Cinque militanti di ultradestra sono alla sbarra per cospirazione. Secondo l’accusa, il 6 gennaio 2021 si sfiorò un colpo di stato che era pianificato da due mesi. Per la difesa erano armati solo per difendersi. Il verdetto forse aiuterà a capire le dinamiche di quel giorno

Pochi giorni fa, a Washington, si è aperto il processo a cinque esponenti del gruppo di estrema destra americana Oath Keepers: Stewart Rhodes (fondatore del gruppo nel 2009 e suo leader indiscusso), Kelly Meggs e Kenneth Harrelson (responsabili del “capitolo” della Florida), Jessica Watkins (responsabile del “capitolo” dell’Ohio) e Thomas Caldwell (responsabile di aver pianificato la «forza di reazione rapida», del gruppo). Tutti loro sono coinvolti (a vario titolo) nella rivolta del 6 gennaio 2021.

 

L’accusa per loro è pesantissima «cospirazione sediziosa». In buona sostanza li si accusa di aver pianificato e progettato il sovvertimento violento delle leggi del Paese e del governo. Se verranno ritenuti colpevoli la condanna potrebbe essere a vent’anni. Ma oltre al loro destino i giurati del tribunale di Washington dovranno decidere un’altra cosa: il modo in cui i libri di storia dovranno considerare i fatti del 6 gennaio 2021. A quasi due anni da quelle ore surreali e drammatiche (morirono 5 persone), infatti, nessuno ha ancora capito con precisione cosa sia successo.

 

I fatti sono noti, trasmessi in diretta in tutto il mondo: tutti abbiamo visto i rivoltosi scalare le pareti del Parlamento, sfondare porte e finestre, invadere, saccheggiare e vandalizzare i corridoi, gli uffici e l’aula del Campidoglio, tutti abbiamo visto le bandiere confederate entrare lì dove non erano mai entrate. Quello che è successo si sa. Quello che non si sa, però, è come maneggiare questa informazione. Cosa sono state quelle ore di delirio? La mattana di una folla che si era lasciata prendere la mano? Un’ordalia di esaltati? Oppure un vero tentativo di colpo di stato, organizzato, preparato, pianificato?

 

La risposta a questa domanda passa anche dal processo ai cinque Oath Keepers (letteralmente i «custodi del giuramento», dove per «giuramento» si intende quello di difendere la Costituzione).

Se i cinque saranno condannati per «cospirazione sediziosa», allora, automaticamente, vorrà dire che una pianificazione c’è stata e che quello era, nei fatti, un tentato golpe, fallito solo per ragioni di scarsa organizzazione. Se, invece, i cinque saranno mandati assolti, di fatto, a essere assolta sarà l’intera rivolta, che automaticamente sarà derubricata a colossale incidente.

 

In questi primi giorni di processo (la cui fine è prevista per dicembre/gennaio prossimi) l’accusa, guidata dal sostituto procuratore Jeffrey S. Nestler, ha portato alcune prime prove del fatto che da almeno due mesi, cioè praticamente dal giorno dopo le elezioni, quando si stava ancora contando ma la direzione del vento a favore di Joe Biden era chiara, il gruppo degli Oath Keepers aveva iniziato a disegnare strade armate per impedire l’insediamento del nuovo Presidente.

 

A dimostrarlo ci sono svariati messaggi chat inviati dal leader e fondatore Rhodes ai suoi collaboratori con parole esplicite come «Non ce la faremo senza una guerra civile». Il 7 novembre, il giorno nel quale i conteggi sono finiti e Cnn ha proclamato Biden vincitore, Rhodes ha inivato un messaggio a Roger Stone, amico e confidente di Donald Trump, col quale gli chiede: «Qual è il piano? Dobbiamo partire al più presto». A quel messaggio non è chiaro (ma è oggetto di indagine) se Stone abbia mai risposto e come, ma sta di fatto che da quel momento in poi un piano ha iniziato a esistere. Se Trump e altri della sua cerchia ristretta ne fossero a conoscenza o in qualche modo coinvolti, ancora, è cosa che non si sa e, se mai dovesse sapersi, sarà questione da dibattere in altri processi e altre aule.

 

Per ora si dibatte di quel che si sa (e che la stessa difesa degli imputati non ha cercato né di negare né di ritrattare) cioè cosa hanno fatto Rhodes e i suoi dal 7 novembre al 6 gennaio.

