Razzismo

Bambini immigrati in scuole per “subnormali”: dopo sessant’anni finalmente Londra si vergogna

di Luciana Grosso   5 luglio 2021

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Arrivarono a migliaia nel dopoguerra dalla Giamaica e dai Caraibi. E furono inseriti in squallidi istituti per minori con disabilità mentali. Come rivela un documentario della Bbc

Questa storia è una storia inglese, ma comincia molto lontano dall’Inghilterra. Comincia nel 1944, nel mar dei Caraibi, quando un uragano tocca terra tra Grenada e Giamaica, distrugge tutto quello che incontra, fa più di 100 morti e toglie, a quelli rimasti vivi, tutto quel che era loro rimasto: niente più barche per pescare, niente più banani, niente più campi, niente più case. Niente di niente. Rimasti senza più nulla, in tanti, a migliaia, decisero di partire da quelle isole che all’epoca erano ancora colonie inglesi e si chiamavano Indie Occidentali, e fare rotta verso la Gran Bretagna, l’isola che, per quanto sconosciuta, era di fatto la loro madrepatria.

Londra, poi, a quell’epoca, era assetata di manodopera che serviva per affrontare la rinascita del dopoguerra e dunque accoglieva a braccia aperte chiunque bussasse alle sue porte, tanto che nel 1948 concesse la cittadinanza e il diritto di ingresso e residenza nel Regno Unito a chiunque volesse trasferirvisi. Così, dalle Indie Occidentali, arrivarono in pochi anni a centinaia di migliaia. Erano parte di quella che poi sarebbe stata ribattezzata generazione Windrush, dal nome della nave che sbarcò le prime centinaia di giamaicani a Liverpool.


Gli arrivi andarono avanti per anni, a tal punto che si stima che i giamaicani nel Regno Unito, che erano poche decine alla fine della Guerra e 15mila nel 1951, diventarono 172mila nel 1961 e 304mila nel 1971.

Man mano che i nuovi inglesi si insediavano nel Regno Unito, trovarono da un lato condizioni di vita molto deludenti, lavori pesantissimi e case in quartieri-ghetto poverissimi e abbandonati come Brixton, nella periferia di Londra; dall’altro, però, toccavano con mano il fatto che un futuro, per quanto in salita, era possibile. Così, con il tempo, in moltissimi, alla fine degli anni Cinquanta presero a far arrivare a Londra i loro figli; bambini nati in Giamaica e lasciati, piccolissimi, con nonni o zii, mentre i loro genitori andavano a cercar fortuna nel Vecchio Continente pieno di nuove promesse.

STORIE_BAMBINI_BBC_GROSSO_28_Still 1 Anne-Marie Simpson

Appena arrivati, per legge, i bambini furono iscritti a scuola. Non era una cosa da poco. I genitori di quei bambini erano braccianti caraibici della prima metà dello scorso secolo e forse una scuola non l’avevano mai vista e se lo avevano fatto, era stato solo per il minimo indispensabile. Lo stesso valeva per i loro nonni. E quanto ai loro bisnonni, probabilmente facevano ancora su e giù per l’Atlantico con le navi negriere, quindi figuriamoci.

I bambini giamaicani e caraibici arrivati a Londra dopo gli anni Cinquanta, probabilmente furono i primi delle loro famiglie a infilare un grembiulino, a prendere una penna in mano, sedersi composti in un banco, orgoglio dei loro poverissimi genitori che, rimasti senza più neppure una patria, osavano fantasticare, per i loro figli, un futuro pieno di tutto.

Quasi subito però le cose presero una brutta piega. I neo scolari e neo inglesi, infatti, erano bambini difficili. Per molte ragioni, psicologiche, culturali, sociali e linguistiche, stentavano a inserirsi. Del resto fino a pochi mesi prima passavano le giornate tra spiagge e palme e non avevano idea delle regole sociali di una città come Londra. Inoltre, molti di loro dovevano elaborare un lutto difficile, perché erano stati portati via ai nonni o agli zii che, da sempre, erano gli unici genitori che avessero visto e conosciuto, e che sapevano che non avrebbero rivisto mai più. Per giunta poi, anche se la lingua ufficiale del loro Paese di provenienza era l’inglese, quel che parlavano e conoscevano era un patois molto diverso da quel che usavano i loro compagni e insegnanti.

STORIE_BAMBINI_BBC_GROSSO_28_Still 4 Waveney Bushell

Così, l’inserimento a scuola di quei primi scolari stranieri fu catastrofico. Ai bambini venivano dati libri che non erano in grado di leggere, o fatte domande alle quali, per quanto fossero facili, non erano in grado di rispondere (per esempio: «Cos’è il Big Ben?»). Così, quei bambini (più maschi che femmine) che stentavano a impararae a leggere e scrivere, che non capivano perché accidenti dovessero stare seduti al banco, che riuscivano male in tutti i test scritti in una lingua per loro incomprensibile furono definiti - ed è una definizione letterale - «educativamente subnormali» e «inadatti all’apprendimento».

