È la candidata dell’opposizione che ha sfidato il presidente Aleksandr Lukashenko. Costretta a lasciare il suo Paese, è accusata in patria di terrorismo. A L’Espresso, che l’ha incontrata, racconta come lotta contro la dittatura autoritaria, il ruolo delle donne in politica e la paura per i suoi figli – (foto di Andrea Miconi)

Ti sei registrata come candidata per le elezioni presidenziali in Bielorussia, lo scorso 15 maggio 2020. È stato un anno molto stressante. Come sei riuscita a resistere?

Per me, il conto non comincia dal 15 maggio, ma dal 29 aprile, quando Sergey è stato imprigionato (Sergey Tikhanovsky, il marito di Svetlana, è stato arrestato il 29 aprile 2020, ndr). Non ricordo nemmeno quando ho presentato i documenti: tutto era nella nebbia. Difficile rispondere. Mi addormento velocemente perché le giornate sono molto dure e mi sento emotivamente svuotata. Mi addormento, ma non appena mi sveglio ritorno subito col pensiero ai prigionieri politici. E così ogni minuto sono con loro - bevo caffè, e penso a quello che sta facendo Sergey ora; vado da qualche parte e di nuovo penso quello che lui sta facendo. E quando dico Sergey, intendo tutti i prigionieri politici. Ho questi pensieri in testa tutto il tempo; mi stanco con questo, ma non posso fare diversamente. C’è come un filo rosso che lega tutti i miei giorni.

I pensieri su Sergey e tutti i prigionieri politici in condizioni difficili e allarmanti danno coraggio?

Sergey è la persona più vicina a me e penso ai suoi dolori, ma tutti i prigionieri politici sono molto importanti per me. Pensare a tutti loro, agli eroi che si sono sacrificati mi aiuta a continuare la lotta.

È emozionante incontrare i primi funzionari della politica mondiale?

Ora non mi intimidisce più incontrare politici mondiali. Ma quel che fa veramente paura sono i crudeli attacchi della propaganda Belorussa. Questo può essere demoralizzante. E le riunioni al livello politico altissimo non mi preoccupano più, perché so cosa deve essere trasmesso - il dolore che stiamo vivendo, e che ho affrontato con tutti i miei concittadini, e quindi so esattamente di cosa parlo.

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Quali sono i prossimi passi? Qual è il tuo piano, quali sono la tue strategie?

La nostra strategia è avviare i negoziati con il regime, sapendo che questo è il modo più civile. Le persone in Bielorussia sono pronte per manifestare ancora. Ma capisco che così potrebbero esserci ancora tante vittime. Queste sono decisioni difficili. Voglio proteggere le persone e voglio far uscire velocemente quelle che sono già in prigione. Per organizzare questi negoziati, stiamo cercando di raggiungere dei mediatori, questo è un modo molto lento, ma civile.

Dato che è molto sconveniente per lui, cosa può costringere Lukashenko a negoziare?

Quando dico i negoziati con il regime, non intendo necessariamente solo Lukashenko. Capiamo che lui non si siederà al tavolo dei negoziati. Io intendo altri rappresentanti del regime. I negoziati sono il punto finale del dialogo. Prima c'è un dialogo a livello di esperti; a livello di rappresentanti della società civile; poi a livello politico, un dialogo su come superare la crisi. I negoziati sono il risultato di tutti questi dialoghi. Alla fine vogliamo raggiungere l’obiettivo di liberare i prigionieri politici; organizzare nuove elezioni e organizzare il governo di transito per questo periodo. Questo è un processo lungo e, ovviamente, vorrei che fosse tutto più veloce, anche perché il mio sistema nervoso può anche non reggere cosi a lungo (ride).

Pensa che il sistema politico di Lukashenko sia unito e monolitico? O c'è forse una scissione interna?

Non c'è un monolite lì, anche se vogliono davvero creare un'immagine del genere attraverso la loro propaganda. Abbiamo contatti nelle strutture di potere - io, ovviamente, non posso parlarne in modo più dettagliato, ma posso dire che lì regna un'atmosfera terribile: le persone non si fidano l'una dell'altra. Ci sono funzionari della sicurezza che sono "duri", ma – come si dice in russo: non puoi pettinare tutti con lo stesso pettine. Per dire che non sono tutti uguali, neppure dentro il regime di Lukashenko. Come si dice da noi, le strutture di potere, nel nostro Paese, sono come una mafia: è facile entrare ma è impossibile uscire. È spiacevole per molti lavorare lì. Ci sono molte brave persone che non possono semplicemente andarsene, perché sarebbero perseguitati.

C'è la possibilità di avviare un dialogo con loro?

Ci stiamo lavorando. In autunno, abbiamo invitato i dipendenti delle forze dell’ordine a collaborare, esortandoli a unirsi a noi. Ora, al contrario, non c'è bisogno di andarsene via da questo sistema adesso - beh, se ti licenzi sarai solo perseguitato. Diciamo che c'è più bisogno di loro dentro il sistema. Dall’interno infatti hanno accesso agli stati d'animo intestini e a informazioni preziose. E lo stesso vale per la nomenclatura. Per questo diciamo a tutti loro di rimanere e aiutare da dentro.

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Pensi che ci sarà una divisione nelle élite?

