Nei sondaggi il leader della sinistra viene dato in vantaggio di oltre trenta punti sui conservatori. Grazie agli incredibili errori di Johnson e Truss certo e ad alcune scelte che hanno risolto le diatribe interne

La ricetta con cui Keir Starmer ha rilanciato i Labour inglesi

Dio salvi il Re e, tanto che è da quelle parti, dia una mano anche ai suoi sudditi.

 

Sì, perché al momento, non si capisce chi altri potrebbe salvarli, i britannici. Il loro Paese, fino a una manciata di anni fa, sembrava una potenza inarrestabile, capace di rialzarsi dopo ogni sconfitta, senza farsi abbattere da nessuna crisi, da nessuna guerra, da nessuna paura.

 

Poi qualcosa si è rotto.

 

Prima (parliamo della metà degli anni ’00) c’è stata la frattura tra i ceti operai e il New labour di Tony Blair, che ha scardinato la sinistra inglese (secondo un paradigma che, con il tempo e con varie declinazioni, si è ripetuto quasi identico anche negli Stati Uniti, in Francia e in Italia); poi c’è stata la fiducia in David Cameron, volto giovane e innovatore della destra conservatrice britannica; poi, ancora, dopo qualche anno, sgretolatosi anche il consenso di Cameron, c’è stato il rimbalzo verso il populismo iconoclasta e trumpiano: così sono arrivati il successo dell’Ukip di Nigel Farage e di Brexit. Un deragliamento che la politica inglese ha cercato di governare come ha potuto (cioè poco e male). La sinistra, affidandosi a Jeremy Corbyn, un leader segretamente favorevole a Brexit (anche se non poteva dirlo apertamente, perché alla guida di un partito europeista) che, per non restare incastrato nel dibattito sull’Europa, provò a spostarne l’attenzione sul suo programma radicale e in odor di socialismo. Il risultato, elettoralmente parlando fu però disastroso: la peggior sconfitta del Labour dal 1935: appena il 32 per cento dei consensi alle elezioni del 2019.

 

La destra invece, provò a venire a capo del vaso di Pandora che lei stessa aveva aperto appoggiando Brexit, prima con Theresa May (europeista che si era comunque data il compito di sciogliere il nodo dell’uscita dall’Ue nel modo più potabile possibile) e poi con Boris Johnson, leader, allo stesso tempo maldestro e carismatico, del fronte del Leave e trionfatore delle elezioni del 2019.

 

Ora, finita dopo nemmeno tre anni la leadership di Johnson, il Regno Unito si ritrova nel bel mezzo della tempesta perfetta della crisi dell’energia, con un nuovo governo (il quarto in dodici anni, una bazzecola per noi italiani, una cosa da mal di mare per gli inglesi, abituati a governi lunghi e stabili), guidato da una nuova leader che nessuno conosce e di cui nessuno, davvero, si fida.

 

La leader scelta (piuttosto a sorpresa) dal partito dei Tory per guidare il Paese fuori dai marosi di questa crisi è stata Liz Truss, ex ministro degli Esteri di Boris Johnson, e (purtroppo) personaggio noto più per le sue gaffes che per la sua incisività in politica. Per questo, quando si è insediata, il mondo, il Regno Unito e il suo stesso partito, la guardavano con grande cautela e malcelata diffidenza. I sondaggi di popolarità, del resto, la davano a livelli infimi: appena il 12 per cento degli inglesi diceva di averne una buona opinione. Poi, dopo poche ore l’avvio ufficiale del suo governo, il mondo intero degli inglesi è crollato, travolto dalla morte (quasi inconcepibile) di Elisabetta II: erano più di 70 anni che il Regno non si trovava alle prese con la morte di un sovrano; erano più di 70 anni che il Regno non si trovava privo della guida, formale sì ma, perciò stesso, sostanziale, della Regina più longeva e popolare della sua lunga storia. Così per dieci giorni gli occhi dei britannici e del mondo hanno guardato a Buckingham Palace e non a Downing Street.

Liz Truss

All’indomani dei solenni funerali, però, la realtà si è fatta ritrovare esattamente lì dove la Regina l’aveva lasciata: il Regno era ancora alle prese con una crisi enorme e, per giunta, a guidarlo c’era una leader confusa e senza seguito che, al suo esordio esecutivo, dopo i giorni del lutto, ha ben pensato di lanciare una sua modifica della legge di bilancio, basata su un corposo taglio delle tasse in deficit. In teoria, la decisione, avrebbe dovuto portare in alcuni mesi al rilancio dell’economia. In pratica ha portato in poche ore a un tracollo della sterlina, al panico sui mercati, al disdoro dell’Fmi e al massimo storico dei titoli di stato Gilt inglesi dai tempi della crisi del 2008. Insomma un disastro. Un disastro così disastroso che dopo appena una settimana, e dopo aver difeso a spada tratta la sua legge di “mini budget” Truss, lo scorso lunedì, ha dovuto rimangiarsi tutto e cancellare il suo piano.

