A oltre vent’anni dalla fine del conflitto, la città è il simbolo dei nodi irrisolti: due popoli, due lingue. E il conflitto a Est riaccende la tensione

Il primo pilastro di cemento rappresenta la popolazione albanese, il secondo quella serba: insieme sostengono un cilindro tagliato a metà che ricorda il carrello usato in miniera e svetta da cinquant’anni sulla città di Kosovska Mitrovica, capoluogo del nord del Kosovo, a ricordo dei partigiani della Rudarska ceta, il battaglione di minatori che combatté contro le forze nazifasciste al fianco dell’Esercito popolare di liberazione della Jugoslavia negli anni della Seconda guerra mondiale. Progettato dall’architetto Bogdan Bogdanović, poi sindaco di Belgrado, il monumento comprendeva delle decorazioni in rame di cui non rimane più traccia. La manutenzione scarseggia e la città su cui la scultura si allunga dall’alto di una collina, in omaggio all’unità antifascista, è una città divisa.

 

A più di venti anni dalla fine della guerra in Kosovo, Mitrovica è la raffigurazione del nodo irrisolto del conflitto: il fiume Ibar che l’attraversa relega la popolazione albanese e quella serba ognuna alla propria porzione di città e sulle due etnie l’isolamento e la disillusione nei confronti del futuro pesano come i pilastri del monumento.

Dal 1999, anno in cui sono cessati i combattimenti tra l’esercito jugoslavo e il movimento di liberazione del Kosovo per definire lo status della regione, allora provincia autonoma della Serbia compresa nella Repubblica federale di Jugoslavia, i soldati della missione di pace guidata dalla Nato non hanno mai lasciato il territorio, abitato in prevalenza da cittadini di etnia albanese e serba: un territorio attraversato oggi da nuove inquietudini a causa della guerra in Ucraina.

 

Afardita Sylaj Shehu è una sfollata nella sua città: come lei, tanti sono stati costretti a lasciare la casa in cui vivevano per trasferirsi nella zona che alla fine del conflitto è diventata sinonimo di appartenenza etnica, i serbi a nord e gli albanesi a sud del fiume. «Era troppo pericoloso rimanere nel lato serbo, per me che sono di etnia albanese. Alcuni abitanti sono riusciti almeno a vendere le proprie case, ma molte altre sono state occupate», spiega seduta a un tavolino nella zona sud, mentre il richiamo alla preghiera da un minareto poco lontano sovrasta la sua voce. «La guerra in Ucraina ha risvegliato la paura di una nuova destabilizzazione nei Balcani: ma da tempo il nostro futuro è un punto interrogativo».

Lars Berg/laif

Prima della guerra, quando la maggior parte della forza lavoro era occupata nelle miniere che rifornivano la Jugoslavia intera di piombo e zinco, Mitrovica era una città prospera e multiculturale: nel condominio di Afardita, le famiglie albanesi vivevano accanto a quelle serbe e alla miriade di comunità che popolano il Kosovo, come i bosgnacchi, i rom e i gorani. Durante le festività musulmane, il “baklava”, dolce tipico, girava di mano in mano tra i vicini, a prescindere dalla loro fede di appartenenza. «Poi la politica e i nazionalismi hanno distrutto tutto, ma almeno oggi non è più così pericoloso attraversare il ponte».

 

Nel 2004, gli scontri tra le due etnie causarono 14 morti. Oggi, sul ponte che unisce le due zone, una camionetta dei carabinieri impegnati nella missione di peacekeeping sbarra l’accesso alle macchine: alcuni cani randagi sonnecchiano all’ombra del veicolo, e sorvegliano il viavai dei pedoni di lato al cartello che ricorda la recente manutenzione, avvenuta con i fondi dell’Unione europea. Entrambe le zone ostentano la loro simbologia di appartenenza: nel lato sud, abitato da 70mila persone, le bandiere dell’Albania con l’aquila bicipite nera incorniciano le statue degli eroi nazionali morti nelle file dell’Esercito di liberazione del Kosovo, l’Uck, e dalle pareti dei palazzi le sagome disegnate dei combattenti si affacciano sulle strade.

 

Superato il ponte, la via principale di Mitrovica nord, popolata da 12mila cittadini, sembra quella di un Paese perennemente in festa nel giorno dell’indipendenza: le bandiere serbe sventolano da un capo all’altro della via, gli altarini incisi a caratteri cirillici con i nomi dei caduti durante il conflitto spuntano agli angoli delle strade e altri volti di combattenti, ugualmente giovani, colorano le pareti degli edifici. Sulla piazza, il principe Lazar, sconfitto nella Piana dei Merli dall’Impero ottomano nel 1389 e protagonista indiscusso della mitologia serba, punta il suo indice verso un’indefinita vittoria: per Belgrado, allude al Kosovo da riconquistare, la “culla” della propria identità.

