Xi Jinping ha annunciato che entro il 2060 il gigante asiatico avrà raggiunto la “neutralità carbonica”. Ma continua a costruire nuove centrali a carbone (le più inquinanti) e investe nel fossile il triplo rispetto alle energie pulite. Mentre le aziende falsificano i dati sulle attività

Airpocalypse era la parola dell’anno nel 2012. Insieme alla mascherine si sviluppò anche l’allora ancora nascente mercato delle app che misuravano le polveri sottili e il livello di inquinamento. Da un lato c’era il governo che ogni giorno mandava messaggi sulle condizioni climatiche, in alcuni casi suggerendo di non uscire di casa o chiudendo le scuole, dall’altro c’era l’app dell’ambasciata americana i cui numeri erano sempre superiori rispetto a quanto comunicato dall’autorità cinese. Come accorgersi – senza guardare fuori dalla finestra – che a Pechino era una bella giornata in cui splendeva il sole e il cielo era blu come potrebbe essere quello di Roma, in un’arieggiata mattina primaverile? Bastava accendere il cellulare, collegarsi alla rete e aspettare: partiva ben presto un diluvio di messaggi di giubilo o di immagini rappresentanti spicchi di blu denso, come in un giorno speciale. Tutti i contatti di WeChat esultavano perché dalla Capitale pareva fuggito il consueto alone grigio.


A un certo punto parecchi stranieri decisero di andarsene dalla Cina. Fu un fenomeno rapido: ogni giorno ricevevo il messaggio di qualcuno che organizzava un momento per salutarsi, prima di tornare nel proprio paese o di procedere verso nuove avventure. Per tutti gli stranieri che decisero di abbandonare la Cina, negli anni tra il 2012 e il 2014, c’era una causa in comune: l’inquinamento. Specie chi aveva figli, o problemi di salute, decideva a malincuore di andarsene. I filtri delle mascherine, neri, consunti come una marmitta di una scooter, erano lì a dimostrarlo: negli ultimi tempi gli acquisti di mascherine più o meno performanti era diventato un argomento di discussione centrale (ricordo che per qualche giorno i negozi on line cinesi avevano esaurito le scorte), mentre la cappa su Pechino e su altre città cinesi ostruiva respiro e pensieri.

 

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Il mal di testa a volte era così denso che si rinunciava a uscire. Si rimaneva in casa, i più fortunati avevano umidificatori e purificatori dell’aria, guardando attraverso i vetri delle finestre le persone affaccendate ad affrontare i consueti ritmi infernali di Pechino e lo smog. Sui social media cinesi non si parlava d’altro, mentre inchieste giornalistiche dimostravano acquisti di costosi impianti di purificazione d’aria a Zhongnanhai, il Cremlino cinese. Si diceva addirittura che la dirigenza cinese avesse dei purificatori portatili, usati in ogni viaggio effettuato nel paese. Anche in questo caso il tema dell’inquinamento indagava le tante diseguaglianze del paese, ma finiva anche per unire: nessuno, né il poveraccio, né il funzionario di partito, vogliono vivere in un luogo inquinato che mette a rischio la propria salute e quella dei propri figli.


Ai rumors sui privilegi dei politici, si affiancavano altre due tipologie di notizie: intanto veniva sottolineato l’aumento di malattie respiratorie e l’innalzamento di morti per tumore nelle città più inquinate del paese; dall’altro lato venivano segnalate, anche dai media ufficiali, le tante battaglie che nelle varie periferie del vasto territorio cinese, prendevano di mira fabbriche inquinanti e politiche troppo morbide nei confronti del consumo di carbone. A un certo punto il numero delle manifestazioni per questioni legate all’inquinamento aveva superato quelle relative al tema del lavoro.


Gli anni tra il 2007 e il 2012 furono anni di grandi mobilitazioni, quelli in cui il tema ambientale divenne centrale in Cina. Le proteste per lo più provenivano dalle zone periferiche, fuori dalle agende nazionali e dall’attenzione dei media statali, nonché luoghi distanti dalle grandi città, dove il controllo sulla popolazione e le sue attività è massimo.

 

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In questo clima, nel 2015 arrivò il documentario “Under the Dome”. Un giorno prima della sua uscita, la Cina presentava il suo nuovo ministro dell’ambiente e dell’ecologia, Chen Jining. Il funzionario disse di aver visto il film e di avere anche telefonato all’autrice, Chai Jing, «per ringraziarla del contributo».


Secondo molti osservatori quel film avrebbe dovuto risvegliare la coscienza cinese rispetto alle lotte ambientali, perché si trattava dell’indagine «di più alto profilo che il pubblico abbia mai visto», capace di «sollevare il coperchio su quanto sia lassista il sistema nei confronti delle industrie inquinanti e su quanto sia grave l’inquinamento in tutta la Cina e non solo a Pechino». Il documentario di Chai, inoltre, se si escludevano gli ambientalisti, per la maggioranza dei cinesi costituiva la prima presa di coscienza sul tema, grazie alle immagini degli abitanti dei villaggi dello Shaanxi, «le cui vite sono state sommerse dal fumo delle vicine centrali a carbone e dove una bambina di sei anni ammette di non aver mai visto il cielo blu». Dal momento della sua uscita “Under the Dome” fu l’argomento più discusso sulle piattaforme social cinese, ma non mancarono critiche. Molti accusarono la regista di aver cercato solo pubblicità e di aver favorito il governo che proprio su quei temi avrebbe dato delle risposte nel corso dell’assemblea legislativa in programma nelle settimane successive a Pechino, sottolineando che un documentario di quella natura non sarebbe mai potuto uscire senza un’approvazione formale degli uffici di propaganda e censura del Partito comunista.

