Il cappuccio nero calato sulla testa. Le catene ai piedi. Le tute arancioni. I corpi ripiegati su se stessi, stesi su brevi fazzoletti di ghiaia, a respirare quel poco d'aria concessa ai carcerati. Le immagini del carcere militare di Guantanamo, ex base navale cubana, sono indelebili. E perché mai quell’orrore dovrebbe essere archiviato fra i brutti ricordi, se a vent’anni e undici mesi dall'apertura di Guantanamo, quella prigione non è ancora stata chiusa? Persino i campi di sterminio nazisti sono stati serrati e i responsabili puniti. Invece Guantanamo, il buco nero dei diritti umani, dove è vietato guardare, dove le regole non valgono mai e dove qualsiasi pratica - specie la tortura - è lecita, continua a esistere. Addirittura nel 2018 l'allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, annunciava che Guantanamo non sarebbe mai stata chiusa e che era stato un errore rilasciare centinaia di pericolosi terroristi «per ritrovarli di nuovo nel campo di battaglia».
Delle 780 persone internate al Camp X-Ray, oggi restano 36 detenuti, pochi nel raffronto con il passato, ma sono comunque persone in attesa di un processo che probabilmente non arriverà mai: sono infatti quattordici i trattenuti a tempo indefinito che non hanno avuto alcun contatto con una qualsivoglia forma di organo giudiziario. Questo perché la giurisdizione di Guantanamo è affidata al Tribunale di guerra delle commissioni militari essendo i prigionieri definiti “enemy combatant”, cioè nemici combattenti: si tratta di persone ritenute vicine al terrorismo, catturate in Afghanistan e in Pakistan, incarcerate e fatte confessare a qualsiasi costo e con qualsiasi mezzo. Per via del livello di brutalità applicato ai detenuti, confermato da Amnesty e da molti ex prigionieri rilasciati, si è fatta strada la richiesta da parte della società civile di chiudere il gulag cubano.
Qualche promessa in tal senso è stata fatta, ma non è mai stata mantenuta. Su tutti il tentativo dell'ex presidente Barack Obama, che nella sua prima campagna elettorale promise di mettere fine a Guantanamo. Ma andò diversamente: «È una questione molto complessa», racconta l’avvocato tedesco per i diritti umani Bernard Docke, che continua: «Obama non agì abbastanza prontamente. Se lo avesse fatto subito, dopo le elezioni, cogliendo lo slancio entusiastico successivo alla sua nomina, probabilmente ce l’avrebbe fatta. Invece ha lasciato passare il tempo e dalle elezioni di midterm è uscita una maggioranza repubblicana del Congresso, che ha fatto opposizione e ha bloccato tutta una serie di provvedimenti di stampo riformista e pacifista, fra cui anche la chiusura del campo di prigionia X-Ray. Il piano di Obama è stato poi definitivamente accantonato all'indomani di una nuova escalation di attacchi terroristici e della conseguente inversione di rotta dell'opinione pubblica. D’altra parte Obama stava portando avanti alcuni progetti di politica interna, fra cui la riforma sanitaria, che gli stavano a cuore e per i quali aveva bisogno dell’approvazione dei repubblicani, per cui alcune questioni, fra cui quella di Guantanamo, sono scivolate in secondo piano e questo purtroppo è vero ancora oggi, con il presidente Biden, alle prese con una maggioranza risicata e parecchie tensioni interne soprattutto per il sostegno alla guerra in Ucraina». Joe Biden sta evitando di affrontare il problema, forse più preoccupato dalle divisioni interne - addirittura il dipartimento di Giustizia ha deciso di istituire una nuova unità per contrastare il terrorismo interno, una minaccia in ascesa dopo il violento assalto a Capitol Hill - e dall’effetto che una decisione su Guantanamo potrebbe avere sul risicato sostegno di cui gode al Congresso.
L’avvocato Bernhard Docke si occupa di Guantanamo dal 2002, cioè dalla sua creazione, e per cinque anni ha lottato contro l’amministrazione di George W. Bush nel tentativo di liberare il suo assistito, l’allora diciannovenne Murat Kurnaz, nato in Turchia ma cresciuto in Germania, nella periferia di Brema. Murat nell'ottobre del 2001 volò da Francoforte al Pakistan perché voleva frequentare le scuole del Corano e rafforzare la sua fede musulmana, proprio mentre gli americani invadevano l’Afghanistan per combattere i talebani all'indomani dell'attacco alle Torri Gemelle.
