Opinione
Tra Israele e Palestina l’idea dei due popoli e due stati non regge più
Chi conosce i territori sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. Per questo serve immaginare un laboratorio politico nuovo
«Quelli sono occupanti! E gli altri sono occupati». Più esplicitamente: «Quel paese è frutto di occupazione!». Oppure con il nuovo motto: «Basta con l’esproprio etnico!». Sono solo alcuni esempi di slogan che circolano ovunque, dal web alle piazze, e che rilanciano una vecchia, vecchissima accusa (quasi immemoriale): Israele non dovrebbe essere lì dov’è. Non ci sarebbe quasi altro da aggiungere.
Il “peccato originale” che avrebbe segnato la nascita di Israele sarebbe quello di aver scalzato un popolo che c’era prima, indigeno, nativo, insomma autoctono. Alla fin fine non si tratta neppure tanto di limiti e confini, di linea verde e territori contestati. Dietro calcolo e contabilità, a cui spesso si fermano statisti e politologi, si nascondono questioni ben più profonde che di solito vengono aggirate. Forse perché non riguardano solo Israele e Palestina, ma investono tutti noi, le nostre frontiere, gli stati nazionali in cui siamo inseriti, il nostro abitare e il rapporto con gli altri. Perciò occorre forse una prospettiva nuova, un modo diverso a cui guardare quel terribile conflitto che non per caso ci turba e ci coinvolge tutti con un’ondata di emozioni talvolta irrefrenabili, al punto da rendere impossibile una riflessione. E se nella tragedia si nascondesse invece una chance? Se Israele e Palestina fossero il laboratorio politico della globalizzazione?
Forse bisognerebbe chiedersi anzitutto che cosa significa “occupare”. Questo verbo, che è il punto dirimente, non sembra solo legato alla frontiera e al fronteggiarsi. Rinvia anche al possesso originario, alla mitologia dell’origine, a cui non si sottraggono neppure i palestinesi quando rivendicano di essere i primi abitanti. La battaglia delle cartine è arrivata anche su facebook. Colori e bandiere diversi si avvicendano per quello stretto lembo di terra che va dal Giordano al Mediterraneo. E di nuovo: lo scontro non è tanto sulla geografia, quanto sulla storia.
Chi c’era prima? I palestinesi che sono stati poi scalzati. Sono loro gli abitanti originari, gli autoctoni. Quelli che sono arrivati dopo - gli ebrei, gli israeliani - sono occupanti, colonialisti, ecc. Ma i nomi contengono anche una testimonianza storica. L’etimologia di «palestinese» va ricondotta a liflosh, ovvero filisteo, cioè invasore, e si riferisce a un popolo venuto dal mare. Dopo aver raso al suolo Gerusalemme i romani chiamarono Palestina la terra di Israele per sottolineare la rottura rappresentata dall’Impero e cancellare anche nel nome il ricordo del popolo ebraico. I palestinesi di oggi, discendenti in gran parte dall’immigrazione araba intorno al 1930, sono andati costruendo una identità nazionale nel confronto-scontro con Israele rivendicando radicamento e possesso originario.
Sono allora gli ebrei i veri autoctoni? No, e lo dice il nome. Perché ivrì, cioè venuto da altrove, non può essere del luogo. Abramo, il primo emigrante, segue l’ingiunzione: «va, vattene!». E così lascia tutto per andare a vivere da straniero in una terra non sua, promessa. Insomma, quelli che credono di essere venuti prima sono invece sempre venuti dopo. Chi sono allora gli abitanti originari, gli autoctoni, di questa terra, e di ogni terra? Ma forse sbagliata è proprio la domanda: nessun popolo può dimostrare di essere autoctono.
Eppure, questo mito potentissimo alimenta ancora oggi la politica degli stati nazionali. Basti pensare alla guerra contro i migranti. È l’idea della terra-madre che, mettendo fuori gioco le donne, genera direttamente i suoi figli, tutti maschi e tutti cittadini, perché nati proprio lì, in quella zolla di terra, nel suolo stesso della città. Perciò sono i proprietari esclusivi, i figli legittimi, ben nati, in grado di respingere gli altri, i bastardi e gli stranieri. Questo avviene nell’Atene patria del sé, modello fulgido di pura, presunta autoctonia. Ma l’esempio - lo sappiamo - può vantare una tradizione secolare che nulla ha interrotto, nemmeno l’hitlerismo, la forma più esasperata dello ius soli. E oggi quel mito continua ad affermarsi tra radici inestirpabili e malattia identitaria, che ovunque rischiano di ridurre la democrazia a etnocrazia, una forma politica dove valgono non i diritti del popolo, ma quelli della stessa etnia. Si può puntare l’indice solo su Israele, parlando di stato etnico e magari usando una parola grave come «apartheid»? Oppure non si dovrebbe guardare anzitutto a quel che avviene nei paesi europei, anzitutto in Italia, dove la cittadinanza è basata ancora sul sangue e sul suolo?
