La legge del Texas contro l’aborto. La deriva misogina polacca. La leader femminista americana analizza il backlash contro le conquiste delle donne. E invita alla resistenza. Insieme a Laura Boldrini, già presidente della Camera, Steinem sarà protagonista il 24 ottobre di un dialogo sul femminismo, a conclusione del Festival “L’eredità delle donne”


Un dialogo sul femminismo tra l’attivista statunitense Gloria Steinem e l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, a partire dalla storia del movimento di liberazione delle donne, con lo sguardo rivolto alle giovani generazioni e alle ragazze di domani. È l’appuntamento conclusivo (domenica 24 ottobre alle ore 18,15 nella Sala Festa – Manifattura Tabacchi) del Festival “L’eredità delle donne”, realizzato da Elastica, con la direzione artistica di Serena Dandini, dal 22 al 24 ottobre dal vivo alla Manifattura Tabacchi di Firenze. Gloria Steinem, scrittrice e attivista statunitense, è una delle figure più influenti e autorevoli del movimento femminista mondiale. La sua vita e le sue battaglie sono state avanguardia e ispirazione per molte generazioni di ragazze, a partire dagli anni Sessanta. Oggi, a 87 anni, ripubblica con la casa editrice VandA un suo bestseller, “Autostima”. Mentre l’ultimo libro di Laura Boldrini, “Questo non è normale. Come porre fine al potere maschile sulle donne” (2021), è pubblicato da Chiarelettere.

 

Dal primo settembre di quest’anno gli abitanti del Texas sono invitati a segnalare cliniche, medici o anche solo tassisti che si mostrino disposti ad aiutare donne che devono abortire. Se la segnalazione ha successo, il cittadino-denunciante riceve un premio di almeno 10mila dollari. Quest’invito a farsi polizia diffusa contro l’aborto è uno degli aspetti inquietanti fra i molti della nuova legge che impedisce le interruzioni volontarie di gravidanza in Texas, divieto che agisce dopo la sesta settimana dalla fecondazione, senza eccezioni per stupro o incesto.

Sta succedendo ora, nel 2021, in una delle più grandi democrazie dell’Occidente. Non in una dittatura o in un qualche Paese comunemente tacciato di oscurantismo. In Europa lo stesso: dopo il partecipatissimo referendum che in Irlanda ha introdotto il diritto all’aborto nel 2018, in Polonia le donne si sono viste togliere quello stesso diritto a gennaio del 2021, nonostante le oceaniche manifestazioni popolari degli anni scorsi per impedire che accadesse.

Il mondo non fa che ricordarci insomma che non c’è traguardo sociale che possa esser dato per scontato. Non c’è vittoria civile di fronte alla quale non si debba scegliere continuamente da che parte stare, e mobilitarsi per questa. Essere partigiani. «La cosa positiva, che va sottolineata con forza ogni volta, è che queste mobilitazioni popolari esistono. E che la maggioranza delle persone è più aperta e inclusiva di quanto non voglia un manipolo di uomini bianchi che continua a pretendere il potere sul corpo delle donne».

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Gloria Steinem è una delle più famose leader del femminismo mondiale. La sua vita e le sue battaglie sono state avanguardia e ispirazione per generazioni, a partire dagli anni ‘60. Oggi a 87 anni è veloce e propulsiva come a trenta nel ragionare, durante una video-intervista che le piace immaginare circolare, dice, anche se siamo in due, ma circolare perché è interrogandosi alla pari che emergono nuove possibilità, sulle conseguenze e le radici di quanto sta accadendo intorno al ruolo sociale e politico delle donne.

Steinem sarà a Firenze per l’evento di chiusura del festival “L’Eredità delle Donne”, che si terrà dal 22 al 28 ottobre. Per l’occasione la casa editrice Vanda pubblica una nuova edizione di uno dei suoi bestseller, “Autostima. La rivoluzione parte da te”.