La scissione esiste già, ma non può essere sottolineata, altrimenti molti saranno soggetti a repressione. Non abbiamo bisogno di nuove vittime. Diciamo: lavorate dove potete per la Nuova Bielorussia.

Ho visto che all'inizio di giugno parlerai al Forum di Ginevra per  i diritti umani. Il programma include anche Daria Navalnaya, figlia di Alexei Navalny (leader dell'opposizione russa, ndr). Ci sono molti parallelismi tra le vostre famiglie: sia il fatto che siete leader dell’opposizione nei vostri paesi, sia il fatto che entrambi i mariti sono in prigione. Hai parlato con la famiglia Navalny?

No, non abbiamo mai comunicato, ma effettivamente vorrei parlare con Yulia Navalnaya  (moglie di Alexei Navalny, ndr), sarebbe molto utile. Penso che due donne si capiranno sempre, troveranno sempre un linguaggio comune.

Quando Sergey è finito in prigione, hai assunto il suo ruolo politico: un'enorme responsabilità. Di solito le persone sono impegnate in politica per libera scelta, tu invece sei stata costretta a farlo. Come lo hai affrontato?

(Sospira profondamente) Sai, non credo di aver assunto il ruolo di un politico, perché ancora non mi sento un politico, anche se sono nell'ambiente politico da un anno ormai. Forse mi sbagliavo, ma a causa della mia esperienza in Bielorussia, per me, se sei un politico, allora sei autoritario e pensi al tuo vantaggio, e non alle persone. Ora, quando incontro i politici europei, capisco che nei paesi democratici questo è un po' diverso. Essere un politico è un lavoro. Ma io non penso alla mia carriera politica. Io penso alle persone in Bielorussia. Per me, essere in politica è un modo per aiutare i bielorussi. Mi sembra che essere un politico non faccia per me. Ma forse in un paese democratico, avrei pensato diversamente. Diciamo che per ora sono IN politica, ma non sono UNA politica. Tutto viene dal cuore, non ho strategie ponderate a lungo in anticipo.

Lo scorso autunno non avevi ancora parlato con tuo figlio e tua figlia della situazione di papà. Ora hai parlato con tuo figlio. Cosa gli hai detto?

Mio figlio ha solo 10 anni. Ho scoperto però che sapeva già tutto, anche che papà era in prigione. Lo sapeva perché seguiva il canale YouTube di Sergey. Allora ci siamo seduti e abbiamo parlato. E ho chiesto: “Cosa sai di papà?”. Sapeva che papà era in prigione perché aveva combattuto contro Lukashenko. Io ho aggiunto: “Dovresti sapere che papà è un eroe.”. E lui stesso lo ha raccontato alla sorella minore. A lei avevo sempre raccontato la favola che papà era in un altro paese, per cui alla favola successiva lei mi ha risposto: "Ma papà è in prigione", e spensierata ha continuato i suoi giochi. Per ora, non sa cosa sia una prigione, e non voglio ferirla. E le faccio dei regali per conto di Sergey.

È stato difficile per te dire la verità a tuo figlio?

No. Non ho bisogno di giustificare Sergey. Perché papà è un eroe per lui. Mio figlio capisce che papà è un eroe che è stato imprigionato dal malvagio Lukashenko.

Non sei a casa da quasi un anno. Perché non puoi tornare? Cosa succede se torni?

Da quando abbiamo sollevato la questione dei negoziati, il regime mi ha dichiarato terrorista. In Bielorussia, per i terroristi c’è la pena di morte. Per ora, le donne non sono soggette alla pena di morte, solo gli uomini lo sono. Per le donne c’è l'ergastolo. Pertanto, il ritorno in Bielorussia... (non finisce la frase).

Ti capita di piangere a volte?

Raramente. Scoppio in lacrime e poi vado avanti. Questo mi dà sollievo. Penso di essere stata più piagnucolosa prima, di quanto non lo sia ora. Questa situazione mi ha temprato.

I politici europei hanno fatto abbastanza subito dopo le elezioni, per la Bielorussia? Sono stati abbastanza attivi e tempestivi?

In verità, all’inizio, pensavo che i processi politici fossero più veloci. Vedi che siamo nei guai, prendi e fai qualcosa, – che cosa c’è di difficile qui? - pensavo. Ma ora capisco che anche qui è tutto complicato. Anche qui c’è la burocrazia. Per ogni passo ci vogliono un milione di approvazioni. Ci sembrava che tutto fosse veloce, ma poi si è scoperto che tutto era lungo. Moralmente tutti ci sostenevano, e ci hanno mostrato solidarietà. Ma la differenza sta nelle azioni concrete. Mi ha deluso il fatto che il risultato di tutti i provvedimenti europei siano solo 80 persone sulla lista delle sanzioni, quando però ci sono 35.000 persone in prigione: prigionieri politici del regime Lukashenko. Sono offesa da questo squilibrio. Lituania e Polonia hanno reagito molto rapidamente, hanno iniziato ad aiutare e hanno accolto le vittime.

Queste sanzioni erano efficaci?

Le sanzioni sono sempre efficaci. Le sanzioni sono necessarie non per punire, ma per prevenire l'escalation. Tuttavia, ora, anche senza manifestazioni, circa 1000 persone al mese vengono arrestate preventivamente.

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