Sconfitto alle suppletive, il Labour soffre per una strategia incerta e un segretario debole. E l’ex premier sembra voler tornare in prima linea

Hartlepool è un centro di poco più di 90mila abitanti, capoluogo amministrativo della contea di Durham, regione orfana di miniere e ferrovie, laburista da 62 anni. Il 6 maggio scorso, alle elezioni politiche suppletive, la roccaforte rossa è passata ai conservatori per la prima volta dalla creazione del collegio. Nella stessa tornata elettorale, il Labour ha perso il controllo di 10 amministrazioni locali, meno 326 amministratori. I Tories ne hanno guadagnati 11, con un acquisto netto di 234 rappresentanti.


A freddo, il quadro non è cupo come apparso all’inizio, con il trionfo del Labour in Galles e quello di alcuni leader laburisti inglesi come il sindaco di Manchester Andy Burnham. Ma la sostanza politica è la disfatta, e la domanda sul futuro del partito, è ora anche più che identitaria: è esistenziale. Che senso ha votare Labour? Il partito ha perso, il messaggio è chiaro, le sue radici: le roccaforti tradizionali post industriali date troppo a lungo per scontate, passate ai conservatori sullo spartiacque del consenso per una Brexit dura e xenofobica. Una profonda autoanalisi il Labour aveva dovuto farla già dopo le politiche del 2019, la peggiore sconfitta dal 1983. Ne era uscito con l’ostracizzazione del segretario Jeremy Corbyn e della sua cerchia, e l’elezione a segretario di Keir Starmer, avvocato dei diritti umani, 30 anni nell’establishment ma origini proletarie e un’antica militanza trotzkista: una personalità scelta per unificare le molte correnti che dilaniano il partito.

 

Hartlepool


L’analisi forse più efficace di questa sconfitta la fa a L’Espresso Paul Mason, intellettuale e attivista laburista: «Le elezioni britanniche ormai si vincono sui valori identitari, non più su un interesse economico diretto né sulle appartenenze politiche tradizionali. Boris Johnson ha abbracciato un populismo cinico, sulla scia di Berlusconi: corruzione, razzismo e xenofobia sono diventati un valore nelle cittadine inglesi deindustrializzate». Quali sono le nuove roccaforti laburiste? «Grandi città, centri universitari, luoghi con ampie minoranze etniche e comunità Lgbt. Ma è un supporto fragile. La sfida del Labour è quella di tutti partiti di sinistra europei, compreso il Pd: costruire un’alleanza elettorale vincente che convinca allo stesso tempo i lavoratori della provincia e i salariati dei centri urbani».


Il grande catalizzatore del dibattito è di nuovo Tony Blair. I rapporti di forza li chiarisce ancora Mason: «Blair è detestato dagli iscritti e impopolare nel paese. Ha sdoganato il neoliberismo e ci ha trascinato in una guerra illegittima contro l’Iraq. Ma ha ancora potere a Westminster, dove molti parlamentari sono entrati con lui e continuano a sognare un suo ritorno». È un ritorno possibile, a 15 anni dal ritiro dalla politica attiva? Blair è rimasto sempre presente al livello più istituzionale del dibattito politico, la sua caduta temperata dall’aver portato il Labour alla vittoria per tre elezioni di seguito. Dopo la sconfitta del 6 maggio sembra aver cambiato marcia. Lo suggerisce, nel suo editoriale per il numero del 14 maggio, il direttore del New Stateman Jason Cowley: «Tony Blair vuole tornare a guidare il Labour Party. È evidente che non solo ritiene di poter contribuire al cambiamento indispensabile se il partito vuole evitare la completa irrilevanza, ma vuole anche tornare in prima linea».

 

E infatti la copertina lancia un lungo articolo di Blair dal titolo “Senza un cambiamento radicale il Labour morirà”. Non è un commento: è una visione politica alternativa a partire da una premessa apodittica: «Il partito laburista ha bisogno di essere decostruito e ricostruito. Niente altro può funzionare». Blair inserisce questa crisi nella crisi globale della politica progressista, detta alcune ricette per affrontarla e offre una analisi acuta della stasi del proprio partito: «Corbyn era radicale ma irragionevole. Starmer è ragionevole ma non radicale. Non ha un messaggio economico convincente. E siccome non lo chiarisce, il suo messaggio culturale è definito dalla sinistra “woke”, facilmente strumentalizzata dalla destra. Allo stesso modo, lo slogan “spendere di più” è debole, ora che il governo Tory fa politiche di spesa pubblica a livelli da record». È una fotografia acuminata e lucida: i conservatori hanno scippato al Labour non solo la primogenitura sulla spesa pubblica ma anche l’egemonia culturale. Ergo, Blair ripropone aggiornata la sua ricetta: una coalizione fra laburisti progressisti, Lib-Dem e non allineati. Altrimenti «ci troveremo nel pantano di dover combattere per una causa non chiara, con le mani legate, su un terreno che non abbiamo scelto per una battaglia che non possiamo vincere, contro un nemico che non merita il trionfo; e sperando che una nuova sconfitta ci porti la chiarezza di obiettivi che dovremmo perseguire adesso. Non funzionerà».