 

Cominciamo da quanto sta succedendo in Texas. Come lo interpreta?
«Ci sono tre aspetti che evidenzierei. Il primo: ci troviamo di fronte, di nuovo, a cosa accade quando una manciata di uomini bianchi di potere possono esprimere liberamente i loro sentimenti rispetto al controllo delle donne e delle facoltà riproduttive. Il secondo: che la maggioranza è già andata avanti rispetto a questi temi. La risposta popolare è stata enorme e diffusa. Tassisti texani hanno offerto le corse per le donne che dovranno abortire in Stati vicini. È la natura della legislazione a livello statale che permette a politici poco rappresentativi ed eletti purtroppo con maggior indifferenza da parte dell’elettorato, rispetto a quanto accade a livello centrale, di orientare la legge locale e avere effetti di questo tipo».

 

C’è un tema fondamentale di rappresentanza e di partecipazione politica quindi.
«Esatto, è il terzo elemento cruciale per capire quello che sta succedendo. I governanti del Texas in questo momento non rappresentano la maggioranza del loro Stato, così come è stato per Trump. Siamo di fronte a una classe di potere minoritaria che non accetta la nuova diversità del Paese. È una minoranza pericolosa di bianchi, al comando, che non vuole fare i conti con il presente e il futuro della popolazione: fra i nuovi nati i bambini di colore sono più numerosi dei bianchi. E questa è una grandissima promessa, che ci permetterà di conoscere meglio il mondo. Ma loro si rivoltano contro la nostra stessa popolazione. Lo stesso vale per l’uguaglianza fra uomo e donna: è avanzata in moltissimi settori della società, e per le nuove generazioni la solidarietà è enormemente più diffusa. Ma ancora siamo di fronte a possibili leggi come quella in Texas».

 

Razzismo e politiche anti-abortiste sono questioni così legate?
«Totalmente. Sto lavorando adesso a un saggio che mette in luce come la primissima legge promulgata da Hitler fosse la condanna dell’aborto quale crimine contro lo Stato, e il controllo dei destini delle donne. Voleva che la popolazione bianca si riproducesse a forza, mentre sterminava ebrei e persone di colore nei campi di concentramento. Anche per Benito Mussolini la famiglia, intesa alla riproduzione, era essenziale, e le donne dovevano solo produrre figli. Tutto questo per via dell’utero: perché noi abbiamo l’utero e loro no. E allora vogliono controllare le donne e le loro scelte, per costringerle».

 

Penso a papa Francesco che ha detto pochi giorni fa che «l’aborto è un omicidio». Già nel 2018 d’altronde diceva che abortire «è come affittare un sicario». Fin dal concepimento.
«Di fronte a frasi come queste, bisogna ricordare che il papato non l’ha sempre pensata in questo modo. Anzi. Fino a papa Pio IX - siamo nella seconda metà dell’Ottocento - prevaleva la dottrina di Gregorio XIV, ripresa da Tommaso d’Aquino e da Aristotele, secondo la quale il feto assumeva un’anima solo quando iniziava a muoversi. Quindi non dal concepimento. L’interruzione volontaria di gravidanza quindi era regolata, semplicemente. Non vietata del tutto. Penso che il cambio di dottrina a riguardo sia stato una scelta politica, un accordo con Napoleone III per forzare la popolazione a crescere, visto che c’era bisogno di giovani da esercito».

 

È politica insomma. Politica imposta sul corpo delle donne. E ogni volta, mascherata da argomento di moralità. Ma decidere al posto di tutte le donne, di ogni singola donna di fronte al suo corpo e al suo futuro, è morale? O politico, appunto?
«Penso a quanti negli Stati Uniti si dichiarano anti-aborto e sostengono queste leggi, e poi sono a favore della pena di morte. Non ha senso, evidentemente. A meno di non accettare il paradosso per cui una vita “colpevole” vale meno».

