Come i sovietici nel 1979, lo zar ha sottovalutato la resistenza degli aggrediti e la reazione degli Stati Uniti. Ora è in una situazione di stallo, mentre il conflitto rischia di durare a lungo

L’Ucraina è ormai l’Afghanistan di Vladimir Putin

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Due domande chiave dominano il dibattito sulla guerra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina poco più di sette mesi fa. Come finirà? Perché l’ha iniziata?

 

La seconda domanda è più facile da affrontare della prima, anche se non ha necessariamente risposte semplici. È importante tentare, tuttavia, perché se non capiamo perché Putin abbia ordinato l’invasione e ciò che sperava di ottenere, diventa molto più difficile valutare come si arriverà alla fine del conflitto.

 

In Occidente, il consenso sulle ragioni dell’invasione russa è solo parziale, e lo stesso Putin ha suggerito varie spiegazioni contrastanti. Gli obiettivi dell’invasione restano incredibilmente vaghi. Ciò che alla fine ogni parte deciderà di concedere per concludere il conflitto dipenderà dalla situazione sul campo di battaglia.

 

Ciò detto, Putin aveva chiaramente due distinte serie di criteri nel decidere di lanciare la guerra. Uno riguarda l’Ucraina in quanto tale, l’altro ha a che fare con gli Stati Uniti e con il ruolo dominante che essi svolgono in Europa.

 

Putin è fissato con l’Ucraina fin dalla metà degli anni ’90, se non addirittura da prima. L’indipendenza ucraina, a suo vedere, è stata fasulla dall’inizio. Negli ultimi venti anni, la sua rabbia è solo aumentata. Ci sono stati litigi continui sul debito relativo al petrolio e al gas. La Rivoluzione arancione nel 2003, che i russi ritengono sia stata incoraggiata dagli Usa, portò all’espulsione del governante filo-russo e alla sua sostituzione con una figura pro-occidente. Quattro anni più tardi, la Nato annunciava che l’Ucraina sarebbe diventata un suo membro, superando così quella che l’ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca, Bill Burns, definì allora «la più rossa delle linee rosse della Russia». Seguirono la rivolta di Maidan, l’annessione della Crimea e il conflitto nel Donbas.

 

Su questo sfondo, l’invasione dell’Ucraina può essere vista come il seguito logico di quanto accaduto prima: un gioco di potere postcoloniale nel quale la Russia tenta di preservare il suo ruolo imperiale di leader del “mondo russo” dopo che l’Unione Sovietica, il suo “impero”, è crollato.

 

Questo è stato certamente uno dei fattori della decisione di Putin. Tuttavia, anche il momento ha avuto un suo peso. Putin sta per compiere 70 anni. Da quando ha iniziato il suo quarto mandato nel 2018, si è trastullato con l’idea di dare avvio a una transizione politica verso la prossima generazione di dirigenti politici. Se, arrivato il momento, Putin sarà effettivamente disposto a lasciare il suo incarico e designare un successore è tutt’altra faccenda. Dal suo punto di vista, invece, sottomettere l’Ucraina o, come lui preferirebbe dire, riportarla all’ovile russo, sarebbe un risultato incoronante della sua carriera e lo rafforzerebbe notevolmente se decidesse di farsi da parte lasciando il posto a un suo pupillo.

 

Le cose sono andate diversamente.

 

Nel lanciare la sua fuorviata invasione, Putin ha contato - errore catastrofico - su tre elementi. Innanzitutto, che il governo di Zelensky abbandonasse Kiev e fuggisse in esilio, cosa che non ha fatto. Ha sottovalutato la resistenza ucraina. Ciò non vuol dire che Putin si aspettasse che l’esercito russo sarebbe stato accolto con i fiori - questo è sempre stato un mito - ma certamente non anticipava che contro di lui si alzasse una nazione in armi. Infine, ha esageratamente sopravvalutato le capacità dell’esercito russo.

Di quest’ultimo dato, può solo incolpare sé stesso. Nel 2007, il suo allora ministro della Difesa, Anatoli Serdjukov, intraprese un programma di riforma militare di vasta portata. Quattro anni dopo, tuttavia, Putin gli ordinò di fermarlo temendo che se gli ufficiali più giovani fossero stati autorizzati a prendere l’iniziativa, le Forze armate russe sarebbero diventate troppo indipendenti. Sotto il successore di Serdjukov, Sergej Shoigu, la corruzione riprese a fiorire e l’esercito tornò al vecchio e inefficace stile di forza indisciplinata, dispersa e mal equipaggiata per combattere una guerra moderna.