Sebbene non fosse accusato di alcun crimine, Murat venne arrestato in Pakistan e venduto per tremila dollari alle forze armate statunitensi, che lo imprigionarono a Guantanamo, un carcere dove si trova «il peggio del peggio», così definì i detenuti sull’isola l’allora vicepresidente Dick Cheney, che aggiunse: «L’unica alternativa alla creazione di Guantanamo Bay sarebbe stata uccidere direttamente i sospetti terroristi». L’edificazione di Guantanamo, a distanza di vent'anni, ha finito per intrappolare la stessa America: «I trentasei prigionieri che ancora oggi si trovano lì pongono un altro tipo di problema: loro per primi non vogliono tornare nel loro Paese d’origine dove spesso vige la pena di morte e quindi un loro rimpatrio significherebbe subire ulteriori torture, se non la morte. Dall’altra parte questi prigionieri sono considerati troppo pericolosi per essere rilasciati e troppo difficili da condannare. Ovvero, da un lato, se fossero liberati sarebbero una minaccia per l’America se non altro perché potrebbero cercare una rivincita rispetto ai torti subiti in carcere; d'altro lato, le loro confessioni, essendo state estorte con la tortura, non avrebbero alcun valore legale di fronte a un tribunale e sarebbero di fatto annullate: i carcerati verrebbero quindi liberati, ma gli Stati Uniti non possono permetterselo perché, come dicevamo, si tratta di persone troppo pericolose. In qualche modo Guantanamo è una trappola che l’America si è costruita da sola», spiega l’avvocato Bernhard Docke, che in questi giorni si trova in Italia per la presentazione del film “Una mamma contro G.W. Bush” del regista Andreas Dresen, che ha conquistato due Orsi d'argento alla Berlinale 2022.
Il film, una commedia divertente, nonostante la complessità del tema, racconta i cinque anni e mezzo di lotta di Rabiye Kurnaz, la madre di Murat, per liberare suo figlio da Guantanamo, dove ha subito torture: dall'essere costretto a ingoiare acqua fino al limite del soffocamento, all'elettroshock, a restare appeso per giorni al soffitto, al restare giorno e notte sempre con la luce accesa. Per liberarlo la madre Rabiye ha intentato una causa contro Bush davanti alla Corte Suprema. Unendosi a una class action di altri genitori di giovani incarcerati a Guantanamo e sfruttando le apparizioni televisive, Rabiye è riuscita a fare pressione sulla politica e sulla magistratura statunitensi per garantire ai prigionieri di Guantanamo il diritto di avviare un'azione legale contro la loro detenzione. La Corte Suprema si pronuncia a favore dei detenuti presentatisi in giudizio contro il governo Bush. «Eppure Guantanamo non è ancora stato chiuso. È un pensiero che mi assilla, ripenso continuamente alle persone rinchiuse e torturate, che ricevono un trattamento disumano», dice Rabiye e racconta anche il difficile percorso di riabilitazione di Murat che solo dopo molto tempo è riuscito a tornare a una vita normale. Anche la documentarista Laura Silvia Battaglia ha incontrato Murat, così come altri ex carcerati di Guantanamo: «Molti convivono con problemi di post traumatic stress disorder e dicono di dover convivere quotidianamente con l'incubo di quel lager».
La mancata chiusura di quel carcere e l’assenza di alcun pentimento da parte degli Stati Uniti rispetto all’esplicita violazione del diritto internazionale e alla privazione del diritto di “habeas corpus” ha provocato un generale declassamento dello stato del diritto in generale: «Se in Ucraina la Russia si permette di oltrepassare qualsiasi regola minima del diritto umanitario e se le norme della Convenzione di Ginevra vengono sistematicamente ignorate è anche perché G.W. Bush, dopo l’11 settembre, ha aggredito in modo così esplicito il diritto internazionale da averlo praticamente annientato ed è oggi ipocrita chiedere un qualsiasi rispetto del diritto in Ucraina, quando gli Stati Uniti continuano a violarli mantenendo aperto il carcere di Guantanamo», commenta l’avvocato Docke.