Fenomeni
La lezione di Occupy Wall Street, il movimento che ha cambiato il modo di protestare
Dieci anni dopo quel “fallimento romantico” contro gli eccessi del capitalismo, negli Stati Uniti è tornata la voglia di sindacalizzazione, scoppia il fenomeno delle dimissioni di massa e l’attivismo è vivo più che mai tra Me Too e Black Lives Matter
Alla fine di ottobre, ai piedi del municipio di New York non si sentiva più l’odore del cibo indiano, mediorientale, nordafricano, preparato nella cucina allestita dalle famiglie dei tassisti in agitazione. C’era solo acqua negli ultimi durissimi giorni della battaglia: i “taxi driver” erano in sciopero della fame.
«Giustizia, ora!», urlavano. «Potere agli autisti!» si leggeva sui cartelli. Accampati davanti a City Hall, chiedevano ragione all’allora sindaco Bill de Blasio. Immigrati, per lo più, asfissiati dai prestiti contratti per le salatissime licenze, schiacciati dalla concorrenza del ridesharing, finiti dalla pandemia. Un braccio di ferro durato sei settimane, risolto con un sostanziale sgravio del debito. Per la stampa newyorkese era stato un “Occupy Wall Street in miniatura”.
La versione 2.0, riveduta e corretta, della stagione delle proteste dell’autunno caldo del 2011, quando gli Usa facevano i conti con la terribile recessione scatenata dalla crisi dei mutui subprime, che aveva distrutto intere famiglie e minato il futuro di una generazione. Una rivoluzione iniziata in sordina a Zuccotti Park il 17 settembre di dieci anni fa nella parte meridionale di Manhattan, non lontano da Wall Street, simbolo del potere feroce del tardo capitalismo americano, ed esplosa in centinaia di altre città degli Stati Uniti.
Cinquantanove giorni in cui, pagina dopo pagina, si andava stilando il nuovo manuale dell’attivismo di base in America. A quel prontuario hanno attinto non solo la protesta dei tassisti, ma anche tutte le altre, inanellate nell’ultimo decennio: dalla battaglia per l’innalzamento del salario minimo a 15 dollari iniziata subito dopo Occupy, passando per Black Lives Matter, Me Too, la marcia delle donne contro Trump, quella contro la violenza delle armi, le manifestazioni ambientaliste e il recentissimo risveglio del movimento operaio.
Per molti Occupy fu un romantico buco nell’acqua: straordinario negli intenti, modesto nei risultati. Eppure per tanti altri è stato “l’inizio”, per dirla con le parole del giornalista californiano Michael Levitin, che sul prato di Zuccotti Park ha condiviso l’avventura dei manifestanti con il suo sacco a pelo. «Si trattò di un’entusiasmante esplosione di speranza e di rabbia», dice.
Il ricordo di quei giorni vissuti in prima linea è condensato nel suo “Generation Occupy” (edito da Counterpoint), un saggio di raccordo sull’impatto del movimento che, secondo l’autore, ha segnato una nuova era di trasformazione sociale e politica. Un periodo capace di ravvivare la cultura di protesta, di dare il la a dieci anni di movimenti per la giustizia sociale, economica, razziale e ambientale, riscrivendo l’agenda del Partito democratico. Ed effettivamente, il tema della disuguaglianza di reddito si è imposto prepotentemente dopo Occupy, diventando una questione collettiva. Il processo è continuato, accelerando in pandemia. «Ha dato una scossa a lavoratori e sindacati. Pensate agli scioperi degli operai dei grandi magazzini, degli insegnanti», spiega lo scrittore.
Negli ultimi mesi anche i dipendenti di colossi come Amazon e Starbucks hanno tentato di formare organizzazioni sindacali. In California, Oregon, Kansas, Illinois, Michigan, gli impiegati di grandi aziende hanno incrociato le braccia. Era dagli anni Settanta che i dipendenti non avevano così tanta voce in capitolo. È la scia in cui si inserisce il fenomeno della “Great Resignation”, la recente ondata di dimissioni che ha determinato una drammatica crisi di manodopera. Il record a novembre, quando quasi 4,5 milioni di americani, in cerca di migliori opportunità, si sono licenziati da settori come ospitalità, sanità, vendita al dettaglio, ma anche tecnologia e servizi. «Ne hanno avuto abbastanza: salari bassi, rischi, condizioni misere, per non parlare delle morti per Covid-19». Per Levitin, dunque, non ci sono dubbi: «Occupy ha cambiato completamente il modo in cui i lavoratori considerano il loro ruolo nell’economia. Guardate cos’è il movimento operaio oggi in America, con lavoratori che scioperano ovunque».
