Debreshi scava cromo, come suo padre e suo nonno. Il 25 aprile si presenta alle urne come indipendente. Una rete di giovani di sinistra lo appoggia e spiega: «Finora per noi sempre lo stesso bivio: emigrare o essere trattati come schiavi» (Foto di Camilla De Maffei)

«Mio nonno ha lavorato nei primi anni della miniera, quando ha aperto. Mio padre ci ha lavorato 37 anni, è andato in pensione, un anno fa, ma le pensioni dei minatori sono così basse che è stato costretto a tornare in miniera, per arrotondare. E poi ci sono io. Tutta la mia famiglia è stata sottoterra, per tutta la vita. È tempo di cambiare la vita di tante persone; dobbiamo farlo da soli, nessuno lo farà per noi».

Elton Debreshi si racconta così, ancora coperto della polvere del turno in miniera che ha appena finito. Sveglia alle 5, con mezzi propri dal villaggio dove vive con la moglie e i quattro figli raggiunge il centro di Bulqize, dove il pullmino della compagnia proprietaria della miniera lo porta con gli altri operai al lavoro. Alle 6,30 si entra, la luce del sole la vede – per la prima volta – alle 13,30. Elton si toglie il casco, spegne la lampada, si accende una sigaretta.

La sua giornata è solo all’inizio. Dopo il pranzo in famiglia comincia l’attività politica. C’è un incontro al centro giovanile della cittadina a tre ore da Tirana, sulle montagne, verso il confine con la Macedonia del Nord. Elton è il primo candidato indipendente alle elezioni legislative del prossimo 25 aprile in Albania. Non è mai accaduto dal 1991, quando crollò il regime. Ci sono altri tre volti nuovi, ma sono emanazione del partito Vetvendosje, che dopo i trionfi elettorali in Kosovo è sbarcato in Albania.

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Elton è l’unico nella storia albanese recente a candidarsi al di fuori della triade del potere: il Partito Socialista del premier Edi Rama e il Partito Democratico guidato da Lulzim Basha che si alternano al potere dal 1991, e il terzo, il Movimento Socialista per l’Integrazione (Lsi) dell’attuale presidente Ilir Meta, a fare da ago della bilancia della maggioranza.

Per Bulqize la miniera è un destino. «Il cromo lo hanno trovato i tecnici italiani, negli anni Trenta. Non scavarono miniere, portavano via i sassi pieni del minerale a dorso di mulo e lo imbarcavano per l’Italia. Nel 1948, dopo la guerra, il regime albanese trovò le mappe dei geologi italiani e decise di sfruttare le miniere di cromo, costruendo la città di Bulqize, che all’epoca era un villaggio», racconta Sami Curri, giornalista investigativo nato e cresciuto a Bulqize. «Mio nonno è stato tra quelli che hanno fatto detonare la prima carica di esplosivo per aprire le miniere. Con il lavoro volontario dei tempi del regime è stata costruita la parte vecchia della città, con i prigionieri politici è stata poi costruita la parte nuova. Negli anni d’oro, erano 11mila i minatori, con famiglie».

Bulqize giace a fondo valle: le due parti della città son collegate da una strada, circondata delle montagne lacerate dalle miniere, visibili come cicatrici. «Ogni famiglia, qui, è legata alle miniere. Un futuro diverso, non lo immaginano neanche. Nessuno ti dirà che vogliono chiudere, cambiare vita. Vogliono solo sicurezza, perché ogni giorno a Bulqize ci sono vittime delle condizioni pericolose delle miniere. All’inizio il cromo era abbondante, si estraeva facilmente. Oggi no, bisogna andare sempre più a fondo. Ed è sempre più rischioso, anche perché dopo le privatizzazioni degli anni Novanta, oltre alle paghe da fame, la manutenzione dei cunicoli è l’ultimo dei problemi dei proprietari.

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Oggi i minatori ufficiali sono circa 2000, ma gli irregolari sono molti di più, compresi donne e minorenni. Le miniere attive di cromo sono gestite da 36 aziende, con assetti proprietari molto opachi, che aprono e chiudono, ma la realtà principale è l’azienda Albchrom, parte del fondo di investimento Balfin, proprietà dell’oligarca Samir Mane, con i suoi 650 dipendenti. Secondo i dati ufficiali, dal 2014 sono almeno 32 le persone morte nei tunnel di Bulqize e dintorni. Quanti siano gli infortunati sul lavoro è impossibile saperlo, ma quasi ogni giorno c’è un incidente.

Spesso le aziende dicono che si trattava di persone entrate senza permesso, in un caso addirittura le persone son state portate fuori e hanno dovuto dichiarare di essersi infortunati nel bosco. Il tutto per una paga di 35mila lekë al mese (286 euro) più un’integrazione alimentare di 15mila lekë (123 euro). Per ore e ore passate fino a mille metri sottoterra. La situazione è anche peggio per le donne: molte di loro sono vedove di minatore, lavorano per più di 8 ore al giorno per 800 lekë, o per vendere un chilo di cromo a 2,5 lekë. Né assicurazioni né pensioni, senza adeguate protezioni», conclude Sami.

Eppure il mercato del cromo è redditizio: Samir Mane è il primo miliardario della storia albanese. Il cromo dalle miniere viene portato nelle fabbriche di lavorazione a Elbasan o a Tirana, dove diventa ferrocromo, e viene venduto soprattutto in Europa, oppure ancora grezzo viene imbarcato a Durazzo per la Cina. Nel novembre 2020, nel dibattito sulla transizione energetica, l’Ue annuncia di voler puntare sull’acquisto di cromo dall’Albania per emanciparsi dai combustibili fossili a favore dell’elettricità (il cromo serve tra le altre cose per le batterie).

