Un gruppo abitazioni palestinesi rivendicate da coloni israeliani. Ma molti denunciano: vogliono costruire un nuovo quartiere per ricchi ed espellere la popolazione attuale

L’appuntamento è quello di ogni venerdì, da più di dieci anni. Su un marciapiede attivisti israeliani e internazionali, dietro lo striscione ‘’#SaveSheikJarrah”, su quello di fronte coloni israeliani. Entrambi i gruppi hanno bandiere e megafoni, fischietti, e si filmano a vicenda coprendosi di insulti.

 

Benvenuti in un qualunque venerdì a Sheik Jarrah, sobborgo di Gerusalemme Est. Zona palestinese, secondo gli accordi del 1948, ma sotto occupazione militare dal 1967. A guardarsi attorno, circondati dalle baracche fatiscenti che 25 famiglie arabe sotto sfratto difendono da anni, sostenute da una campagna internazionale, viene da chiedersi cosa ci sia da proteggere. Eppure la zona è militarizzata, due militari israeliani sbucano tra i vicoli formati dalle casette, chiedendo i documenti.

Nella primavera del 2021, all’improvviso, si era tornati a parlare di Sheik Jarrah: un colono di quelli che hanno occupato le case vicine ai palestinesi aveva accusato gli arabi di aver dato fuoco alla sua macchina. Scontri e assalti alle case palestinesi, il deputato israeliano di estrema destra Itamar Ben Gvir che soffia sul fuoco e pianta una tenda che gli farà da ufficio nel cortile di una delle case palestinesi, la tensione che cresce, fino a scatenare reazioni in tutta la Cisgiordania e nella Striscia di Gaza. Poi di nuovo la solita routine di pressioni e umiliazioni quotidiane, resistenze e accuse reciproche.

 

La storia inizia tempo fa: un movimento di coloni ultraortodossi - Nahalat Shimon - rivendica la proprietà delle case che le famiglie palestinesi abitano dalla fine della Seconda Guerra mondiale, con certificati di proprietà riconosciuti dalle autorità giordane che avevano il controllo di questa zona fino all’occupazione israeliana del 1967. A motivarli, oltre alla rivendicazione delle terre, la presenza della tomba del rabbino Shim’on HaTsadik (così molti israeliani ed ebrei chiamano il quartiere di Sheikh Jarrah). Ma lo scenario sembra molto più complesso dell’ennesima operazione di esproprio alla quale si oppongono i circa 330mila palestinesi di Gerusalemme Est.

 

«Basta voler vedere. A Sheikh Jarrah bisogna solo guardarsi attorno per rendersi conto che quelle 25 famiglie sono un ostacolo all’ennesima, immensa, speculazione edilizia».

 

Non ha dubbi Ronit Levine-Schnur, docente presso la Harry Radzyner Law School e ricercatrice associata presso il G-City Institute for Real Estate dell’Università Reichman. Avvocata, urbanista ed esperta di diritto immobiliare e di uso del suolo. Nessuno meglio di lei poteva essere la consulente del team legale palestinese che difende le famiglie sotto sfratto. Anche se ha pagato un prezzo alto, perché è israeliana. 

 

«Il business potenziale su quell’area è enorme e basta guardare per vedere che è tutto un cantiere. Il conflitto, qui, si nutre di bugie e manipolazioni. Gli stessi coloni, con il loro fanatismo, sono burattini nelle mani di interessi molto più grandi di loro. Gli viene lasciato il lavoro sporco e quando avranno queste terre vedranno sorgere palazzi con case e uffici che non potranno permettersi. Qui a Sheikh Jarrah non si combatte solo per salvaguardare la memoria dell’identità araba di questa città, ma anche per il futuro, perché Gerusalemme Ovest è ormai satura e la parte orientale della città è l’ultimo grande boccone del settore immobiliare. Ormai la guerra non fa più paura, ormai Israele ha il controllo: i fondi di investimento sanno che il valore di mercato di Gerusalemme, con il suo simbolismo, è unico al mondo». Per ora la situazione è congelata all’ultima decisione della Corte Suprema israeliana del 1 marzo 2022. Le famiglie palestinesi saranno considerate “affittuari protetti” e dovranno pagare un affitto simbolico a un’organizzazione di coloni ebrei fino a quando la questione non sarà definitivamente risolta. «Il problema resta, ma faremo quel che possiamo», dice Levine-Schnur, mentre un colono la insulta e la chiama traditrice e amica dei terroristi.