Negli accampamenti di Occupy, rammenta il giornalista, c’era la “generazione di Obama” che aveva creduto all’“audacia della speranza”, ma ne era poi rimasta ferita. La sua rivoluzione era un tassello incastrato in un anno straordinario a livello globale. Il vento della primavera araba aveva messo in subbuglio Egitto, Tunisia, Libia. Mentre in Europa, il gorgoglio più prepotente era quello degli Indignados in Spagna. Negli Stati Uniti, la rabbia era stata scatenata dai salvataggi degli istituti finanziari responsabili della recessione più tremenda dalla Grande Depressione, maturata tra il 2007 e il 2009, con nove milioni di posti di lavoro andati in fumo, 10 milioni di americani senza casa e molti di più svuotati dei risparmi.
I manifestanti urlavano il loro disgusto per Wall Street, le banche, le grandi aziende e la minoranza di paperoni nelle cui mani si concentrava la ricchezza: i macchinisti di un ingranaggio che si era bruscamente bloccato, costringendo milioni di individui a vivere in condizioni peggiori di quelle dei genitori. Obbligati a riempirsi di debiti per andare all’università, senza potersi permettere una buona assicurazione sanitaria, figurarsi una pensione. Manichea la loro visione: da una parte della barricata l’1 per cento degli ultra ricchi, dall’altra l’oramai famoso “99 per cento”.
Occupy ha portato all’attenzione del Paese battaglie e argomenti di cui i dem parlavano da anni, ma che non avevano mai conquistato il grande pubblico. Ha irrobustito l’ala progressista del Partito democratico, favorendo l’ascesa di figure radicali come Bernie Sanders ed Elizabeth Warren, fino a Alexandria Ocasio-Cortez e alla sua “Squad” di parlamentari. «Sanders, protagonista delle ultime primarie, ha edificato una base solidissima e appassionata tra i Millennial delusi dall’establishment. E Warren ha guidato i democratici nella proposta dell’Ultra-Millionaire Tax Act per milionari e miliardari».
Per Levitin l’influenza di Occupy è palpabile anche nello Studio Ovale. «Joe Biden, come qualsiasi politico, ha capito da che parte soffia il vento: il futuro del suo partito è giovane e multirazziale. Ha poi affidato a Sanders un compito fondamentale in Senato, quello dell’agenda economica». Sin dal primo giorno in carica, il presidente ha firmato ordini esecutivi che, tra le altre cose, fermavano l’oleodotto Keystone XL, congelavano il pagamento dei prestiti agli studenti, estendevano la moratoria degli sfratti, ripristinavano gli accordi di Parigi, rinvigorivano la tutela dei Dreamers e fermavano la costruzione del muro di confine con il Messico.
Quanto concretamente Occupy inciderà sui risultati nella politica americana, però, è ancora da vedere. Molto dipenderà dalle sorti dell’ambizioso pacchetto di investimenti diretti a welfare, educazione e clima da quasi duemila miliardi di dollari approvato alla Camera e in attesa di passare il vaglio del Senato. «Sarebbe come mettere un punto fermo», sintetizza Levitin. L’altra grande partita si gioca sul fronte ambientale. «I ventenni di allora, oggi ne sono i leader. Hanno imparato dagli errori di Occupy, ovvero non avere un’organizzazione, un piano, una politica, e hanno deciso consapevolmente di creare un movimento mirato, in grado di lavorare a una legislazione».
Oggi come allora fondamentale resta il ruolo di social e tecnologia. «Quella di Occupy è stata la prima generazione in live streaming, realmente attiva sui social network. Furono l’ingrediente magico; senza il video condiviso e diventato virale della polizia che attaccava con spray urticanti e picchiava un gruppo di donne, non avreste avuto Occupy». Internet ha favorito la diffusione organica, su scala globale. «Anche in Black Lives Matter, la condivisione di video e messaggi ha giocato un grande ruolo. Il rovescio della medaglia però è la disinformazione culminata con Trump, virus e vaccino. Non so quale sarà la prossima forma di organizzazione», ammette Levitin. Quel che è certo è che Occupy ha galvanizzato un’intera generazione. I Millennial hanno traghettato messaggio e metodi nelle lotte odierne, condividendoli con la Gen Z, diventata sempre più cosciente. Il paradigma di una nuova forma di attivismo. «Per loro protestare è “cool”. Oggi sai che difendere ciò in cui credi è la cosa giusta da fare», conclude Levitin: «I movimenti per la giustizia razziale, di genere, per il clima, per il lavoro, vanno insieme. La lotta continuerà, Occupy non è finito».