La raffineria di Baiji dista 200 chilometri da Baghdad, in direzione nord, nella provincia di Salahdeen. La pioggia non dà tregua da giorni, piove ininterrottamente da mattina a sera. L’ Erd force (Emergency Response Division), un gruppo di élite del ministero dell’Interno iracheno, è riuscita a liberare la città di Baiji. I militari hanno occupato alcune case da dove decidono quali mosse fare per avanzare. È il 2014, lo Stato islamico ha allungato i suoi tentacoli su buona parte del nord dell’Iraq e ora vuole la raffineria di Baiji, la più grande del Paese. Produce ogni giorno 300 mila barili di carburante, ovvero il 50 per cento del fabbisogno nazionale. Dalla vendita illegale di petrolio, i terroristi riescono a finanziare la loro “guerra all’infedele” e avere il controllo su di essa è, quindi, fondamentale.
È sera e il tenente Abdulazeez Alamir, capo di un piccolo plotone delle forze speciali che si trova lì, in prima linea a Baiji, guarda preoccupato fuori dalla finestra di una delle quattro case, vicino alla raffineria, che lui e i suoi uomini sono riusciti ad occupare. I combattimenti durano da giorni con gravi perdite da entrambe le parti. «All’improvviso sentiamo due forti esplosioni provenire dal ponte che collega la città di Baiji alla zona in cui siamo noi in quel momento, dall’altra parte».
Due uomini dell’Isis hanno fatto saltare il ponte piazzando una grande quantità di nitrato di ammonio, con l’obiettivo di impedire l’avanzata delle forze irachene a supporto dell’unità guidata da Alamir che si trovava proprio nei pressi della raffineria. Qualche istante dopo, la ricetrasmittente attaccata alla cintura del tenente gracchia e una voce roca comincia a parlare. «Tenente Abdulazeez Alamir, da questo momento sei solo. Abbi cura di te e dei tuoi uomini».
Alamir rimane in silenzio per qualche istante, cercando di reprimere la tensione che lo ha colpito come un pugno allo stomaco. Ormai sono isolati e circondati. L’assedio, così, inizia e durerà per quattro lunghi mesi, fino a quando, dopo sanguinosi scontri, il tenente e i suoi non riusciranno a scappare e a riprendere la strada verso Baghdad.
Abdulazeez Alamir non parla volentieri di questa storia, ma dopo un’iniziale ritrosia, lo fa sostanzialmente per cortesia. Durante la guerra, ha già avuto molto a che fare con i giornalisti e non si è mai sottratto alle loro domande. «È il vostro lavoro e io faccio il mio». È una persona molto mite e gentile. Ogni tanto, azzarda un sorriso quando si chiacchiera di altro che non sia l’Isis e la guerra che ha combattuto. Ha 31 anni, una moglie, tre figli piccoli e appartiene ad una delle più grandi e influenti tribù dell’Iraq, la Shammry. «Alamir in arabo significa principe, è un nome di cui vado molto fiero», spiega. Mentre parla da dentro il suo alloggio nella base militare vicino Baghdad, tiene in mano un bicchiere di tè che sorseggia tra un racconto e l’ altro, un po’ perché va matto per questa bevanda, un po’ per nervosismo. Ha uno sguardo severo e un cipiglio militare. Occhi scuri, capelli neri rasati alla tempie e folti baffi in stile iracheno, contribuiscono a dargli un certo tono. In alcuni brevi momenti, però, è come se dimenticasse il suo ruolo, svestisse i panni del soldato Abdulazeez Alamir e fosse solo Azeez, - come lo chiamano gli amici - un giovane ragazzo come tanti altri, con sogni, passioni e voglia di leggerezza. Parla un inglese perfetto, con un forte accento americano. «Ho imparato l’inglese da solo, guardando film stranieri. Ora guardo tante serie tv. Ho visto Breaking bad, La Casa di carta. E, attraverso questa serie che mi è piaciuta moltissimo, ho conosciuto la vostra canzone “Bella Ciao"», racconta.
Proprio parlando di serie tv, confessa di non aver apprezzato, invece, la ricostruzione parziale della battaglia di Mosul fatta nella serie di Netflix intitolata, appunto, “Mosul” e basata sul reportage del giornalista Luke Mogelson, “The Desperate Battle to Destroy Isis”, pubblicato sulla rivista americana The New Yorker.
«È sembrato quasi che la liberazione di Mosul fosse stato merito esclusivo della Swat e invece non è affatto così. È stato un lavoro di squadra. I protagonisti di questa storia erano soldati che hanno agito solo per interessi personali, disobbedendo a degli ordini, eppure sono stati dipinti come eroi. E poi ufficiali iraniani che vendono sigarette a Mosul? Semplicemente, non è mai avvenuto».