 

Keir Starmer


Il piano A di Starmer, ricorda Mason, è prendersi gli elettori di Verdi e Lib-Dem riuscendo contemporaneamente a recuperare abbastanza voti dai lavoratori socialmente conservatori (e pro Brexit): «Ma non possiamo condividerne il razzismo». Il piano B, spinto dal deputato della sinistra interna Clive Lewis e dall’ala europeista del partito, è stringere formalmente una alleanza elettorale con Verdi e Lib-Dem che avrebbe i voti per sconfiggere i Tories. E ripartire da Westminster.
Quanto all’ala più militante, è illuminante la parabola di Laura Parker, già coordinatrice nazionale di Momentum, il movimento di attivisti legati all’ascesa di Corbyn e capaci, dal 2015, di una straordinaria mobilitazione attorno alla sua proposta socialdemocratica.


Parker ha riconosciuto gli errori di Corbyn, senza per questo rinnegarne il programma elettorale. Oggi è impegnata nella campagna Labour for a New Democracy, una alleanza che mira alla riforma elettorale per passare al proporzionale dall’attuale uninominale secco, il “First Past the Post”. «È un sistema che provoca una enorme distorsione: le scelte politiche del Labour vengono dirette alla caccia del voto di un sessantenne working class pro Brexit delle Midlands, perché è in un seggio marginale ma decisivo per la vittoria, mentre ignoriamo le esigenze della madre single di colore dei sobborghi di Londra, perché Londra è laburista», chiarisce L’Espresso.

 

Jeremy Corbyn


Intanto Starmer manda segnali ambigui sulla futura linea politica. Si è insediato alla guida della segreteria ai primi di marzo 2020, proprio all’inizio del primo lockdown, e non ha mai colmato la distanza originaria con la base del partito. Ha fallito nel galvanizzare e riprendere quella base che ha superato Corbyn ma non il corbynismo. «Keir non è stato osteggiato dalla sinistra del partito, anzi. È stato accolto con un’ampia apertura di credito. Io stessa ne ho supportato la candidatura, convinta che fosse il leader giusto per unire il partito intorno ad una piattaforma politica radicale. Ma come molti altri militanti, mi preoccupa vedere il partito alla deriva», spiega Parker. Con decine di migliaia di iscritti, il Labour vive ancora di partecipazione diretta. Il Covid ha interrotto questo dialogo costante, non ugualmente efficace online, proprio mentre il paese precipitava in una crisi economica e sociale che ha reso quel dialogo più urgente. «Essere all’opposizione in un momento di emergenza è particolarmente difficile, ma proprio perché siamo in emergenza il Labour dovrebbe mostrarsi coraggioso, visionario e sfrontato nel suo progetto di costruzione di una società più egualitaria e inclusiva», continua Parker.


Starmer non appare all’altezza. Per esempio, a risultati elettorali ancora in arrivo, ha tentato di ridimensionare la sua vice Angela Rayner, amatissima dagli iscritti, origini nel nord proletario, ragazza madre diventata fenomenale forza politica. Costretto a una imbarazzante marcia indietro, l’ha coperta di incarichi: un caso esemplare di pessima gestione, e il segnale che è consigliato malissimo. Non solo: a conferma dell’attivismo di Blair, il 16 maggio è stata lanciata Progressive Britain, frutto della fusione delle due organizzazioni blairite Progress e Policy Network, detestate dalla sinistra. Il segretario ha scelto proprio questo evento per la sua prima apparizione dopo la sconfitta: da quel palco dichiaratamente blairita ha comunicato alla base che il programma elettorale del 2017, che si era impegnato a rispettare, è tutto da rivedere.


Ora il quadro è di agitatissima paralisi. Non c’è né il desiderio né il capitale politico per una nuova sfida interna per la leadership né emergono chiaramente leader alternativi. Ma Starmer deve fare presto, se vuole evitare uno sfilacciamento irrecuperabile. Altrimenti, c’è sempre l’ipotesi radicale di Anthony Burnett, intellettuale di sinistra e cofondatore di OpenDemocracy ormai divenuto il più aspro critico del Labour: «Il laburismo, cioè la continua, tormentata ricerca di auto-definizione a partire da una idea di sinistra ormai scomparsa, non ha senso, è finito. Basta (lo dice in italiano, ndr). Quello che serve ora è un partito non corrotto, antirazzista, anti-sessista, ecologista, egualitario, che governi, invece di fare marketing, nell’unica intersezione possibile, che non è la scelta fra libero mercato e statalismo, ma una via di mezzo che non demonizzi il capitalismo».