Una casa a Gerusalemme può arrivare a costare fino a 11mila euro al metro quadrato. Tanta domanda, poca offerta, e il fatto che circa l’80% delle terre disponibili sono di proprietà statale e questo comporta un’asta che fa salire il prezzo. Guardando Gerusalemme Est, in condizioni abitative molto complesse, si potrebbe far fatica a capire questi prezzi. Clara Capelli, economista dello sviluppo, vive da anni a Gerusalemme Est. «Se si pensa alla “rigenerazione” di Gerusalemme Est, dove non si hanno permessi di costruzione nonostante la pressione demografica, il caso di New Gate è interessante. Ora è uno spazio vetrina, a cinque minuti da Damascus Gate, zona molto più popolare, ma la differenza è impressionante. Anche in termini di servizi di pulizia e raccolta rifiuti la frequenza è diversa. L’idea è quella di mettere “a valore” secondo logiche capitalistiche alcune parti della città, mentre le altre vengono spinte sempre di più verso il margine, non fornendo i servizi essenziali». Lo stesso meccanismo di voluto abbandono della parte orientale della città lo denuncia da anni Francesco Chiodelli, professore associato del Politecnico di Torino, che sullo spazio urbano di Gerusalemme ha scritto due libri dopo anni di ricerca sul campo. «Il conflitto è anche e soprattutto una questione di possesso del suolo.

 

A Gerusalemme il conflitto è da sempre (ossia dal 1967) essenzialmente una questione di case. L’occupazione si è da subito materializzata nell’edificazione di interi quartieri residenziali per ebrei a Gerusalemme Est, più di 50mila case, che oggi ospitano più del 40% della popolazione ebraica della città, costruiti grazie al supporto pubblico. Costruendo case (solo per popolazione ebraica, naturalmente) si raggiunge un duplice obiettivo: si occupa suolo e si installa popolazione nel territorio occupato. È una sorta di versione contemporanea della guerra di trincea: passo dopo passo, giorno dopo giorno, di soppiatto, si sottrae terreno al nemico. Israele ha agito sulla città araba con un processo contrario. Le demolizioni sono la parte più vistosa e brutale di questo processo, ma non la principale. L’azione principale è stata impedire ai quartieri arabi di espandersi, attraverso una serie di espedienti tecnici di matrice urbanistica (per esempio, negando l’emissione di permessi di costruzione). A ciò si aggiunga che la Municipalità ha pervicacemente praticato una politica di “abbandono” dei quartieri arabi, evitando di costruire infrastrutture di base e servizi.

 

Così oggi si vive il paradosso che, nella città che Israele considera la propria capitale, ci sono interi quartieri in cui manca il sistema fognario o la rete idrica. E, naturalmente, si tratta di quartieri palestinesi». Un’operazione che al “lavoro” sul campo delle istituzioni, affianca il finanziamento dall’estero. Spiega Capelli: «Gerusalemme è piena di targhe di ringraziamento ai filantropi. Poi c’è la finanziarizzazione della città e dell’edilizia come fenomeni globali. Un asset finanziario a Gerusalemme è molto lucroso, non solo per il brand della città, ma anche perché lo spazio è limitato, una “risorsa scarsa”. Semplificando, nell’economia contemporanea i grandi profitti si fanno in finanza, rendendo tutto un prodotto finanziario per transazioni, edilizia inclusa. Ma per mantenere il volume di affari, la finanza richiede altra finanza, quindi in questo caso espansione edilizia. In uno spazio limitato, ci si deve espandere dove si individua “spazio aggiuntivo”, ossia Gerusalemme Est, applicando quindi anche una logica coloniale.

Su Sheikh Jarrah insiste il progetto Silicon Wadi, che mira nel lungo periodo a creare un polo tecnologico tra Sheikh Jarrah e Wadi al-Joz. Gli argomenti a favore sono sempre gli stessi: si “riqualificano” quartieri percepiti come degradati, si creano posti di lavoro, si attraggono persone con potere d’acquisto maggiore, turisti o ricchi residenti».

Conclude Chiodelli: «Israele estrae risorse ingenti dai territori che occupa e dalla popolazione che controlla. A Gerusalemme questo sfruttamento economico assume anche la forma della rendita immobiliare. Israele ha un mercato immobiliare da anni fuori controllo, con prezzi costantemente in vertiginosa ascesa (che causarono proteste di massa in Israele nel luglio 2011). Il prezzo medio di un’abitazione a Tel Aviv è oggi superiore a un milione di euro. A Gerusalemme la situazione è un poco migliore, con prezzi medi di poco inferiori ai 700mila euro. L’aumento dei prezzi delle abitazioni nell’ultimo anno è stato del 15% circa. In questo quadro, lo sviluppo immobiliare è un settore incredibilmente redditizio. Ciò vale naturalmente tanto per Gerusalemme Est quanto per Gerusalemme Ovest.

 

Tuttavia una quota rilevante delle aree di nuova espansione residenziale identificate dalla Municipalità di Gerusalemme è localizzata, guarda caso, proprio a Gerusalemme Est. La necessità del governo di intervenire promuovendo l’edificazione di abitazioni a prezzi calmierati (nell’ottobre 2021 il governo ha annunciato un piano per la costruzione di 280mila abitazioni entro il 2025), diventa un’occasione per lanciare nuovi progetti di edificazione ebraica a Gerusalemme Est. Ancora una volta la colonizzazione assume le vesti di una politica urbana che, sulla carta, non ha matrice geopolitica, ma che, nei fatti, prosegue il processo di ebraizzazione e de-arabizzazione della città».

Inizia a piovere, la manifestazione è finita, si arrotolano gli striscioni e si sciama lanciandosi minacce e gli ultimi insulti, fino al prossimo venerdì.