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Mondo
dicembre, 2022

«In Iran al regime non basta togliere la vita ai dissidenti: vuole negare la loro esistenza»

Migliaia di scomparsi, la tangente sui corpi per la restituzione. Minoranze senza diritto alle identità. Ashti, curda come Mahsa: “Il destino del mio Paese vi riguarda”

La questione dell’Iran non si può ridurre a uno slogan: «Donna, vita, libertà». Perché per Ashti, giovane donna del Kurdistan iraniano arrivata in Italia quattro anni fa dove lavora come scultrice e assistente di altri artisti, «è molto di più ed è prima di tutto vita, che come dice un detto iraniano, è sulle dita delle mani», ossia si perde in un attimo per un nonnulla.

È sufficiente professare una fede diversa da quella sciita musulmana come per i curdi sunniti per esempio, che proprio per questo sono da sempre un pericolo da fermare.

Questa è una delle ragioni per cui sono messi più di tutti in condizioni di estrema povertà come i Beluci, altra etnia minore dell’Iran sud orientale, anch’essa sunnita, concentrata però nell’area del Baluchistan dove la gente vive ancora senza un documento di identità. «Al regime degli ayatollah non basta togliere la vita ai dissidenti, ma occorre negare anche la loro esistenza».

Ashti è cresciuta quando l’Iran era impegnato nella guerra contro l’Iraq, immerso in una grave crisi economica, una nazione nella quale la disoccupazione era alle stelle così come la voglia di costruirsi un futuro, ma all’estero. Non è un caso che adesso siano proprio i giovani ad avere in questo momento in mano il destino del loro Paese. «Sono ragazzi che per anni hanno vissuto chiusi in casa creandosi uno spazio lontano dalle regole severe degli ayatollah, cercando di assaporare una normalità, dando vita a feste clandestine, incontri culturali, senza preoccuparsi del velo, della separazione tra uomini e donne, dell’abito scuro o meno, in un mondo tutto loro che si erano ritagliati anche con l’aiuto del computer fino a quando una di loro è stata ammazzata per lo hijab mal messo», dice Ashti.

È stata la morte di Mahsa Amini, ragazza curda come Ashti a scatenare l’ira e l’orgoglio della gioventù iraniana che oggi si scontra con l’ultima trovata del regime: il divieto di uscire dall’Iran per i prossimi 10 – 15 anni. «Il che significa che i ragazzi non potranno più andare fuori per lavoro, costruirsi un futuro altrove, neppure lasciare l’Iran per motivi di studio», come è riuscita a fare Ashti quattro anni fa. «Adesso l’Iran è ad un punto di non ritorno e se non cambia qualcosa finirà come l’Afganistan in mano ai talebani», aggiunge.

Ashti ricorda quando era piccola di aver visto morire sotto i proiettili della polizia il figlio dei vicini con cui era solita giocare insieme ai suoi fratelli. Crescendo capiva che per sopravvivere si sarebbe dovuta o sposare o andare via e così ha scelto di lasciare il Kurdistan per Teheran, dove ha insegnato arte. Tutto in rispettosa lingua persiana, con la veste scura e maniche lunghe come vuole l’Islam del potere. «All’ingresso dell’istituto scolastico c’era il controllo, così agli incroci delle strade». Ashti si vedeva obbligata ogni mattina a prendere un taxi tutte le volte che doveva attraversare la via che la portava al lavoro. «Due minuti in auto per evitare i controlli dei poliziotti al semaforo, che certamente avrebbero trovato da ridire ad una donna curda».

Oggi, ripensandoci ride, così come ride nel ricordare il suo fidanzato iraniano con il quale per due anni ci sono stati solo sguardi. Ride quando ricorda di essere stata arrestata perché era in auto con un collega uomo di ritorno dal lavoro. È una risata amara la sua, che svela l’assurdità del potere che rasenta il ridicolo, se non fosse per la crudeltà che le ha tolto anche le lacrime per piangere quando pensa alla sua migliore amica che non sa che fine abbia fatto. Gli account dei social network ormai sono tutti cancellati e lei non riesce a comunicare. Le ultime notizie che ha raccolto rivelano diversi amici arrestati, ma nessuno sa esattamente cosa accade in quelle celle. Ashti però ricorda quando era ancora in Iran, un suo amico uscito dal carcere dietro cauzione, che si limitò a farle vedere la sua schiena: «Era incisa da tante firme realizzate sulla pelle da una lama, un passatempo dei militari».

Per Ashti al dolore si aggiunge la colpa: sapere che amici, familiari, colleghi, ragazzi come lei, ma anche bambini si trovino in quell’inferno la fa sentire in debito. «Mi vergogno un po’ nel non provare più paura quando cammino per strada, mentre nel mio Paese si contano quasi 20mila persone arrestate, oltre 500mila uccise e non si sa quanti iraniani scomparsi». E questo, se è possibile, è il capitolo più terribile. «La scomparsa di una persona è peggio della morte». Già tre anni fa l’istituto per la società civile iraniana Tavaana parlò di corpi buttati nelle dighe, nei fiumi o nei laghi e fatti svanire per non lasciare tracce delle atrocità del regime. «Il sospetto è che a distanza di anni qualcosa di simile sia accaduto anche ad Anika Shakarami la sedicenne sparita ad ottobre scorso per dieci giorni e poi ritrovata in un obitorio con il volto completamente deformato. C’è anche chi il corpo del familiare non riesce ad averlo, non può così celebrare il funerale al proprio caro, se prima non paga alla polizia morale il diritto di proiettile. Si chiama così la tassa da versare per saldare la spesa sostenuta dai militari per uccidere “il ribelle”», racconta.

Oggi Ashti ha 37 anni, da quattro vive in Italia dove ha potuto leggere per la prima volta un libro nella sua lingua curda, cosa che in Iran era vietata. A volte le capita di guardare con invidia una famiglia che pranza al ristorante, mentre quando parla con i colleghi o si sfoga con il suo ragazzo italiano sulle piaghe del suo popolo iraniano prova rabbia quando la invitano a dimenticare o a non pensarci. «Non posso ignorare quello che accade, fa parte di me e dovrebbe appartenere a tutti. Tanto più che l’Europa manifesta contro il regime autoritario mentre sulle strade iraniane accanto a giovani cadaveri restano bossoli prodotti in Occidente». Contraddizioni.

Quando Ashti esce per le vie di Roma ha ancora il terrore di dimenticare il velo, ma poi ricorda che può finalmente sentire il vento tra i capelli, una sensazione mai provata prima. «E sì, vorrei un giorno passeggiare e sentirlo il vento tra i capelli. Ma nel mio Paese».

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