La presa del Campidoglio fu un’insurrezione ideata dall’ex presidente degli Stati Uniti. “Se ci fosse riuscito, sarebbe stata una presidenza a vita”. Parla il premio Pulitzer Lawrence Wright, autore de “L’anno della peste”

È stato come guardare una scena del film “Il pianeta delle scimmie”. Scavalcavano l’impalcatura allestita per l’insediamento, sfasciavano le finestre per irrompere nell’edificio. Una violenza inaudita». Un anno fa, il 6 gennaio del 2021, Lawrence Wright, giornalista del New Yorker e premio Pulitzer, aveva davanti agli occhi le immagini dell’invasione di Capitol Hill; incredulo e pietrificato come il resto del mondo.

È il giorno nero della Repubblica, quello in cui la democrazia americana rischia di soccombere, calpestata da una fiumana imbizzarrita riversata sul Campidoglio al grido schiumante di «stop the steal», fermate il furto delle elezioni, per impedire che il vicepresidente Mike Pence certifichi i voti che hanno eletto Joe Biden e “deposto” Donald Trump. Una piena feroce di bandiere e cappelli rossi, che gli agenti a protezione del Congresso non riescono ad arginare. La folla sciama, vandalizza, saccheggia, cerca «nemici» da punire. A profanare il tempio laico ci sono estremisti di destra, suprematisti bianchi, complottisti di QAnon, ma anche tanta gente comune convinta di brogli elettorali e disposta a tutto pur di lasciare il suo campione a presidio dello Studio Ovale.

 

«Quando li ho visti picchiare i poliziotti mi sono chiesto cosa fosse successo alla società civile. Queste persone si sentivano autorizzate», dice Wright. Momenti prima, Trump si era rivolto al suo popolo radunato davanti alla Casa Bianca, incitandolo a combattere. A morire sono cinque persone, incluso un agente. E nella conta mancano quattro poliziotti, suicidi nei mesi successivi.

 

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Lawrence Wright, autore di testi fondamentali per decifrare l’America contemporanea come “Dio salvi il Texas” e “Le altissime torri”, ha raccontato l’assalto alla democrazia nell’epilogo del suo ultimo libro, “L’anno della peste” (NR edizioni, traduzione di Paola Peduzzi). L’atto finale, almeno così sembrava, dell’annus horribilis della pandemia iniziato a Wuhan in Cina e concluso a Washington, ai piedi del Campidoglio. «La verità è che ora il titolo giusto sarebbe “Gli anni della peste”. Durante la stesura ero speranzoso che ne stessimo vedendo la fine, ma il virus è più complicato di quanto credessimo», spiega quando lo sentiamo dalla sua casa di Austin, in Texas.

 

Wright, come definirebbe quello che è accaduto?
«Insurrezione, un colpo di Stato da parte del presidente per prendere il controllo del Paese che lo voleva fuori. Non c’è dubbio che, se ci fosse riuscito, sarebbe stata una presidenza a vita».

 

Qual è la prima cosa a cui ha pensato, come scrittore ma anche come americano?
«È parso che potessimo perdere la nostra democrazia, ci siamo andati vicino. I repubblicani minimizzano, ma supponiamo che avessero catturato un membro del Congresso, o che avessero preso Pence e lo avessero impiccato, sarebbe stato come la Rivoluzione francese. Più dettagli acquisiamo, più ci rendiamo conto di quanto abbiamo rischiato. Noi non siamo una nazione perfetta, ma offriamo opportunità. La possibilità che tutto ciò potesse essere sovvertito sulla base di bugie e complotti con cui avevo a che fare quando lavoravo come corrispondente in Medio Oriente, credevo fosse principalmente una malattia di quella regione. Invece nessuno è immune dal contagio. C’erano due virus che si diffondevano nel mondo: quello reale e quello della disinformazione. Siamo soggetti a entrambi».

 

Come è stato possibile arrivare all’assalto del Campidoglio?
«C’è stato un fallimento dell’intelligence, al pari dell’11 settembre e di Pearl Harbor. Eppure ce lo aspettavamo tutti, i messaggi erano in rete. L’Fbi ha ignorato i segnali. Aggiungo anche che per anni la propensione alla violenza nella nostra società è aumentata, ci sono più armi rispetto al passato. In qualche modo la Nra (la potente lobby delle armi, ndr) è responsabile di questa cultura delle armi. Una tendenza antidemocratica, poi, c’è sempre stata ma mai così prominente. I semi, insomma, erano stati piantati, crescevano davanti ai nostri occhi. Il 6 gennaio ha reso spaventosamente evidente come la società fosse già cambiata. Specialmente durante l’era Trump che è scaturita dalla rabbia verso Obama. Un risentimento razzista, ma in gran parte elitario. I sostenitori di Trump si sentivano inascoltati. Non abbiamo fatto molta attenzione alla disparità di reddito; ci siamo preoccupati delle questioni razziali e dell’identità etnica in questo Paese, ma è la classe il motivatore».

