Israele e Palestina

Quanto vale un bambino di Gaza

di Alberto Stabile   21 maggio 2021

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Ora che è stata raggiunta una tregua è il momento dei bilanci: dagli ultimi attacchi escono rafforzati Netanyahu, che stava per essere spodestato, e gli integralisti di Hamas. A pagare sono le “perdite non volute”, secondo il linguaggio dell’esercito di Tel Aviv. Cioè le vittime innocenti delle bombe

Intenzionati ad ottenere il massimo profitto politico anche da questa guerra scatenata in tempo di Ramadan, di cui è stato rispettato l’obbligo del digiuno ma non lo spirito pacificatore, il premier conservatore Benjamin Netanyahu e gli integralisti del movimento di resistenza islamica, Hamas, già si presentano, rispettivamente, come i vincitori di quest’ennesimo, tragico round di ostilità, alla luce di una tregua che, non diversamente dalle precedenti, sarà soltanto una parentesi più o meno lunga nell’inesorabile pendolo di attacchi e rappresaglie al di qua e al di là del confine tra Gaza e Israele.


La contabilità del massacro dopo undici giorni di scontri parla di 232 morti, tra cui oltre 60 bambini, o minori, e 30 donne, tre delle quali incinte, di oltre 1500 feriti, di 450 edifici crollati e di 47.000 persone costrette a cercare rifugio nelle scuole dell’Unrwa (in una striscia dove è esplosa la pandemia e le vaccinazioni sono all’1,9 per cento), a fronte di 12 persone uccise in Israele, fra cui due lavoratori stranieri, e un centinaio di feriti.


La conclusione delle ostilità si è registrata per sottintesa e forse pianificata intenzione dei contendenti di non proseguire oltre un certo punto, non certo per effetto di uno dei tanti tentativi di mediazione di cui si va parlando in questi giorni, a cominciare dal debole e per nulla convincente intervento del presidente americano.

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Non è necessario fare l’esegesi della telefonata di Joe Biden al premier israeliano, Netanyahu, passato nel giro di pochi giorni da ex premier imputato di malversazione, bocciato dalle urne e in procinto di essere accantonato, a condottiero inamovibile che trova nello scontro anche militare con i nemici più irriducibili il pretesto per restare aggrappato alla poltrona di primo ministro che occupa da 12 anni. Davanti alle immagini di rara crudeltà giunte in queste ore da Gaza, Biden, dopo aver riconosciuto per l’ennesima volta il diritto d’Israele a difendersi dai razzi di Hamas, ha semplicemente espresso il suo “sostegno” al cessate il fuoco, guardandosi bene dal chiedere l’immediata cessazione dei bombardamenti.


Questa incoerenza tra le premesse (e promesse) della campagna elettorale, di battersi per la tutela dei diritti umani correggendo le distorsioni di Trump nella gestione del conflitto mediorientale, e il suo atteggiamento estremamente cauto nei confronti d’Israele gli è stata subito addebitata come una rischiosa “vulnerabilità”. «Palestinian lives matter», l’ha catechizzato Bernie Sanders, il più a sinistra dei democratici, parafrasando lo slogan coniato dai manifestanti scesi nelle piazze americane in segno di solidarietà con George Floyd. «I diritti dei palestinesi di difendono non si negoziano», ha rincarato Rashida Tlaib, la congresswoman di origine palestinese che ha pianto dalla Tribuna della Camera dei rappresentati per la sorte dei bambini di Gaza.


