ferma la fuga. La precaria economia del paese, aggravata dall’anno dell’epidemia e dalla conseguente recessione, ha aggravato ancora la situazione. Il crollo del prezzo del petrolio ha ridotto le entrate statali della vendita del greggio e i dipendenti pubblici per mesi hanno lamentato di ricevere solo una piccola percentuale di stipendio.


Chi riesce, mette da parte i soldi necessari per partire e parte per non tornare.


Tra coloro che se ne sono andati, mezzo milione si è reinsediato negli Stati Uniti. Altri sono finiti dispersi in Canada, Australia e in Europa.


Si sentono abbandonati dal governo centrale, hanno paura di restare, intimoriti dalle milizie, spaventati dai cambiamenti demografici di alcune aree tradizionalmente cristiane, temono le cellule dormienti dell’Isis che continuano ad effettuare attacchi in alcune zone dell’Iraq, sono preoccupati per il futuro dei ragazzi che, nella divisione corrotta e settaria del potere, sentono di non avere possibilità.Oppure non hanno retto alle loro case saccheggiate, all’immagine del villaggio distrutto, presagio di un futuro troppo faticoso, e sono andati via.
 

Burhan Abada è un volontario di cui padre Ammar si fida molto. È lui che chiama per raccontare cosa significhi vivere in una comunità dimezzata. Ha le mani rugose e segnate dal lavoro. Aveva una fattoria prima del 2014. Distrutta. Aveva una casa. Distrutta. Aveva una famiglia, numerosa. Se ne sono andati via quasi tutti. Il suo corpo non ha retto. Per un anno e mezzo ha lottato contro un cancro. Oggi trascina travi di legno, il suono del suo martello sui manifesti per papa Francesco spezza l’aria. Quando è stanco si ferma e prega.

«Siamo tornati, certo, ma la liberazione del villaggio non significa che sia rinato del tutto. Puoi riparare casa tua, mettere di nuovo il tetto e verniciare le pareti. Ma qualcosa si è rotto e non tornerà come prima».

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