Nelle scuole e nelle università, nelle città come nelle aree rurali hanno impresso una svolta al Paese in questi venti anni. Per questo la violenza talebana si accanisce con maggiore ferocia su di loro: nei primi sei mesi del 2021 ne avevano già ammazzate 220

Due teste a forma di lucchetto, chiuse. Una testa, anch’essa a forma di lucchetto, ma aperta.
Ad aprirla è la chiave della conoscenza, un libro.


Il graffito lungo il corridoio principale della scuola secondaria Sayed al-Shuhada è fresco. Come sono freschi l’intonaco all’esterno, la vernice all’interno e quella nelle aule.


Lo scorso otto maggio, mentre centinaia di ragazze uscivano dal cancello principale della scuola Sayed al-Shuhada e centinaia ne entravano, al cambio tra il turno scolastico del mattino e quello del pomeriggio, tre esplosioni hanno rotto l’aria: prima un’autobomba, poi due ordigni esplosivi.
Novanta studenti morti, più di duecento feriti. La maggior parte delle vittime erano ragazze tra gli undici e i quindici anni.


L’istituto Sayed al-Shuhada si trova nel quartiere di Dasht-e-Barchi a ovest di Kabul, un’area prevalentemente abitata dagli hazara, la comunità sciita attaccata più volte in questi anni da gruppi terroristici legati all’Isis. Due anni fa trentacinque persone avevano perso la vita in un attacco a una scuola e venticinque in un attentato kamikaze in una palestra. Lo scorso anno era stata la volta del reparto di maternità di zona, venticinque morti, e della scuola Kawsar-e Danish, trenta morti.


Poi ancora il pomeriggio di maggio, tre mesi fa. Centinaia di famiglie a piangere morti e accudire amputati e un messaggio insieme feroce e trasparente: puniamo gli hazara perché sciiti e dunque infedeli. Puniamo gli hazara e la loro ostinazione per la scuola, l’istruzione, la diffusione della conoscenza. Soprattutto tra le donne.

 

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I giorni successivi, ricordano tutti, bisognava placare la rabbia verso il governo di Ashraf Ghani che non aveva saputo proteggere una comunità già esposta a ritorsioni e attentati, e trovare posti in collina per seppellire le ragazze, perché nei cimiteri non restava un lembo di terra dove posare una bara.

Dopo l’invasione del 2001 la comunità hazara ha raccolto le opportunità dell’istruzione diffusa, della scolarizzazione aperta a ragazzi e ragazze. Così tanto che, in un quartiere che ospita un milione di persone, per garantire un posto a scuola per tutti, e soprattutto per tutte, i turni di insegnamento sono tre. Qui, si sta in classe dalle nove del mattino alle otto della sera.


È metà mattina quando Aqila Tawakoli, la preside, ci viene incontro nello slargo davanti al cancello d’entrata. Indica i nomi delle ragazze scritti a terra, sulle mura che circondano la scuola. Di quel giorno, dice, non riesce a dimenticare le ragazze chiuse nelle aule che gridavano i nomi delle sorelle uscite dalle aule poco prima. Più le sue allieve gridavano, più Aqila e le sue insegnanti cercavano di scavare un buco nel muro di cinta, per farle scappare dal retro.


Erano convinte che gli assalitori sarebbero entrati per completare la strage. Invece, dopo la terza esplosione, nelle aule, lungo la strada e nello spiazzale sono rimasti corpi a brandelli, frammenti di zaini, le aule colpite, i vetri distrutti. E nel quartiere centinaia di famiglie dimezzate. Sono passati tre mesi, l’anno scolastico sta per finire, è giorno d’esame. Uno sciame di volti, coperti da veli bianchi, entra e esce dalle aule. Sono allieve di Aqila, le sopravvissute.


Il suo passo è fermo e lieve contemporaneamente. Sembra muoversi con la stessa agilità tra la schiera di studentesse, sono 7500 in totale, a frequentare l’istituto, e i giorni inquieti che vive il Paese. È la prima settimana di agosto, i talebani sono vicini alla capitale, arrivano notizie da Ghazni, da Kandahar: «Le nostre colleghe insegnanti ci dicono che stanno vietando alle ragazze di frequentare le università, che hanno visto libri bruciati».


Aqila legge i messaggi che riceve con una severità che non sporca mai di disperazione, d’altronde la scuola è stata nuovamente attaccata dai talebani solo venti giorni prima della nostra visita. Sono scesi dalla strada che circonda la collina. Lei elenca i fatti e resta ferma, e gentile: «Abbiamo la forza dei superstiti, siamo tutte reduci qui, qualcuna reduce più volte».


Come lei, sopravvissuta all’attentato di maggio e a quello dell’anno prima alla Kabul University. Era lì con sua figlia che insegna medicina. Un’altra bomba, un altro luogo di conoscenza violato, altri morti innocenti. Di sopravvivenza parlano anche i muri, la scritta che le è più cara è di fronte alla porta del suo ufficio, e recita: «La vita ti da una seconda possibilità. Il suo nome è: oggi».

 

Oggetti delle vittime dell'attentato ai danni dell'istituto Sayed al-Shuhada


«Volevo dire questo ai miei studenti, siete sopravvissuti mentre altre e altri hanno perso la vita, ora modificate il corso degli eventi, potete farlo ogni giorno aprendo il lucchetto attraverso i libri, attraverso il sapere, abbandonando la rabbia legata alla vendetta e la rabbia legata all’ignoranza».