Il termine «educativamente subnormale» deriva dall’Education Act del 1944 ed è stato usato per definire coloro che si pensava avessero capacità intellettive limitate.  Se un bambino, come accadde in centinaia di casi (impossibile dire con precisione quanti), stentava a scuola, veniva ritenuto “subnormale” e trasferito nelle scuole Esn, scuole speciali in cui agli alunni non veniva insegnato assolutamente nulla, nella convinzione che tanto non avrebbero imparato né capito. In queste scuole, va detto, finivano anche i bambini bianchi, ma in proporzione di gran lunga inferiore rispetto a quella di bambini caraibici o asiatici.

I risultati delle scuole Esn sono stati, e sono ancora, molto gravi, perché chi usciva di lì non solo non aveva imparato niente, ma si ritrovava anche con l’autostima a pezzi. «Ho trascorso dieci anni lì, e quando me ne sono andato a 16 anni, non riuscivo nemmeno a trovare un lavoro perché non potevo scrivere o compilare una domanda di lavoro», ha raccontato per esempio Noel Gordon, che oggi ha cinquant’anni ma da bambino fu spedito, contro il parere dei suoi genitori, in una di queste “scuole speciali”.

Gordon ha raccontato di recente la sua storia nel documentario della Bbc “Subnormal: a British Scandal” e quel che colpisce di più del suo racconto è la totale nequizia degli insegnanti e dell’intero sistema; la convinzione che se qualcuno non riusciva, subito e bene, nelle faccende scolastiche, era qualcuno per il quale non valeva la pena perdere tempo. «Lasciare la scuola senza qualifiche è una cosa, ma lasciare la scuola pensando di essere stupido è un gioco completamente diverso. Ti fa perdere la fiducia in te stesso», continua Gordon nel video.

Secondo il ritratto del documentario di Bbc, le scuole Esn non avevano nessun tipo di programma da seguire, nessuna attività da svolgere, nessuna competenza da sviluppare; non prevedevano qualifiche o esami, non rilasciavano nessun tipo di titolo.

In quelle aule, racconta il documentario diretto da Lyttanya Shannon, i bambini non facevano niente, perché ritenuti incapaci di comprendere qualsiasi, anche minima, istruzione. E soprattutto veniva ribadito loro, a ogni occasione, che non erano come gli altri, che non avrebbero mai potuto avere una vita normale perché, semplicemente, erano stupidi.

Il problema delle scuole Esn, del loro intrinseco razzismo, dei loro esiziali effetti sull’autostima e la considerazione di se stessi e delle loro azioni su quelli che, prima o poi, sarebbero diventati adulti, ci mise lungo tempo ad emergere. Per varie ragioni in molti non vedevano il problema.

Non le autorità bianche, che anzi, pensavano che le scuole Esn fossero una soluzione e non un problema; non i genitori dei bambini che, spesso a loro volta senza istruzione e molto intimoriti dall’autorità, per lo più, facevano quello che veniva detto loro di fare o si illudevano che la definizione di “scuola speciale” corrispondesse a una scuola migliore delle altre, non a una rampa di lancio per l’inattività completa.

Il primo a parlare esplicitamente della faccenda fu, nel 1971, Bernard Coard, un’insegnante inglese originario di Grenada che lavorava proprio in una scuola Esn e che scrisse un libro dal titolo molto esplicito: “Come i bambini delle Indie Occidentali sono stati resi subnormali dal sistema scolastico inglese”. Il libro ebbe una grande eco e suscitò non poco scandalo e sconcerto, anche nella borghesia inglese bianca. Soprattutto, però, aiutò i genitori di quei bambini che erano stati etichettati come “stupidi” a comprendere con chiarezza quello che sospettavano da tempo ma non osavano o non sapevano dire: ossia che i loro bambini erano intelligenti come gli altri e forse, quelli stupidi, erano gli insegnanti.

La pubblicazione del libro fu una scossa enorme per la storia dell’integrazione razziale nel Regno Unito. Pochi mesi dopo nacquero il Black Education Movement e il Black Parents Movement, due gruppi che non solo presero a fare pressione per l’integrazione delle minoranze etniche (e dunque dei loro stessi figli) nelle scuole regolari del Regno, ma che, in attesa di una riforma del sistema, fecero per conto loro e avviarono le “scuole del sabato”, ossia scuole vere, gestite da insegnanti volontari che, nei fine settimana, insegnavano ai bambini delle scuole Esn quel che la scuola ufficiale si rifiutava di insegnare loro: grammatica, matematica, storia. Ma soprattutto fiducia, autostima, possibilità.

Probabilmente, se la generazione dei figli dei primi immigrati caraibici non è andata completamente perduta, buona parte del merito è di quelle scuole fatte in casa. Se tra gli adulti di oggi che sono stati bambini “subnormali” e “inadatti all’apprendimento”, ci sono avvocati, medici, insegnanti e persone che sono riuscite a costruirsi una vita normale con un lavoro, una famiglia e degli amici, gran parte del merito è di quelle scuole fatte in casa. Anche decenni dopo, tutti i sopravvissuti a quelle scuole, pensate per escluderli dalla società invece che per farceli entrare, raccontano la stessa cosa: «La convinzione di essere stupido non passa mai».