 

Da quando ha perso il controllo sulla regione a seguito della campagna di bombardamenti della Nato durata undici settimane, la Serbia non riconosce l’indipendenza del Kosovo e finanzia nella zona nord di Mitrovica un sistema statale parallelo. Dalla gestione dell’impianto idrico, a quello del riscaldamento e del catasto, le due zone fanno capo a comuni distinti.

 

In rare occasioni, i cittadini si spostano a sud per approfittare delle offerte dei grandi supermercati, o nella zona serba per bere nei locali, dove le mance non vengono lasciate in euro, moneta corrente in Kosovo, ma in dinari serbi. Superato il fiume, permane però l’ostacolo più grande: le generazioni nate dopo il conflitto non conoscono la lingua parlata dai coetanei al di là del ponte, perché a scuola studiano solo la lingua della propria comunità, rispettivamente il serbo e l’albanese. «Anche se abitano a pochi metri di distanza, non possono comunicare tra loro», spiega Afardita, che con la ong Community Building Mitrovica organizza corsi di inglese.

 

La sua generazione, formatasi a scuola durante il periodo jugoslavo, ha studiato il serbo-croato e può muoversi in città comprendendo cosa viene detto dai vicini. «Oggi invece molti ragazzi non hanno mai visitato la zona opposta: insegniamo l’inglese perché vogliamo favorire l’incontro attraverso una lingua comune».

 

Dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo nel 2008, molti Paesi occidentali hanno riconosciuto il neo-Stato, al contrario di potenze come Cina e Russia, storica alleata della Serbia. Dall’inizio della guerra in Ucraina, non sono mancati i momenti di tensione tra il governo di Belgrado e quello di Pristina, che più volte ha ricordato «il pericolo» per la regione rappresentato dalle «mire della Serbia», mentre il rinnovato desiderio del Kosovo di aderire alla Nato è stato definito a sua volta una «aperta minaccia» dal governo di Belgrado.

 

Già lo scorso autunno il confine tra i due Paesi è stato teatro di scontri a causa della decisione di Pristina di non riconoscere più le targhe serbe in circolazione, presenti numerose nella parte settentrionale di Mitrovica.

 

«Il rischio di una nuova spirale di violenze esiste, ma è mitigato dalla presenza delle forze internazionali e dal fatto che la Serbia è candidata a entrare nell’Unione europea», commenta Arber Fetahu, dell’osservatorio Group for legal and political studies. «A sua volta la guerra in Ucraina potrebbe essere un incentivo per Bruxelles a spingere sulla ripresa dei negoziati tra i due Paesi, in stallo da tempo».

 

Caleb Waugh è giunto dagli Stati Uniti otto anni fa per lavorare con la ong Aktiv nella zona serba, e si è integrato presto nella città, tanto da accogliere i visitatori con un bicchierino di rakija, il distillato di benvenuto nelle case dei Balcani. «Il sentimento filorusso è presente, ma a prevalere tra gli abitanti del nord è soprattutto il senso di abbandono: si sentono cittadini di seconda classe, ignorati dal neo-Stato, e strumentalizzati da Belgrado durante i negoziati», spiega.

 

Non lontano dalla sede di Aktiv, nel 2018 Oliver Ivanović, leader del partito locale serbo Sdp, è stato assassinato da ignoti davanti al suo ufficio: promotore del dialogo tra le due etnie, rappresentava l’eccezione in un panorama sempre più asfittico. La Lista Serba, formata nel 2014 e considerata oggi il braccio locale del partito del presidente serbo Aleksandar Vučić, è diventata di fatto l’unica espressione politica nei dieci comuni a maggioranza serba del Kosovo. Tra questi, Mitrovica nord si distingue per il basso tasso di occupazione e l’alto numero di lavoratori nelle istituzioni finanziate da Belgrado: una dipendenza che, secondo una ricerca di Aktiv, porterebbe il 70 per cento dei cittadini a non sentirsi libero di esprimere in pubblico le proprie opinioni, per paura di perdere il posto di lavoro.

 

Quando aveva visto i suoi colleghi minatori scioperare contro le politiche di Milošević nel 1989, il signor Dragan non aveva potuto prevedere che quello sarebbe stato l’inizio della fine. «Ci fu la guerra, ma poi molte famiglie si illudevano di tornare nelle miniere che invece non sono mai davvero ripartite: Serbia e Kosovo si litigano pure quelle, e noi nel frattempo siamo qui a marcire», racconta seduto sul sagrato della chiesa di San Demetrio, nel nord della città, accettando di figurare solo con il proprio nome. In attesa di una soluzione al problema dei valichi, i due Paesi hanno concordato di apporre degli adesivi sulle targhe delle macchine che attraversano il confine. «La nostra vita è tutta scandita da misure temporanee. L’adesivo è una toppa: quanto può durare? Prima o poi quello che viene nascosto riemergerà».