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L’eurodeputata francese Dominique Bilde presenta una richiesta di chiarimenti proprio rispetto alle condizioni di lavoro dei minatori. Elton Debreshi, nel 2018, aveva fondato il Sindacato dei minatori uniti di Bulqize (Smbb): proteste e scioperi, negli anni, c’erano stati, ma per la prima volta i minatori alzavano la testa. Elton viene licenziato in tronco. «In città non tutti capivano. Alcuni mi tolsero il saluto, pensavano che avrei fatto arrabbiare i proprietari e che avremmo perso l’unico lavoro disponibile, altri ancora cambiavano strada quando mi incontravano, perché avevano paura del licenziamento. Mi sono sentito solo, ma giorno dopo giorno, vittima dopo vittima, hanno iniziato a sostenermi. Ho trovato lavoro in un’altra miniera, perché di quelli esperti hanno bisogno, e non mi fermo», racconta Elton.

Un aiuto inatteso è arrivato dalla capitale. Sono i ragazzi di Organizata Politike, gruppo di sinistra radicale nato dal movimento studentesco del 2018 contro la riforma dell’università. Redi, Arlind, Kostas, Ioana, Enriko e tanti altri sono arrivati in aiuto di Elton. Irdi è uno di loro: «Per noi il lavoro è il tema sul quale dare battaglia in Albania. La lotta dei minatori qui, le operaie del tessile, gli operai delle raffinerie, i call center... Abbiamo trent’anni, abbiamo studiato, non possiamo essere per sempre ostaggio di tre partiti al servizio degli oligarchi che hanno comprato per quattro soldi le ricchezze del paese dopo il regime, che fanno profitti, non pagano tasse. D’altronde Edi Rama, alla televisione italiana, si vantava che da noi non ci sono i sindacati, invitando gli imprenditori italiani a investire qui. Adesso basta. Raggiungiamo tutti i lavoratori che lottano e ci mettiamo a disposizione, non abbiamo nulla da insegnare loro, ma possiamo essergli utili: comunicazione, social network, documentazione. Viviamo qui, con loro, li sosteniamo. Elton è il nostro candidato, vogliamo creare connessioni tra i lavoratori di tutto il paese. Se non vinceremo il 25 aprile, eleggendo Elton, avremo comunque aperto un sentiero per il cambiamento. Dopo trent’anni siamo sempre davanti allo stesso bivio: migrare o essere trattati come schiavi. Basta».

La piattaforma politica di Elton è molto semplice: uno Statuto speciale per i lavoratori delle miniere e tutele di base per i lavoratori in generale. Al centro giovanile arrivano in tanti ad ascoltarlo. Un ragazzo molto giovane gli chiede se non si sente a disagio quando gli altri candidati dicono che non ha studiato e non può andare in Parlamento. Elton, impassibile, risponde: «Proprio perché grazie a loro quelli come me non hanno studiato e hanno avuto solo la miniera come possibilità è meglio eleggere me».

Un uomo - che non riceve la paga da tre mesi - gli chiede cosa farà, una volta eletto. «Lo statuto deve prevedere il riconoscimento delle malattie professionali, con pensioni adeguate. I reumatismi, i problemi agli occhi, il collasso dei polmoni... Le conoscete tutte le malattie dei minatori. Nelle vostre famiglie le vedete ogni giorno. Non smetteremo di lottare fino a quando non ci sarà un’adeguata formazione professionale, un salario decente e garantito, perché certe aziende spariscono dal giorno alla notte, cambiano nome, e ho colleghi che non sanno neanche per chi lavorano. Ogni mattina ci alziamo, guardiamo i nostri figli, e non sappiamo se li rivedremo mai più. Ogni mattina prendiamo il caffè con ragazzi con i quali siamo cresciuti, entriamo in miniera, e non sappiamo se li rivedremo mai più. Basta».

Accanto ad Elton, in ascolto con attenzione, c’è Lajm, il padre. Quando il figlio parla delle vittime, si commuove. Versa grappa per non pensarci, prende in giro il figlio, credente e osservante, che non beve alcool. «Ai miei tempi era dura, come adesso. Ma era diverso il nostro mondo. I minatori erano trattati come eroi della società. Quando è caduto il regime ero contento: immaginavo per i miei figli un futuro diverso, la libertà. Ma che libertà è questa, dopo trent’anni? Io con una pensione da fame, alla mia età, devo ancora andare in miniera per arrotondare. E mio figlio, come gli altri, deve andare in cunicoli sempre più profondi, sempre più pericolosi. Al tempo del regime era doloroso, per me, lavorare con i prigionieri politici. Non mi manca quel tempo, non manca a nessuno. Ma non avrei mai immaginato che oggi i lavoratori avrebbero avuto meno diritti dell’epoca della dittatura. Qualcosa è andato storto», sorride amaro Lajm, bevendo un altro bicchiere.

«Quando Elton mi ha detto che voleva fondare il sindacato ero preoccupato. Gli ho detto va bene, figlio mio, ma se diventi come i sindacalisti ufficiali, che sono al soldo dei partiti, ne risponderai a me. Ha fatto bene però: questi ragazzi, a Bulqize, rischiano la vita per quattro soldi che si bevono nel bar del paese. Non hanno altro da fare, non hanno futuro. Gli hanno tolto anche i sogni».