 

Una disfatta, economica ma soprattutto politica, le cui conseguenze sono difficili da prevedere (la maggioranza Truss cadrà? Il suo sarà il governo più breve della storia d’Inghilterra? Un nuovo avvicendamento alla guida della maggioranza Tory porterà a elezioni anticipate?) ma che hanno già portato un effetto forte e chiaro: l’impennata nei sondaggi del partito laburista. In realtà, la crescita del Labour non è da attribuire solo alla pessima guida di Liz Truss e (seppur in maniera diversa) di Boris Johnson. Il partito della sinistra inglese gode di buona salute nei sondaggi da almeno un anno. Partiti dal minimo storico racimolato nel 2019 da Jeremy Corbyn (popolarissimo tra le fila della sinistra più radicale, inviso a tutti gli altri), i laburisti, dopo quella sconfitta hanno fatto un duro e capillare lavoro di rifondazione, dalle basi. (Se qualcuno del Pd ci legge, prenda appunti).

 

L’elezione a leader dell’avvocato Sir Keir Starmer è coincisa con una ricostruzione del partito e con un sapiente lavoro di ricucitura delle sue due anime: da un lato i sindacati e l’ala corbiniana del partito (detta “Momentum”); dall’altro gli eredi della stagione vittoriosa, ma centrista, del blairismo.

 

Starmer che per storia personale si collocherebbe in teoria dal lato blairiano della barricata, ha saputo tenere insieme le cose. Ha saputo mostrarsi credibile a entrambe le ali del partito. Si è mostrato come un leader laburista, e non come un leader corbinista o blairiano.

 

Lo ha fatto in vari modi: prima di tutto ha chiuso una volta per tutte l’eterno dibattito su Brexit dicendo ai suoi e a chiunque volesse ascoltare che, piacesse o no, Brexit ormai era cosa fatta e la sfida era farla funzionare dal momento che che il tempo per discuterne era ampiamente scaduto. Poi ha rinnegato gli aspetti più muscolari e mercatisti del blairismo, aprendo alla necessità di sostenere la sanità pubblica e la transizione verde. Infine ha chiuso i conti con gli aspetti più tossici e respingenti del corbynismo, da più parti tacciato di populismo e di antisemitismo. Tre operazioni che sono servite soprattutto a una cosa: disinnescare le faide interne per costruire un partito compatto e credibile. «Troppi dei nostri membri e sostenitori pensano che vincere una discussione interna al partito laburista equivalga a cambiare il mondo», ha dichiarato a Financial Times: «Ma non è così. Dobbiamo diventare reali».

 

Così, una volta riuscito nell’impresa (piuttosto ardua, in realtà) di tagliare le ali estreme del partito e di serrare le fila attorno all’idea di un programma che non sia tanto identitario quanto credibile e utile agli inglesi, Starmer ha preso la sua scalata, lenta ma inesorabile, nei sondaggi. Partito da un quasi incolmabile divario 44/32 per cento a tutto vantaggio dei Tory, Starmer ha messo insieme il suo nuovo consenso punto dopo punto, fino ad arrivare, oggi, a un vantaggio monstre che alcuni (la quotata agenzia inglese YouGov) quantificano in addirittura 33 punti: 54 a 21 per cento.

 

Certo, Starmer non ha fatto tutto da solo: una grossa mano gliel’hanno dato sia l’insipienza pasticciona di Boris Johnson sia la protervia disastrosa di Liz Truss (dei 30 punti di vantaggio, dieci sono arrivati solo nell’ultimo mese). Ma il principale merito di Starmer è stato quello di farsi trovare pronto nel momento in cui, finalmente, il vento è girato. Ha usato i mesi a sua disposizione per lenire le ferite di un partito diviso, per eliminarne le bizze in odor di socialismo o di liberismo, entrambe respingenti per l’elettorato, per far digerire ai suoi il boccone amaro di Brexit e parlare d’altro. Per mettere in piedi un partito adulto, insomma, che ha fatto i conti con il passato, che ha espiato le sue colpe e che è pronto, di nuovo, a governare. Certo, da qui alle elezioni manca un’epoca. Il prossimo voto, a meno di colpi di scena, è previsto per la fine del 2024 e in un anno e mezzo le cose fanno in tempo a cambiare altre cento volte. Ma Starmer, a differenza di chi lo ha preceduto, potrebbe presentarsi alle elezioni rappresentando non solo la sua corrente, ma un partito intero. Un vantaggio non da poco.

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