 

La copertina de "La Cina nuova" (Laterza), di cui anticipiamo un capitolo


L’inquinamento e tutto ciò che ha comportato in Cina, ha rappresentato un prezzo che il paese ha pagato per la sua straordinaria capacità di progressione economica. C’è un principale responsabile dell’inquinamento in Cina? C’è, si chiama carbone. La Cina fino a qualche anno fa era dipendente per il 70% del suo fabbisogno energetico e soprattutto ne consuma più di tutto il mondo messo insieme. Durante l’ultima Assemblea generale dell’Onu svoltasi lo scorso 22 settembre 2020, il presidente cinese Xi Jinping ha annunciato che la Cina raggiungerà la “neutralità carbonica” (“zero emissioni”) entro il 2060. Significa che Pechino sarà in grado di avere un equilibrio tra emissioni e assorbimento dell’anidride carbonica: un impegno “storico” e che se realizzato aiuterebbe l’intero pianeta a diminuire emissioni e intraprendere un percorso energetico davvero alternativo.


Tuttavia, nonostante i toni di Xi e il suo impegno - a parole - che ha contraddistinto fin da subito la sua leadership, sussistono alcuni dubbi sulla possibilità concreta che l’obiettivo venga davvero raggiunto. Questo perché la Cina, anche in termini energetici, ha molte contraddizioni. La prima che balza agli occhi è quella che la Cina è ancora impegnata nella costruzione di nuove centrali a carbone. Inoltre, Pechino consuma metà del carbone mondiale e, oltre a questo c’è poi il carbone bruciato nelle fabbriche che producono acciaio e cemento (di cui il paese è il principale produttore al mondo). Secondo gli studi di una società inglese (Ember) rilasciati nel marzo del 2021, nel 2020 la Cina avrebbe generato il 53% dell’energia totale alimentata a carbone, ovvero nove punti percentuali in più rispetto a cinque anni prima, nonostante gli impegni sul clima e la costruzione di centinaia di impianti di energia rinnovabile.


Mission impossible dunque? No, secondo gli esperti, perché la Cina ha tante facce e insieme alla sua dipendenza dal carbone, è anche leader mondiale nelle tecnologie “pulite” che potrebbero rendere attuabili i piani ambiziosi di Xi. La Cina è infatti il primo investitore, produttore e consumatore di energia rinnovabile. Rendere possibile il passaggio a zero emissioni, però, non è un’impresa facile tenendo conto che le emissioni americane di Co2 hanno raggiunto il picco tra il 2005 e il 2007, per poi diminuire di circa il 14% nel decennio successivo, mentre quelle dell’Ue hanno raggiunto il picco nel 1990 e da allora sono diminuite del 21%.

 

L’obiettivo europeo è ridurle del 45% entro il 2030, ovvero dimezzare le emissioni in quattro decenni. In base all’accordo sul clima di Parigi del 2015, la Cina aveva promesso di raggiungere il picco delle sue emissioni intorno al 2030; questo significa che la Cina dovrebbe passare dal picco a “zero” in soli trent’anni.

 

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Un primo problema di fronte a questo obiettivo è posto proprio dal carbone e dalla attuale dipendenza cinese: se è vero che l’aumento delle energie rinnovabili potrebbe significare una riduzione dei combustibili fossili del 60% (contribuendo al 25% del mix energetico nel 2050, rispetto all’attuale 85%) questo passaggio avrebbe costi economici e sociali non da poco, non ultimo il fatto che il carbone dà lavoro a circa 3,5 milioni di persone.

 

Un aspetto da non sottovalutare nell’ex Impero Celeste: molto spesso in Cina i piani del governo centrale faticano ad attuarsi a causa delle resistenze delle amministrazioni regionali che temono sconquassi sociali a fronte di decisioni prese a Pechino. Per alcune amministrazioni questo passaggio rischia di essere piuttosto doloroso. Non solo, perché oggi in Cina la spesa per lo stimolo post Covid-19 sui combustibili fossili è tre volte maggiore a quella per l’energia pulita, inclusi quasi 25 miliardi di dollari investiti proprio in centrali a carbone. Questi impianti in fase di lancio, dal 2030 sarebbero costretti a chiudere e non è detto che gli amministratori lo vogliano e che – soprattutto – gli investimenti, nel frattempo, saranno rientrati.

 

Un’altra possibilità per raggiungere l’obiettivo nel 2060 è quella di affidarsi al nucleare, con tutti i rischi, però, che questo comporta, tenendo conto che in Asia il ricordo del disastro di Fukushima (nel 2011) non è ancora del tutto svanito. Il tema è stato centrale nel corso dell’appuntamento legislativo annuale del 2021 ed è il cuore del 14° piano quinquennale approvato da Pechino. Il fatto è che l’Assemblea nazionale, nel marzo del 2021, si è svolta in una capitale nuovamente avvolta dalla cappa inquinata (a cui si sono aggiunte le tempeste di sabbia) mentre Huang Runqiu, ministro dell’Ecologia e dell’Ambiente, era in un altro luogo a condurre ispezioni a sorpresa nelle acciaierie. Si è poi scoperto che diverse aziende ignoravano le misure di controllo dell’inquinamento continuando a lavorare a pieno regime, falsificando i documenti relativi alle attività inquinanti. Proprio come raccontava “Under the Dome”.