 

E sono faglie di fronte alle quali non tengono, a pensarci, le grandi divisioni fra Oriente e Occidente, ad esempio, oppure fra una fede e l’altra, fra un sistema culturale e un altro. Tiene solo la democrazia esercitata o la solidarietà. È così?
«La tendenza egualitaria si trova dappertutto, così come la ricorrenza del potere, dei pochi uomini intesi a controllare i corpi di tutte le donne. Penso all’Afghanistan: i talebani sono un gruppo di suprematisti maschili. E allo stesso tempo, appunto, la forza dell’egualitarismo attraversa i continenti. Io ho imparato il femminismo in India, è lì che ho conosciuto le donne che supportavano Ghandi ma anche si contrapponevano a lui su temi come la contraccezione e il controllo delle nascite. È lì che ho capito che questa dinamica sul controllo dell’utero era politica. Le stesse suffragette statunitensi impararono dalle donne native americane le prime pratiche di controllo della fertilità e l’uso dei pantaloni per muoversi. L’apporto delle identità e delle culture non-bianche nel movimento femminista è assolutamente sotto-rappresentato. Ne ho avuto esperienza personalmente».

 

In che senso?
«Da ragazza venni messa sulla copertina di magazine e settimanali, come simbolo delle lotte femministe. Non mi venne chiesto il permesso, ovviamente, ma il problema principale era lo sforzo di alcuni media di caratterizzare il movimento delle donne come un movimento bianco, quando le donne nere erano forse più numerose, e più determinate, nei cortei. Ci fu una sorta di divisione: il movimento femminista era rappresentato con donne bianche, quello per i diritti civili con uomini neri. Così le donne nere che erano la maggioranza delle leader di entrambi i fronti, scomparivano».

 

In Texas circa il 70 per cento degli aborti praticati nel 2019 era stato chiesto da donne di colore.
«C’è un enorme problema di accesso alle cure, alle strutture mediche, agli strumenti di prevenzione. Il Covid-19, se ci pensiamo, ci ha messo di fronte alla stessa evidenza. Da una parte ha rivelato la natura arcaica dei confini nazionali, aumentando la nostra percezione dell’essere parte di una umanità comune. Dall’altra la differenza dell’impatto del virus e delle misure di restrizione sulle diverse classi sociali è stata fortissima, e inaccettabile».

 

Fra le conseguenze delle restrizioni per la pandemia, c’è stato anche l’aumento della violenza domestica.
«Prima degli anni ‘70 la polizia che veniva chiamata a intervenire durante casi di violenza in famiglia aveva come ruolo quello di convincere la coppia a tornare insieme. C’era questa idea che la legge si fermasse sulla porta della famiglia. Adesso siamo lontane: ci sono rifugi per le donne, le norme sono migliori, gli strumenti a disposizione sono molti, ma dobbiamo continuare a investire, e aumentarli. Dobbiamo formare nuove generazioni che abbiano vissuto in famiglie diverse, e quindi possano cambiare il discorso pubblico, normalizzando la parità».

 

È da casa che parte tutto, no?
«È così. Solo se bambine e bambini vengono educati a credere nella loro libertà, nelle loro aspirazioni, a sentire se stessi come unici, non ci saranno più basi per il patriarcato».

 

C’è chi dice che il femminismo ha stufato, che se ne parla troppo, che ormai la parità è dappertutto. Cosa rispondere?
«Beh, banalmente, con una dose di realtà. Solo 26 Paesi hanno donne presidente. Gli Stati Uniti hanno avuto un solo presidente di colore nonostante la popolazione. Le donne leader, nelle organizzazioni come nelle aziende devono ancora vergognarsi di essere sincere, semplicemente perché lo standard della leadership è graniticamente maschile, e penso ad esempio al piangere quando si è arrabbiati o alle dinamiche di tempo e potere. C’è una cosa che ho imparato in questi anni di insegnamento, ad esempio, ed è quella del mettersi in cerchio, di ripartire da un discorso alla pari, lasciarci alle spalle il modello frontale della Chiesa, dove delle persone guardano un ragazzo con una gonna che parla da un palco o da pulpito accentrando su di sé il potere di parola. È condividendo questo potere che cambieremo».