Reportage

La Bosnia Erzegovina è un Paese prigioniero del suo passato

di Elena Kaniadakis   17 ottobre 2022

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Lo Stato balcanico è candidato a entrare nell’Unione Europea, ma registra un calo demografico da record. E mentre si dibatte tra spinte etniche e minaccia secessionista, le ultime elezioni sono state funestate dall’accusa di brogli

Basta allontanarsi di pochi passi dagli edifici del governo della Republika Srpska, una delle due entità in cui è divisa la Bosnia Erzegovina, nella città di Banja Luka, per imbattersi nel murales di Ratko Mladić. Accanto al disegno del generale condannato per crimini di guerra una scritta recita: «L’unificazione è iniziata e non può essere fermata». Tre milioni di cittadini sono stati chiamati alle urne per rinnovare le istituzioni della Bosnia Erzegovina a inizio ottobre. Nonostante il Paese abbia lanciato dei segnali di cambiamento premiando alcune forze civiche, più di un episodio ha contribuito a offuscare la festa democratica della popolazione, ostaggio della peggiore crisi politica dalla fine della guerra del 1992-95. Nella Republika Srpska è stato annunciato il riconteggio dei voti per il sospetto di brogli elettorali che avrebbero favorito al governo il nazionalista Milorad Dodik, contro la rivale Jelena Trivić del Partito del progresso democratico. Sostenitore di una Republika Srpska indipendente dalla Bosnia, Dodik è il punto di riferimento di Putin e Orbán in quella che, a distanza di quasi 110 anni dal fatidico sparo a Sarajevo, rimane l’area geopolitica più instabile d’Europa.

 

Una firma apposta nella base militare americana di Dayton, in Ohio, nel 1995, aveva messo la parola fine a una guerra civile costata oltre 100mila vittime, combattuta tra la popolazione di etnia serba, croata e bosgnacca. Un accordo necessario per interrompere i combattimenti, ma inadatto a favorire lo sviluppo del Paese in tempo di pace.

L’amministrazione dello Stato della Bosnia Erzegovina, suddiviso in due entità, la Republika Srpska, abitata in prevalenza da cittadini di etnia serba, e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, popolata da croati e bosgnacchi (bosniaci musulmani), si basa su un sistema fortemente decentrato, la cui presidenza è composta da tre membri, a rappresentanza dei tre popoli costitutivi del Paese; ognuna delle due entità ha poi un proprio governo.

 

Per la prima volta, due su tre dei presidenti eletti appartengono a partiti progressisti di stampo civico e non etno-nazionalista, ma a livello parlamentare si sono imposti i tre partiti tradizionali che da tempo monopolizzano l’agenda del Paese proponendosi come gli unici garanti degli interessi etnici.

 

Con le sue bandiere serbe a ornamento dei palazzi e la monumentale chiesa ortodossa in costruzione dedicata alla dinastia Romanov, in omaggio all’amicizia con il popolo russo, Banja Luka è considerata il cuore del nazionalismo serbo nella Bosnia Erzegovina. Il suo leader, Milorad Dodik, cresciuto a nord della città, iniziato alla politica durante il tramonto della Repubblica socialista jugoslava, e conosciuto oggi per affermazioni come «sono un serbo, la Bosnia è solo il posto dove ho il mio impiego di lavoro» domina da più di dieci anni la scena politica. Nel gennaio scorso il suo annuncio di voler dare vita a istituzioni indipendenti dalla Bosnia, come un esercito e un’Autorità del farmaco, in preparazione di una possibile secessione, ha destato l’allarme dell’Alto rappresentante internazionale Christian Schmidt, incaricato di vigilare da Sarajevo sull’osservanza degli accordi di Dayton. Poi, dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il Parlamento della Republika Srpska ha approvato la sospensione del progetto, per evitare di complicare la «posizione geopolitica» dell’entità «in un momento delicato».