Aqila Tawakoli non era in Afghanistan durante il regime talebano, tra il 1996 e il 2001, era, come molti, fuggita in Pakistan. È la sua ferita più profonda, meno rimarginata: «Ho potuto studiare, salvarmi la vita, garantire a mia figlia un’istruzione e tornare dopo l’autunno del 2001 per prendere parte al progetto di un Afghanistan finalmente libero, ma non c’ero. Quello che so, lo so dai racconti di chi ha sofferto». Qualcosa le fa ombra, qualcosa che non nomina, la frustrazione dell’empatia quando non è, né può diventare, partecipazione.


Il senso di colpa, forse, per osservare un’ingiustizia da lontano, dal luogo che, sebbene nella condizione di esule, è il posto dei salvati. «Abbiamo costruito donne di valore in questi venti anni, dice, poi ogni volta che le donne di valore hanno tentato di raggiungere i ranghi più alti per rappresentare il loro Paese, sono state attaccate, delegittimate, o peggio uccise».


In due decenni, dall’autunno del 2001 a oggi, le condizioni di vita dei cittadini e delle cittadine afghane sono molto migliorati. Sono otto milioni i bambini in più nelle scuole, e, secondo quanto riportato dal Financial Times, la percentuale di bambini iscritti all’istruzione secondaria è passata dal 12 per cento nel 2001 al 55 per cento nel 2018. Nel 2020 un quinto dei dipendenti pubblici afghani erano donne, così come in Parlamento un seggio su quattro era detenuto da donne. Nel 2001, nessuno.
Tutto vero e tutto doppio, multiplo.


Nello stesso Paese che ha assistito alla crescita di una generazione di donne istruite che cercavano di realizzare i propri desideri, gli ultimi mesi prima della caduta di Kabul sono stati segnati da un aumento della violenza verso le donne: 220 donne uccise nei primi sei mesi del 2021, rispetto alle 130 dell’anno precedente. Tra loro giudici, attiviste, giornaliste. Tutte donne, tutte esposte, tutte morte. Sullo sfondo, gli accordi di Doha tra Stati Uniti e talebani.


«Quegli accordi hanno legittimato i talebani, dopo la firma gli assassini mirati si sono moltiplicati. I segnali di questa debacle c’erano tutti, le decine di omicidi di donne era il modo che i talebani avevano di dire: stiamo tornando. Non dicono: stiamo arrivando. Non sono nuovi, non lasciatevi ingannare. Sono gli stessi di 25 anni fa». A parlare è Palwasha Hassan, una storia di attivismo e dedizione. Fondatrice dell’Afghan women’s education center, cofondatrice dell’Afghan women’s network. È stata la prima donna afghana a dirigere una Ong in Afghanistan dall’istituzione del nuovo governo ad interim dopo l’inizio della guerra contro i talebani nel 2001.


Due giorni prima della caduta di Kabul, nel suo ufficio in centro città, superate le barriere blindate, aveva accolto donne sfollate dalle province sotto assedio. Dai minibus all’entrata scendevano insegnanti, giovani studentesse, attiviste. Pensavano, come migliaia di altri, di trovare rifugio temporaneo a Kabul.
«Non vi abbiamo invitato ad invaderci, ma una volta qui non eravate in luna di miele. Eravate qui con un obiettivo. E non potete essere così egoisti da dire che l’obiettivo fosse uccidere Bin Laden, altrimenti avreste dovuto lasciare il Paese anni fa. Siete rimasti irresponsabilmente e ve ne state andando irresponsabilmente». Palwasha Hassan è inflessibile.


Era un’attivista, nell’ombra, anche negli anni Novanta e sa che questo è il momento dell’onestà e della risolutezza. «Non prego nessuno di restare, come non ho pregato nessuno di venire a liberarci. Ricordo all’Occidente che buona parte di quello che è accaduto qui, nel bene ma anche nel male, negli ultimi venti anni, è vostra responsabilità. È il tempo che vi concentriate sul male prodotto», ci ha detto Palwasha Hassan quarantotto ore prima che l’aeroporto di Kabul diventasse il girone dantesco di disperati in fuga che ancora è. «È tempo che vi concentriate sugli errori».


Il primo, dice, è togliere lo sguardo occidentale all’Afghanistan, perché quello sguardo ha distorto la realtà, pensando che i diritti fossero rappresentate solo dalle élite europeizzate delle città, della capitale Kabul. «Anche le donne delle aree rurali sanno quali sono i loro diritti, è solo che hanno meno strumenti per acquisirli e difenderli».


È per loro che l’Occidente, secondo Palwasha Hassan, doveva restare responsabilmente o andare via responsabilmente. Invece oggi migliaia di attivisti stanno lasciando il Paese per mettersi in salvo dal regime talebano, scappano interpreti, collaboratori delle organizzazioni internazionali, ricercatrici e studenti, docenti e letterati, avvocati e dottoresse, anche la sua famiglia è scappata sui monti.
Il destino dell’Afghanistan che una volta ancora è scritto sul corpo delle donne.


Corpi liberati o corpi dimenticati, corpi violati e corpi simbolici. Corpi, oggi, in fuga.
Ma se i migliori se ne vanno, se vanno via i simboli della liberazione, dei diritti acquisiti, della scuola per tutti, delle parlamentari e delle attiviste, su quale corpo si scriverà la speranza del futuro del Paese?
Palwasha Hassan ha scelto, per ora, di non lasciare il Paese: «Sotto il regime dei talebani abbiamo lavorato in clandestinità, posso farlo ancora».