Scenari
«La Bielorussia non è Lukashenko: il popolo non vuole la guerra fratricida»
Oltre 800 persone sono state arrestate per aver protestato contro la guerra. Svetlana Tikhanovskaya chiama alla mobilitazione antimilitarista e chiede all'esercito bielorusso di non combattere. Intanto le associazioni in Europa inviano aiuti umanitari e offrono rifugio ai profughi
Una Kiev assediata e bombardata, sempre più città ucraine squarciate dai missili. Questo il clima in cui è iniziato il secondo round di negoziati tra Russia e Ucraina, che dovrebbero tenersi Brest, al confine tra Polonia e Bielorussia. La Bielorussia di Alexander Lukashenko, il padre padrone che stringe accordi con Mosca e ne ospita l’esercito, più per interesse personale che per tutelare il proprio Paese. Ma dietro Lukashenko e il suo sostegno a Putin, l’uomo che con il suo appoggio gli ha permesso di restare al potere, c'è un popolo che nella stragrande maggioranza non vuole questa guerra. E che ci tiene a far sentire la propria voce «Questa è una guerra fratricida, qualcosa che demolisce gli schemi e i valori della nostra cultura» dice Ekaterina Ziuziuk, dell’associazione bielorussi in Italia, Supolka. La sua posizione è chiara: «Ne siamo disgustati e siamo disgustati da questa alleanza: Lukashenko non rappresenta i bielorussi, perché non è stato eletto dal popolo, nell’agosto 2020 il popolo ha scelto Svetlana».
Proprio da Svetlana Tikhanovskaya, leader della resistenza e dell’opposizione bielorussa in esilio in Lituania, arriva la replica alle scelte strategiche di Lukaschenko e al suo annuncio di voler incrementare ancora il numero di truppe schierate al confine. Dalle sue pagine social, Tikhanovskaya chiama i bielorussi a una mobilitazione contro la guerra, per «proteggere l’indipendenza e la sovranità del nostro Paese, aiutare a fermare il conflitto, supportare l’Ucraina contro l’aggressione russa e restituire la Bielorussia ai suoi cittadini», perché ormai «la resistenza alla guerra in Ucraina e la lotta per la democrazia sono i due obiettivi di un grande unico movimento».
Nel manifesto del movimento di mobilitazione , in nome dei cittadini della Repubblica di Bielorussia, si esprime la netta opposizione alle operazioni militari, si chiede il ritiro delle truppe russe dal territorio bielorusso e la fine dell’aggressione all’Ucraina.
La Bielorussia infatti dal 10 febbraio, data di inizio di quelle che avrebbero dovuto essere solo “esercitazioni congiunte”, ospita il più grande contingente militare russo dai tempi della guerra Fredda, con oltre 30mila soldati, carri armati, aerei ed elicotteri.«Centinaia di carri armati entrano in Ucraina dai nostri confini e dalle basi in territorio bielorusso vengono lanciati missili» ha affermato Svetlana Tikhanoskaya.
L’esistenza di un’opposizione al dittatore era già evidente nel 2020, quando dopo le contestatissime elezioni vinte da Lukhaschenko, tre mesi di proteste pacifiche furono soppresse nella violenza con granate stordenti, torture e pestaggi brutali. Ma questa volta è diverso, e la situazione attuale potrebbe richiedere azioni e decisioni più difficili. Per questo Tikhanovskaya si rivolge direttamente ai militari e ai tanti giovani arruolati per il servizio di leva e mandati al confine: a loro chiede di rifiutarsi di combattere questa guerra o di passare dalla parte degli ucraini e poi alle loro madri che invita a non mandare i propri figli a morire in guerra
e infine a a tutti i cittadini perché facciano di tutto per interferire e rallentare la preparazione o l’entrata in guerra del regime.
All’interno del Paese sono già stati segnalati atti di sabotaggio: hacker di Anonymous e di Cyber Partizans, gruppo attivo da mesi contro il regime, fanno sapere di essersi inseriti nei sistemi ferroviari, per rallentare lo spostamento di truppe, e di aver compromesso siti istituzionali.