 

Decine di messaggi chat sono stati trasmessi sui loro canali, con toni e temi uguali al primo. Messaggi che parlavano esplicitamente della necessità e della inevitabilità di una rivolta armata. Altri che parlavano del fatto che Trump avrebbe di certo invocato l’Insurrection Act, una legge speciale che il Presidente può attivare per dispiegare l’esercito nel caso in cui ritenga che la Costituzione sia in pericolo. Solo che, è agli atti, Trump non ha mai invocato nessun Insurrection Act, e man mano che i giorni passavano e i suoi sostenitori-adepti vedevano che il loro presidente-beniamino non agiva, l’idea divenne di comportarsi come se il Presidente lo avesse fatto o stesse per farlo.

 

Da qui la necessità di avere un piano. Un piano che è effettivamente esistito e le cui prime fasi sono consistite in numerosi viaggi dei leader dei “Custodi” a Washington, per studiare il perimetro del Parlamento, le possibili vie di accesso e fuga dal “mall” (il lunghissimo corridoio alberato che conduce al Campidoglio), per appuntarsene possibili fragilità e vulnerabilità. Non solo, sempre in quelle prime settimane sembra che un ingente quantitativo di armi sia stato portato via acqua, attraverso il fiume Potomac, così da evitare controlli, nei pressi della capitale e depositato nella camera di un Comfort Inn in Virginia, Stato che ha leggi più favorevoli al possesso delle armi, di quelle di Washington, ma il cui confine è a pochi minuti di macchina dal centro della Capitale.

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Mentre tutto questo veniva pianificato, secondo l’accusa, Rhodes e i suoi organizzavano incontri e riunioni con le quali incoraggiare il gruppo alla rivolta e esortarlo a tenersi pronto. A una di queste riunioni era presente anche un sincero sostenitore del gruppo, Abdullah Rasheed, un veterano del Corpo dei Marines che da tempo aveva aderito al “capitolo” del West Virginia. Rasheed ha lasciato gli Oath Keepers dopo quella riunione ed è ricomparso in aula in veste di testimone dell’accusa.

 

Nel suo racconto, Rasheed ha detto di aver preso parte alla riunione in video convocata per il 9 novembre e che, circa un quarto d’ora dopo l’inizio dell’incontro, quello che stava sentendo lo ha così turbato da pensare di registrarlo di nascosto e di avvertire le autorità (che però hanno ignorato per mesi la sua segnalazione, ricontattandolo solo nella primavera del 2021).

 

«Quello che dicevano era quello che mi aspettavo di sentire», ha raccontato Rasheed in aula: «Le solite cose: Biden cattivo, Trump buono. Ok. Ma più ascoltavo più sembrava che stessimo andando in guerra contro il governo degli Stati Uniti. Cose come “Prenderemo la Casa Bianca”, “Portate le armi”, “Usate tubi di piombo come bastoni reggi bandiera”». Una testimonianza dello stesso tenore è arrivata da John Zimmerman, del “capitolo” della Carolina del Nord che, come Rasheed, dopo quelle riunioni di pianificazione, ha lasciato il gruppo, ritenendolo troppo (e troppo inutilmente) violento, intenzionato com’era a provocare i sostenitori di Biden così da essere legittimati a reagire.

 

E proprio sulla parola «reagire» si regge, almeno fin qui, l’intero impianto della difesa degli Oath Keepers. Secondo i difensori, quel giorno, gli imputati non hanno avuto un ruolo diverso da quello delle altre migliaia di persone che hanno fatto irruzione al Campidoglio e, dunque, non possono essere accusati di altro che di distruzione di beni federali o di generici disordini. Niente altro. E a dimostrarlo, secondo gli avvocati, ci sarebbe il fatto che, alla fine dei conti, niente altro è successo. Secondo il collegio di difesa il fatto che una delle imputate avesse scritto poco prima di entrare nei corridoi del Parlamento «Pelosi sarà la prima» o che un altro imputato avesse mandato un messaggio nel quale diceva «se avessi avuto un fucile avrei ucciso almeno 100 deputati», non siano altro che parole al vento, dal momento che niente di tutto questo si è effettivamente verificato.

 

E quanto alle armi, anche la loro rilevanza sarebbe minima, dal momento che non sono mai uscite dalla camera d’hotel dove erano state stipate. Gli Oath Keepers, in buona sostanza, secondo la difesa, non avevano nessuna intenzione di agire e attaccare, ma solo di rispondere e reagire se le cose si fossero messe male (o se Trump si fosse deciso a dargli retta e a promulgare l’Insurrection Act).

 

A dimostrarlo ci sarebbe l’acronimo stesso della loro operazione a Washington Qrf “Quick reaction force”: «Reazione, non azione», ha tuonato in aula uno dei loro avvocati. Così da quello che i giurati risponderanno alla domanda «si preparavano alla reazione o all’azione?» passa anche la risposta all’altra e più importante domanda: «Scampagnata finita male o tentato golpe?».