 

«Negli ultimi mesi Dodik è stato più cauto nell’evocare la secessione», spiega l’analista politico Srecko Latal, convinto di come lo stop al processo sia stato favorito dal governo dello Stato serbo, impegnato a non scontentare Mosca e l’Unione europea allo stesso tempo. Le sorti di Banja Luka sono infatti legate a doppio filo con quelle di Belgrado: ad unire Dodik al presidente dello Stato serbo Aleksandar Vučić, oltre all’ideale di un popolo serbo riunito sotto un’unica bandiera, è la storica amicizia con la Russia. Nel suo ultimo incontro con Putin a Mosca, il 20 settembre scorso, Dodik ha espresso il proprio sostegno ai referendum separatisti in Ucraina e ha ottenuto il gas a prezzi di favore, ma si è anche speso per avere l’appoggio russo, nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, al prolungamento in Bosnia della missione di peacekeeping Eufor, guidata dall’Unione europea. «L’ipotesi di una secessione rimane valida, ma non è l’unico problema della Bosnia. I blocchi etnici nel loro insieme hanno rispolverato la retorica guerrafondaia e alimentano la crisi politica», sostiene Latal. L’estate scorsa, nella città di Mostar, capitale de facto dei croati bosniaci, il cimitero dedicato ai partigiani jugoslavi della Seconda guerra mondiale è stato devastato. In una notte le 600 steli a guardia di una nazione fondata sul multiculturalismo sono state ridotte in frantumi da ignoti nostalgici degli Ustascia, il movimento fascista croato.

 

Poi, nella notte elettorale del 2 ottobre, i seggi erano stati appena chiusi quando l’Alto rappresentante Schmidt ha imposto una modifica della legge elettorale. Una misura invocata per garantire maggiore stabilità al Paese, ma criticata da ampia parte della società bosniaca, che accusa Schmidt di avere ceduto alle pressioni dei nazionalisti per garantire ai bosniaci croati (numericamente inferiori ai bosgnacchi) maggiore rappresentanza. Il governo della Republika Srpska invece non riconosce la figura dell’Alto rappresentante, previsto dagli accordi di Dayton e, secondo Dodik, espressione di un’ingerenza che ha fatto della Bosnia «l’ultima colonia d’Europa».

Al termine della guerra civile, molti nomi delle strade di Banja Luka sono stati modificati per affermare l’identità serba. I minareti delle sedici moschee, distrutte durante il conflitto, sono tornati invece a puntellare il cielo sopra la città. «I politici evocano lo spettro della secessione per fare propaganda, ma qui serbi e bosgnacchi vivono in pace», racconta Muamer Okanović, imam della moschea Ferhadija, risalente al sedicesimo secolo, fatta saltare in aria con l’esplosivo e rinata oggi grazie ai finanziamenti della Turchia. Okanović, nato nel ’92, appartiene alla generazione di bosniaci che della guerra non ha ricordi, pur avendone ereditato i traumi. «I miei coetanei si sentono imprigionati in uno Stato immobile, e sono i più inclini a subire il fascino dei nazionalismi, perché non ne hanno vissuto gli orrori». Ciò che invece sembra immune dalle divisioni etniche è la corruzione che stritola il Paese. «Molti partiti considerano le casse statali come un salvadanaio privato», racconta Ivana Korajlić della Ong Transparency International, con sede a Banja Luka. «Per Dodik creare delle istituzioni indipendenti significa avere un controllo più diretto su quelle risorse».

 

Piazza Krajina, la più importante di Banja Luka, nel 2018 ospitò l’ultima grande ondata di proteste contro il governo giudicato corrotto e colluso con le mafie locali: da allora tanti manifestanti sono emigrati, in fuga da un Paese «in perenne shock post-traumatico», come lo definisce Vesna Malesević, attivista che con i membri del centro culturale Unsa Geto, in una ex fabbrica di carta a Banja Luka, ha organizzato eventi per esortare i giovani al voto. «La narrazione del governo è che siamo protetti dall’amicizia con la Russia, ma la realtà è molto diversa: l’inflazione ha toccato il 17 per cento e la disoccupazione giovanile è tra le più alte d’Europa».

 

Il saccheggio delle risorse pubbliche e l’immobilismo politico rischiano di trasformare il Paese in un luogo senza futuro, cristallizzato nel racconto del proprio passato. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, la Bosnia Erzegovina è il Paese con il calo demografico più netto al mondo: dal 2013 a oggi, mezzo milione di cittadini ha comprato un biglietto di sola andata per mete come la Germania e la Slovenia. Il dibattito degli ultimi mesi è stato incentrato sul rischio di un nuovo conflitto e non sembra destinato a cambiare, anche se Dodik venisse sconfitto. La sua rivale Jelena Trivić si è distinta per posizioni altrettanto nazionaliste e il murales che a Banja Luka inneggia alla secessione, per ora, rimane nitido sotto alla pioggia.