«Ognuno fa quello che può», dice Ekaterina, che racconta come, nonostante le migliaia di persone condannate per motivi politici, anche domenica scorsa, nel giorno del referendum, in tanti siano scesi in piazza, «per difendere l’onore del Paese che Lukashenko ha reso complice nell’abominevole “operazione speciale” di Putin». Il referendum del 27 febbraio si è svolto in un clima di brutale di repressione, che perdura ormai da due anni, e in assenza di osservatori internazionali. Oltre il 65% del popolo bielorusso avrebbe votato per estendere il mandato del presidente, garantirgli l’immunità a vita e per revocare lo status della Bielorussia di Paese denuclearizzato, aprendo di fatto all’ipotesi, già paventata, della presenza di armi nucleari russe sul suo territorio.
«Quando si parla di concetti come referendum, voto o esprimere la propria preferenza nel contesto bielorusso, le virgolette sono d’obbligo. Non riteniamo che questi risultati siano affidabili, anzi, dalle informazioni che abbiamo, siamo abbastanza certi che la maggioranza abbia reso nulle le schede», spiega la presidente di Supolka. Nella giornata di domenica sono state arrestate almeno 800 persone, secondo i dati riferiti dall’ong Viasna e almeno altre 60 lunedì solo a Minsk, per aver partecipato a proteste di vario titolo contro la guerra. Come la professoressa Natalia Dulina, una delle migliori italianiste in Bielorussia, o lo studente dell’università di Minsk, già arrestato e brutalmente pestato durante le proteste del 2020, che è andato a votare con una bandiera Ucraina sulle spalle ed è stato immediatamente portato via dalle forze di polizia.
Intanto nel resto d’Europa gli esuli bielorussi mostrano la loro solidarietà. «Siamo presenti a tutte le manifestazioni contro la guerra in Italia e so di tanti altri della diaspora bielorussa in Europa che hanno fatto la stessa cosa per far sentire forte la propria vicinanza» raccontano da Supolka. Si sono creati gruppi di solidarietà locali che offrono ospitalità e assistenza ai profughi ucraini, sia dall’Italia, che direttamente al confine polacco.
Moltissime sono anche le iniziative portate avanti delle comunità bielorusse in Italia per la raccolta e l’invio di aiuti umanitari: così ad esempio in Emilia-Romagna, Belinterpost, una ditta bielorussa che solitamente si occupa di spedizioni, ha sospeso l’attività regolare e ora dedica interamente il capannone e i suoi camion all’invio di aiuti in Ucraina. È diventata un punto di riferimento nella zona non solo per i bielorussi: «Sono in tanti a collaborare: sono ragazzi volontari bielorussi, ucraini, polacchi, italiani, che aiutano spesso fino alla sera tardi per poter inviare medicinali, cibo, vestiti e beni di ogni genere» racconta Inesa, titolare dell’azienda.
C’è poi chi ha deciso di unirsi alle legioni di volontari combattenti, racconta Ekaterina, mentre altri hanno chiesto di arruolarsi con l’esercito ucraino, ma sono stati rifiutati: «Non si fidano, hanno paura di infiltrati, lo capiamo ed è normale» spiega. Ma è proprio questo senso di sfiducia ciò che fa più male: «Mi dispiace molto per come i bielorussi sono visti oggi, così come quando ci rimproverano di non essere riusciti a togliere di mezzo un dittatore in due anni».
E alla domanda sul perché non ci siano riusciti, si risponde che le forze in campo erano sproporzionate. «Ci abbiamo provato, ma eravamo soli e ne abbiamo pagato il prezzo. Adesso il regime è indebolito, deve combattere una guerra vera oltre al dissenso interno, ma lo sono anche le proteste: molti oppositori hanno lasciato il Paese, molti altri sono in carcere, e in una condizione di continua repressione è umano avere paura». Poi però continua «Siamo con gli ucraini, siamo dalla loro parte con tutto il cuore e nei prossimi giorni torneremo in piazza». La necessità, sempre più urgente, è quella di ribadire che i bielorussi non sono Lukashenko: sono gli ostaggi di un dittatore, non i suoi complici.