Oggi Alamir è capitano. «Sono stato promosso velocemente perché mi sono contraddistinto durante la battaglia di Mosul». È stato, infatti, l’uomo chiave nelle operazioni di liberazione della città. Il suo ruolo era quello di disinnescare le tante bombe insidiose che venivano piazzate in ogni angolo della città da parte degli uomini dell’Isis. «Il meccanismo di funzionamento dei loro esplosivi era sempre lo stesso, quindi una volta che lo capivi, potevi andare, diciamo, sicuro. Il vero problema erano i loro camuffamenti. Nascondevano le bombe usando gli oggetti più impensati, per questo bisognava stare molto attenti», spiega.
Alamir ha imparato a disinnescare bombe da autodidatta e ha cominciato proprio a Baiji, durante quei quattro mesi di assedio. «C’erano bombe dappertutto, e quello era il principale problema da risolvere. Così, in quei mesi di battaglia sanguinosa mi sono esercitato molto. Ovviamente, all’inizio non è stato facile, c’era sempre molta tensione. Sapevo che se avessi tagliato il filo sbagliato o se non fossi riuscito a riconoscere un esplosivo in tempo, per me e per i miei uomini sarebbe stata la fine e non ci sarebbe stata alcuna protezione che ci avrebbe potuto salvare».
La prima volta che è riuscito a disinnescare una bomba dell’Isis lo ricorda bene. «Durante l’assedio alla raffineria di Baiji, ci mancava tutto. Avevamo urgente bisogno di cibo e acqua potabile, e il supermarket lì vicino era stato distrutto dai terroristi. Così, io e un gruppo di miei uomini siamo andati alla ricerca di viveri e proprio la strada che dovevamo percorrere era disseminata di bombe. La prima che ho disinnescato era piena di fili sottilissimi. È stato come giocare alla roulette russa». Tutto quello che ha imparato sugli esplosivi dell’Isis in quei quattro mesi a Baiji, gli è stato utile a Mosul. «Le bombe erano piazzate ovunque. Avanzavamo quartiere per quartiere. Dovevo essere molto veloce a neutralizzare gli ordigni esplosivi altrimenti i miei uomini non potevano proseguire e c’era sempre il rischio che i terroristi di Daesh li attivassero a distanza e ci facessero saltare tutti in aria».
Il coraggio e la forza certamente non mancano al capitano Al Amir ma confessa che anche lui una volta ha avuto paura di morire. «Ero con uno dei miei soldati, sul terrazzo di una casa che avevamo adibito a compound. I cecchini di Daesh si erano accorti della nostra presenza, così hanno cominciato ad attaccarci. Erano nascosti da qualche parte e non riuscivamo a capire dove. Ad un certo punto, il soldato vicino a me è stato ferito. Eravamo sotto fuoco nemico, il mio compagno era stato colpito e io non riuscivo a capire dove fossero i terroristi e, quindi, non potevo difendermi. È stato in quel momento che ho pensato che fosse finita. Poi, però il vento ha leggermente spostato la porta del terrazzo e attraverso il suo vetro sono riuscito a capire da dove sparassero e, dopo ore di conflitto a fuoco, siamo riusciti a farli fuori, tutti».
Parlare di quello che ha vissuto lì, non è facile per lui, anche se ripete «it’s ok» ogni volta che l’interlocutore si scusa per avergli fatto rivivere quei momenti terribili. La tristezza e la malinconia sono visibili nei suoi occhi. I ricordi di quei quattro mesi, però, non sono solo legati ai combattimenti. «Nella casa che avevamo occupato c’erano dei libri. Quando non si combatteva, io leggevo. I libri sono sempre stati il mio rifugio e, soprattutto in quella specifica circostanza, rappresentavano la mia fuga dalla realtà. La lettura mi ha salvato». Il libro che ha letto in quei mesi a Baiji era la più grande opera di Kafka. «“Le Metamorfosi” l’ho trovato lì, in quella casa che avevamo occupato. Ricordo ancora Gregor Samsa. Mi rivedevo molto in lui. Anche io combattevo, come lui, una battaglia anche se in maniera diversa. Lui era intrappolato in quel corpo di scarafaggio, io ero intrappolato in quell’inferno».
Ma la lettura è sempre stata la sua passione. «Amo leggere, ho sempre letto tanto fin da piccolo. Poi un giorno a Mosul, chiacchierando con un giornalista, mi ha suggerito di scrivere un libro per raccontare la mia storia e lì ho deciso di leggere sempre di più e di cimentarmi in quest’impresa, e un passo alla volta, appuntando sul mio laptop immagini e racconti che mi venivano in mente, sono riuscito a finire il mio libro che spero di pubblicare il prima possibile». Mentre parliamo, dalla ricetrasmittente qualcuno chiama e lui quasi mettendosi sull’attenti dice: «Devo andare». Giusto un minuto, l’ultima domanda è sul suo Iraq e su quello che lo lega a quel posto. «Le mie radici sono qui, in Iraq. Questa è la stessa terra con cui mi sporcavo da piccolo giocando e per difendere la quale, oggi, morirei».