Corruzione, traffico di droga, omicidi e armi ai jihadisti: Sedat Peker, dall’esilio forzato di Dubai, dichiara guerra al ministro dell’Interno Soylu. A colpi di video-scoop postati su YouTube. E il presidente tace

Con una piccola telecamera e un treppiede, un mafioso turco, che fino a poco tempo fa organizzava manifestazioni a sostegno del presidente Recep Tayyip Erdogan e che ha goduto del favore dei circoli filo-governativi, sta scuotendo la Turchia dall’inizio di maggio.


È Sedat Peker, ultranazionalista e boss della criminalità organizzata, rifugiatosi dal 2019 a Dubai, che come in un reality show, davanti a milioni di telespettatori, fa la guerra ad alti funzionari turchi e ministri pubblicando una serie di video-scoop dal suo account YouTube, accusando di corruzione, di omicidio, di stupro, racket e di traffico di stupefacenti alcune delle figure politiche più potenti del paese, compresi parlamentari, alti funzionari della sicurezza e in particolare il ministro degli Interni turco, Süleyman Soylu.


Con i libri dello scrittore americano Mario Puzo, “La Famiglia” e “Il Padrino”, poggiati in bella vista sulla scrivania, Peker ha rivelato, nei suoi video, che gli sono stati commissionati da funzionari ed ex ministri dell’Akp l’uccisione di un giornalista turco-cipriota, il pestaggio di un parlamentare che aveva insultato la famiglia di Erdogan e le spedizioni illegali di armi ai jihadisti siriani. In uno dei suoi ultimi video ha rovesciato una valanga di accuse contro il ministro Soylu accusandolo di collusione con il losco uomo d’affari Sezgin Baran Korkmaz, attualmente ricercato dalle autorità turche per riciclaggio di denaro sporco.


Soylu lo avrebbe aiutato a fuggire dalla Turchia per evitargli l’arresto.

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Peker ha anche raccontato di aver spedito in Siria, nel novembre 2015, giubbotti, binocoli e altri dispositivi militari per l’equipaggiamento dei combattenti turkmeni siriani, ma ha aggiunto che il Sadat, una forza paramilitare fondata dal generale di brigata in pensione Adnan Tanrıverdi, allora consigliere di Erdogan, gli aveva chiesto di aggiungere al carico della spedizione camion pieni di armi ufficialmente destinate ai ribelli turkemi alleati di Ankara, ma che invece erano andate a Jabhat al-Nusra, la propaggine siriana di al-Qaeda in Siria.


E così il Sadat, considerata da alcuni media come «esercito parallelo» del presidente, già impiegato in Libia e Siria, torna di nuovo all’ordine del giorno.


Peker ha goduto per anni, ufficialmente, della protezione della polizia e, come altri esponenti della mafia turca, ha un background ultranazionalista e ha fatto parte del backstage dell’alta politica del suo paese. È presente in foto e video con celebrità anche politiche, compreso il presidente Erdogan. Ha ripetutamente minacciato di morte gli oppositori del governo, in particolare curdi ed esponenti di sinistra, inclusi i 1.300 accademici per la pace che nel 2016 lanciarono un appello per un ritorno al processo di pace nel sudest anatolico: «Faremo scorrere il vostro sangue e ci faremo una doccia col vostro sangue», disse in un suo comizio.


Peker dice che le sue rivelazioni sono un vero e proprio regolamento di conti, una risposta a tutto quello che ha subito dagli agenti di polizia che su mandato del ministro degli Interni Soylu avevano fatto irruzione nella sua casa e avevano puntato le pistole contro sua moglie e le sue figlie. Non è un caso che nei suoi video abbia preso di mira particolarmente l’ambizioso ministro che gli aveva promesso protezione, ma che non aveva mantenuto la sua parola; da qui, la decisione del boss di regolare i conti accusandolo di essere colluso con uomini di affari senza scrupoli e con esponenti della criminalità organizzata.


Il quadro che Peker dipinge nei suoi video va oltre la corruzione e potrebbe essere descritto come criminalizzazione dell’intero apparato statale. Le sue dettagliate accuse suggeriscono che la criminalità organizzata sarebbe stata utilizzata nelle lotte di potere all’interno dell’amministrazione dello Stato e del partito di governo, nonché per diffondere propaganda politica, gestire economie clandestine, manipolare i media, intimidire l’opposizione e la società civile.


Le rivelazioni di Peker accendono i riflettori anche sulla nuova rotta della cocaina che dalla Colombia attraversa la Turchia, traffico che, secondo il leader mafioso, vedrebbe coinvolte figure di alto profilo. Lungo una delle principali rotte del contrabbando di eroina, che dall’Afghanistan giunge in Europa, la Turchia negli ultimi anni ha visto un aumento anche del traffico di droga; ciò ha indotto alcuni osservatori a ipotizzare che il paese sia diventato per l’Europa un centro di distribuzione di stupefacenti che provengono dall’America Latina e dall’Oriente.