 

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Un evento del genere potrebbe riproporsi?
«Certo! Gli elementi da cui è scaturito non si sono dissipati, la nazione è instabile. Ma penso che la nostra società sia abbastanza forte per resistere. Ho visto tempi in cui si stava molto peggio, specialmente durante la guerra del Vietnam. La società era distrutta. C’era molta più violenza di quanta ce ne sia ora. Ci siamo già passati, lo supereremo».

 

Cosa pensa del lavoro che sta svolgendo la commissione parlamentare che indaga sui fatti del 6 gennaio?
«È troppo presto per dirlo. Intanto, sappiamo chi è responsabile. La domanda è: possono prenderlo al lazo? Sarebbe di per sé un’azione molto provocatoria. La commissione sarà cauta. Vedremo cosa accadrà tra qualche mese».

 

Quanto ha inciso la pandemia nella furia che ha portato all’irruzione nel Campidoglio?
«Trump ha perso le elezioni in gran parte a causa della pandemia. Senza il Covid-19 come antagonista, sarebbe ancora alla Casa Bianca. Il Covid-19 lo ha sconfitto ed è il primo fattore che ha portato al 6 gennaio. Bisogna poi aggiungere che lui e i suoi seguaci non sono mai stati veri democratici. Gli elementi, insomma, erano già presenti. Sono stati amplificati da Trump e sono poi esplosi».

 

In che direzione è andata l’America nell’ultimo anno?
«Si possono descrivere due tendenze. La prima è ottimista: l’economia sta andando alla grande. C’è inflazione, certo, ma ci sono più posti di lavoro aggiunti nel primo anno della presidenza Biden, che nei quattro di Trump. Stiamo crescendo quanto o forse più velocemente della Cina, non succedeva da tempo. La tendenza pessimistica è quella alimentata dal virus. Ma anche dalla discordia civile, che ha inficiato la nostra capacità di affrontare la pandemia. I Paesi che hanno fatto bene hanno un alto livello di fiducia nelle istituzioni. Dovevamo essere i più capaci, ci siamo rivelati i peggiori».

 

Quanto sono cambiati i partiti in questo contesto?
«Il partito repubblicano è ancora schiavo di Trump, ma allo stesso tempo ci sono realtà che dimostrano come i repubblicani che cercano di mantenere le distanze possono fare bene e forse meglio. Ma non è così in altre circostanze. La mancanza di volontà a ritenere la precedente amministrazione responsabile delle azioni del 6 gennaio è preoccupante. Dall’altra parte, il partito democratico ha sempre avuto la reputazione di essere caotico e sta vivendo all’altezza della sua storia».

 

Sembra comunque che l’estrema destra non abbia intenzione di tornare nell’ombra.
«Il centro è stato svuotato. Quando c’è questo vuoto, gli estremisti ai margini competono per il potere. È una situazione malsana. A trionfare sarà il partito che si inclinerà verso il centro. Penso, poi, che in questo momento manchino grandi leader. L’amministrazione Biden è riuscita a far passare alcune leggi davvero significative che stanno aiutando la società, non ottenendo però molto credito. Non ottenere credito è un fallimento della leadership. La gente percepisce Biden come una persona perbene ma inefficace. Certo un leader può sorgere dal nulla, come è accaduto con Obama. Infine, non si può giocare con forze come QAnon e i vari complottisti. Bisogna affrontarli e sconfiggerli. La diffusione di queste idee irrazionali sta lacerando la società».

 

Come verrà ricordato il 6 gennaio sui libri di storia? Cosa ha significato per gli Stati Uniti?
«Diciamo subito che essere sopravvissuti è stato un trionfo del sistema. La sua solidità è dimostrata dal fatto che anche i giudici repubblicani e i funzionari negli Stati contestati hanno difeso la democrazia. Piuttosto, però, dovremmo chiederci: è finita o è l’inizio? Se è finita, allora sarà una terribile macchia che il Paese è stato in grado di affrontare. Ma il 6 gennaio potrebbe essere come Fort Sumter, il colpo che ha dato inizio alla guerra civile… Non avremo una prospettiva chiara se non fino alle prossime elezioni presidenziali, quando ci sarà un vero referendum su che tipo di nazione vogliamo essere. La storia dovrà aspettare il 2024».

 

Sembra che Trump e Biden siano pronti a ricandidarsi.
«Personalmente vorrei si facesse tabula rasa in entrambi i partiti. Potrebbero esserci candidati che non sono al potere in questo momento. Non credo che saranno Trump o Biden, il Paese è stanco di uomini anziani. Ma neppure Mike Pence o Kamala Harris. Secondo me, avremo facce nuove e sarà un’esperienza terapeutica. Almeno lo spero».

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