Proprio le immagini dei bambini di Gaza massacrati dalle bombe teleguidate di fabbricazione americana hanno scosso larghi settori del Partito Democratico, tradizionalmente molto legato ad Israele. Vittime delle bombe? No, “unintended casualties” , perdite non volute, dicono i portavoce dell’esercito israeliano, l’Idf. La dinamica sarebbe questa: i bombardamenti sono diretti a colpire obbiettivi militari, la rete di tunnel che Hamas avrebbe costruito sotto la città e, come conseguenza del cedimento delle gallerie sotterranee, crollano anche le case sovrastanti. E così intere famiglie vengono cancellate come è successo quando sul quartiere residenziale di Rimal, nella via al Wehda, a Gaza city s’è abbattuto un uragano di bombe durato 40 minuti. La casa del primario del reparto di Medicina dello Shifa Hospital, Ayman Abu Aluf, il più grande ospedale della Striscia, viene distrutta: muoiono 13 persone tra cui Mira di 12 anni, Yazem di 13, Mir di 9. Anche l’edificio accanto viene colpito. E distrutto. È la casa di Abir Ashkantona. Perdono la vita 19 persone fra le quali: Yahya di 5 anni, Dana di 9, Zin di 2, Rula di 6 e Lana di 10. Stessa sorte per la famiglia al Qulaq, sempre a Rimal, dove muoiono in 6, tra i quali Qusay di 6 mesi.


Come mai l’apparentemente collaudato meccanismo dell’avvertimento lanciato dall’Idf o dallo Shin Bet (l’intelligence), al telefono delle vittime designate («lasciate le case perché vi stiamo per colpire») non ha funzionato? Semplice, perché neanche una delle più efficienti macchine da guerra al mondo può evitare errori e contrattempi. Il punto è che si spara su una delle zone più densamente popolate al mondo e colpire i civili è una conseguenza inevitabile.

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Se poi, la maggioranza della popolazione ha meno di 20 anni, come a Gaza, ecco che a ritrovarsi nel mirino sono proprio i minori, fra i quali, quelli nati dopo il 2005 non sanno cosa sia la pace, viste le operazioni che si succedono dal 2005 e l’embargo decretato contro la Striscia nel 2007. Non a caso il Consiglio norvegese per i rifugiati, un organizzazione umanitaria statale, ha denunciato che 11 dei 63 bambini uccisi dai bombardamenti israeliani partecipavano al programma di sostegno psico-sociale per combattere i traumi.


Ovviamente, si piangono anche le vittime israeliane dei razzi lanciati da Hamas. Ma nei commenti dell’una e dell’altra parte dominano sentimenti bellicosi. «I combattimenti non cesseranno finché non otterremo una calma completa e protratta nel tempo», ha detto, riecheggiando le parole del premier, Benny Gantz, l’ex capo di Stato Maggiore che, sceso in politica per abbattere Netanyahu, s’è ritrovato ministro della Difesa dell’ennesimo governo guidato dal rivale.


È un mantra stucchevole che si ripete ad ogni scontro con Hamas e, ovviamente, non spiega le vere ragioni del conflitto. Mentre in Israele c’è già chi pensa che anche stavolta Hamas, seppure indebolita militarmente uscirà, o è già uscita, da questo scontro politicamente rafforzata, come la forza capace di difendere i diritti dei palestinesi, non come la debole e corrotta Autorità Palestinese di Ramallah guidata dall’immarcescibile Abu Mazen.


Anche a Netanyahu possono venire vantaggi da questa situazione assieme a nuovi rischi. Fra i danni collaterali della nuova guerra di Gaza c’è la coalizione tra i centristi di Lapid, la sinistra Labour e Meretz, la destra di Naftali Bennet e Raam, il partito arabo islamista di Mansour Abbas disposto a governare con chiunque, che avrebbe, questa sì, mandato a casa il premier conservatore, se non si fosse riacceso lo scontro con Hamas e la tensione non si fosse propagata nelle città a popolazione mista, tra arabi-israeliani e ebrei, con le sinagoghe incendiate e le cacce all’uomo da una parte e dall’altra e, insomma, lo spettro di una guerra civile.


Ha scritto il commentatore di Haaretz Aluf Benn: «Ci vorrebbe una grande dose di faciloneria per credere che tutto quello che è successo in questa settimana sia il risultato di una coincidenza cosmica, che quando mancano pochi minuti al giuramento del nuovo governo esplodono tensioni nazionaliste e religiose». E invece, di grazia?