Peker ha affermato in un suo video che il porto di Izmir, terza città più grande del paese, era la destinazione di 4,9 tonnellate di cocaina sequestrate in Colombia lo scorso anno e che l’ex ministro degli Interni Mehmet Agar era coinvolto in quel traffico e ha accusato il ministro dell’Interno in carica di aver insabbiato le indagini.


Il leader turco era rimasto a lungo muto dinanzi alle accuse contro Soylu e non sembrava volere o potere impedire che il fango continuasse ad abbattersi contro il suo partito, forse per timore di essere coinvolto direttamente nelle rivelazioni del boss. Ma qualche giorno prima del Vertice Nato di Bruxelles, il Presidente ha rotto il silenzio dicendo che dietro le “calunnie” che hanno colpito il suo partito vi è la longa manus di organizzazioni criminali, quali il gruppo curdo armato PKK, la rete dei seguaci del predicatore islamico Fethullah Gülen, FETÖ, ritenuto responsabile del fallito golpe del 2016, e residui di organizzazioni armene. Subito dopo il ministro degli Interni Suleyman Soylu ha presentato una richiesta di estradizione alle autorità degli Emirati Arabi Uniti. È noto che tra Ankara e Dubai non intercorrono buoni rapporti, sono rivali regionali e inoltre non esiste un trattato di estradizione tra i due paesi.


Peker, ha dunque sospeso le pubblicazioni dei suoi esplosivi video e ha affermato che la polizia degli Emirati lo avevano fermato per interrogarlo, ma che contro di lui non vi è al momento alcuna decisione di arresto. Da tempo, all’interno dell’Akp e del cerchio magico che ruota attorno a Erdogan, è in corso una faida, una guerra senza quartiere. Un feroce scontro per il potere tra le correnti tayyipciler (erdoganiani) dei Pelikancilar (la corrente Pelikan dell’ex ministro delle Finanze Albayrak, genero del presidente, che prende il nome dal film con Julia Roberts, “Il Rapporto Pelican”) e quella dei Soylucular (che fa capo al ministro Soylu) forte dei güvenlikçiler, i securitari, funzionari della polizia che spingono per una ferrea politica securitaria.


Le rivelazioni di Peker segnalano anche una spaccatura esistente all’interno del campo nazionalista turco: tra filoccidentali da una parte ed eurasisti anti Nato (filorussi e filocinesi), dall’altra. E mettono in luce anche una prassi statale inquietante che si basa sull’impiego di mezzi illegittimi per combattere i cosiddetti «nemici dello Stato».


Infatti, in diversi momenti della storia della Turchia moderna, i tentacoli dello Stato hanno preso di mira comunisti, socialisti, minoranze, islamisti, oppositori liberal e politici curdi, a seconda di chi in quel momento veniva percepito come una minaccia dal potente di turno. Gli ex presidenti turchi Süleyman Demirel e Kenan Evren (il generale del golpe del 12 settembre 1980) hanno entrambi ammesso pubblicamente l’esistenza dello «Stato profondo». Per questo è illuminante la nota frase di Demirel: «Quando è necessario, lo Stato esce dalla routine della legalità».


Negli anni ’90 ciò significava uccisioni extragiudiziali di politici curdi, omicidi di giornalisti di alto profilo e l’intervento mafioso nelle gare d’appalto statali. E, per rendere accettabile tutto questo, si invocava la necessità della «difesa della nazione» per la sua «sopravvivenza», definita col termine nazionalista-islamico di Beka. Lo Stato profondo è quella rete oscura di funzionari della sicurezza e criminalità organizzata che opera al di fuori dei canali legali e che si erge a difensore dell’interesse supremo della nazione, ma che in realtà protegge gli interessi del regime di turno sostenendo politiche di sicurezza antidemocratiche. E insieme all’interventismo dei militari ha spesso contrastato i governi democraticamente eletti.

 

L’ironia della sorte è che il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) di Erdogan salì al potere quasi due decenni fa con la parola d’ordine di liberare lo Stato da questa mentalità autoritaria e di ripulirlo dalla presenza di «bande criminali». Il presidente turco era riuscito nella prima parte del suo mandato ad arginare l’influenza della criminalità organizzata e delle sue reti, forte dell’agenda europeista, del processo di adesione della Turchia all’Ue. Ma dopo il fallito colpo di stato del 2016, ha epurato tutta l’amministrazione dello Stato per estirpare dal suo corpo ogni possibile nemico e, per rimpiazzare i funzionari licenziati, ha fatto ricorso agli ex apparati dello Stato profondo, stringendo alleanze con gli ultranazionalisti, legittimando personaggi come Peker e richiamando in servizio ex funzionari della sicurezza. L’ancoraggio della Turchia all’Occidente è stato sempre uno dei fattori che ha mantenuto viva la speranza di un percorso democratico del paese e il suo Stato profondo sembrava essersi dissolto. Ora che l’ancoraggio sta venendo meno, quegli oscuri demoni sono di nuovo alla ribalta.