 

Oltre all’obiettivo di soggiogare l’Ucraina, l’invasione aveva anche ambizioni geopolitiche più vaste. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, i russi si erano mostrati euforici davanti alla prospettiva di relazioni e partenariati con l’Occidente. Gli intellettuali, in particolare, avevano immaginato una nuova era di prosperità e libertà. Quando tutto ciò non si materializzò, la popolazione russa si sentì imbrogliata. Come diceva Anatoli Sobchak, sindaco di San Pietroburgo e uomo carismatico per la sua apertura alle idee di democrazia e libertà: «L’America ha speso miliardi nella lotta contro il comunismo, eppure ora non riesce a trovare risorse per sostenere una democrazia che ha rovesciato il comunismo». L’amarezza era comprensibile. L’Occidente trascurava l’aiuto necessario. L’economia è scesa in picchiata. Far parte della maggioranza dei russi voleva dire essere povero, molto povero o indigente. Il crimine raggiunse proporzioni eccezionali. La società aveva perso ogni ammortizzatore e il paese era in ginocchio.

 

Contrariamente alle rassicurazioni date ai russi in precedenza, nel 1993 il presidente Clinton annunciò che la Nato avrebbe cominciato a espandersi verso i confini della Russia. Ancora una volta, i russi si sentirono imbrogliati.

 

Come nella Repubblica di Weimar, quando l’iperinflazione successiva alla Prima guerra mondiale spianò la strada all’ascesa di Hitler, le disillusioni degli anni ’90 hanno lasciato tracce durature tra i russi.

 

Il parallelo, tuttavia, deve finire qui, perché Putin non è Hitler. È un fatto, tuttavia, che il rancore accumulatosi durante gli anni di Eltsin prima e durante la sua presidenza dopo, sommato a una crescente convinzione che gli Stati Uniti abbiano sistematicamente ignorato gli interessi della Russia e che avrebbero continuato a farlo se non si andava a un confronto diretto con loro, hanno posto le basi per gli eventi successivi.

 

Questo potrebbe essere il più grande errore di calcolo di Putin rispetto a tutti gli altri. Se egli fallisse in Ucraina, la qual cosa inizia ad apparire possibile, seppure affatto certa, per buona parte il fallimento sarà imputabile all’avere sottovalutato la capacità degli Stati Uniti di raggruppare e tenere insieme l’alleanza occidentale.

 

Al riguardo, ci sono inquietanti parallelismi con l’invasione sovietica dell’Afghanistan nel 1979. Non solo i dirigenti russi hanno ora ripetuto gli errori commessi allora - inviando una forza di invasione troppo piccola per riuscire nel compito programmato - ma anche allora la reazione statunitense fu molto simile. Umiliati dall’occupazione dell’ambasciata Usa a Teheran da parte di militanti islamici, il presidente Carter volle mettere in chiaro che gli Stati Uniti non erano disposti a subire prepotenze.

 

Sostenere i mujahidin contro le truppe sovietiche in Afghanistan si era rivelato il modo perfetto per dimostrarlo. Nel 2021, è stato il turno degli Usa di intraprendere un ritiro caotico e umiliante dall’Afghanistan. Per l’amministrazione Biden, sostenere l’Ucraina contro la Russia è stata la risposta ideale. Il messaggio, come prima, era ora che con gli Stati Uniti non si può fare i prepotenti.

 

L’obiettivo di Putin non è stato semplicemente quello di neutralizzare l’Ucraina, ma anche di dimostrare che gli Usa non sarebbero stati in grado di prevenirlo. La relazione dell’Ucraina con la Nato è stata un pretesto, non la causa immediata.

 

Ed è proprio ciò che renderà questa guerra così difficile da concludere. Sarebbe già difficile se si trattasse soltanto di un conflitto regionale: sia Russia che Ucraina hanno tracciato linee rosse molto difficili da riconciliare. Ciò che ne verrà fuori ora è inoltre anche impigliato in una grande rivalità di potere. Se gli Usa non fossero in grado, o alla fine non fossero più disposti a mantenere l’attuale corso e proteggere l’integrità territoriale dell’Ucraina, danneggerebbero irrimediabilmente la propria credibilità in Europa. Paesi quali la Polonia e gli Stati Baltici, che vedono la Russia come una minaccia esistenziale, inizierebbero a dubitare delle garanzie statunitensi. La Cina, che a lungo termine è una sfida nel mondo molto maggiore per la leadership statunitense di quanto la Russia non lo sarà mai, trarrà le sue conclusioni. A Taiwan ci sarebbe da tremare.

 

In sostanza, se agli Stati Uniti occorre prevalere, lo stesso vale per Putin. Per giustificare l’invasione - e l’enorme perdita di vite umane - Putin deve almeno espandere la sua presa sul Donbas e controllare il passaggio di terra alla Crimea. L’Ucraina si trova tra l’incudine e il martello.

 

Putin pensa che anche se l’operato del suo esercito continuerà a essere insoddisfacente, il tempo sia dalla sua parte e che la determinazione occidentale vacillerà. D’altra parte, un fattore è quanto ferocemente gli ucraini continueranno a combattere, e un altro quanto terranno l’unità e la coesione occidentale. Questo a sua volta potrebbe dipendere in gran parte da quanto sarà profonda la prossima recessione globale e dall’evoluzione della politica statunitense da qui alle elezioni presidenziali nel 2024.

 

(Traduzione di Marina Parada)

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