Chi conosce i territori israeliani e palestinesi sa bene che sono strettamente intrecciati e che sotto ogni aspetto una divisione netta, oltre a essere irrealistica, sarebbe artificiosa e alla fin fine nociva. Quasi una resa. E infatti sono sempre più le voci critiche che negli ultimi anni si sono levate contro la “soluzione dei due stati”, giudicata una fantasia che dimentica la storia e ignora il contesto politico.
D’altronde ovunque, sotto la spinta della globalizzazione, lo stato perde sovranità e i confini diventano un limite. In tale scenario quello tra Israele e Palestina è il conflitto tra uno stato post-nazionale e uno stato proto-nazionale. Sta qui in gran parte l’insolubilità. Le due parti non si incontrano anche perché si trovano in fasi diverse della propria storia. Israele ha compiuto la “liberazione nazionale” e in molti ambiti (dallo high tech all’informatica) oltrepassa continuamente i referenti statuali. Resta allora la questione dello Stato palestinese. Al di là delle divisioni interne, si può essere sicuri che la fondazione di un nuovo stato sarebbe criterio di equità e favorirebbe la pace? La logica degli stati nazionali, che ancora nel secolo scorso poteva essere considerata la via dell’emancipazione, da tempo mostra tutte le proprie pecche, dall’aggressività nazionalistica alla costruzione di identità artificiali. Le “patrie” che gli stati nazionali hanno costruito per i propri popoli si sono rivelate trappole senza uscita.
Puntare a una comune cittadinanza deterritorializzata e denazionalizzata sarebbe invece la strada insieme più concreta, ma anche più lungimirante. Si tratta peraltro di un esperimento che viene praticato anche in altre parti del mondo, dove gli stati gomito a gomito impediscono la convivenza, oppure in alcune grandi città nelle quali è molto alto il numero degli immigrati (esemplare è il caso di New Haven che ha concesso stato civile e diritti politici). Tutto questo non potrebbe in nessun modo lasciare immutato lo stato di Israele che, anzi, proprio perciò, dovrebbe andare al di là dello stato.
Non avrebbe dovuto essere questo il suo compito? Mentre è accusato di occupare una terra non sua, mostrare la possibilità di un altro abitare? Era questo il senso della promessa, una promessa certo non dettata dalla Shoah, dei cui esiti atroci Israele ha dovuto semmai farsi carico. Eppure, ancora oggi Israele è inquisito nel suo essere: si contesta quel ritorno, negando la continuità della presenza su quella terra, e dunque la storia stessa del popolo ebraico. Capita che lo facciano subdolamente esimi storici che su youtube ironizzano sull’antico regno di Israele. Come se questo fosse il punto.
Ma che dire degli sfratti a Sheikh Jarrah? Soprattutto per ciò di cui sono simbolo? E tutta la miope e belligerante politica di espansione della destra che in questi ultimi anni ha provocato enormi e inutili tensioni? Si può ormai parlare di una tragicità del sionismo politico che sulla scia della normalizzazione ha inscritto Israele nella modernità al prezzo di un nazionalismo esasperato e una simbiosi con la terra. Proprio il popolo che dovrebbe mostrare la possibilità di un altro abitare, non nel solco del radicamento, bensì nella separazione. Questo vuol dire kadosh, santo, separato. Terra in cui si risiede come stranieri, venuti da fuori, come ospiti che non possono non concedere ospitalità. Non una terra-madre, bensì una terra-sposa. Impossibile dimenticare l’estraneità, sacralizzando idolatricamente la terra. D’altronde in ebraico gher, straniero, è connesso con ghur, abitare. Si può e si deve abitare da stranieri. Nessun mito di autoctonia.
Abitare e coabitare sono verbi oggi politicamente decisivi e vanno al di là di vecchie categorie politiche che non rispondono più allo scenario attuale e all’ordine statocentrico. Si capisce che il conflitto tra Israele e Palestina abbia ripercussioni ovunque. Già solo perché viene tacitamente scossa la sovrana autocoscienza delle nazioni che vantano radici e possesso territoriali. Israele è una effrazione nel dimorare della Palestina e i palestinesi, i più prossimi, sono quasi delegati degli altri popoli, che d’un tratto si trovano faccia a faccia con il vuoto statuale e nazionale di cui Israele è memoria. In tal senso, guardando oltre il quadro bellico, è quello il laboratorio politico dove due popoli, loro malgrado, sono costretti a inaugurare nuove forme di coabitazione che saranno forse modello per gli altri.