Il caso
Le sanzioni mettono a rischio anche il pellet
La Russia è il terzo esportatore mondiale del biocombustibile. Le azioni intraprese in seguito all’invasione dell’Ucraina sono un altro colpo al fabbisogno continentale, ma a pagare il conto più salato saranno i paesi nord-europei
Vyborg, ottantamila abitanti, regione di Leningrado, Russia europea, a 30 chilometri di distanza via terra dalla Finlandia. Sulla soglia del confine con l’Unione europea, c’è uno dei più grandi impianti per la produzione di pellet al mondo: sulla carta è in grado di realizzare circa un milione di tonnellate all’anno di cilindretti di legno vergine pressato.
Visto il loro potere calorifero, quasi doppio rispetto alla normale legna da ardere, sono molto richiesti, sia dal comparto industriale, sia da quello domestico. Con questo combustibile vegetale ricavato dagli alberi, l’Europa del nord ci alimenta da tempo centrali elettriche e impianti per il teleriscaldamento. In Gran Bretagna, una vecchia centrale a carbone nello Yorkshire è stata, ad esempio, convertita a pellet.
Dalla Russia, i sacchi di questo biocombustibile arrivano anche in Italia, dove però vengono usati quasi esclusivamente nel comparto domestico (stufe e caldaie). La conversione delle centrali a carbone italiane, a differenza del Nord Europa, è del resto avvenuta a favore del gas naturale che garantisce il 42,5 per cento del fabbisogno energetico, secondo i dati dell’Ispi, Istituto per gli studi di politica internazionale, il 38,2 per cento del quale di provenienza russa.
Da quando Mosca ha capito che la sviluppata Unione europea ha sete di energia, Vladimir Putin ha fatto monetizzare il più possibile anche gli alberi. E la Russia è il Paese più ricco di legname al mondo: 800 milioni di ettari di foreste, all’incirca il 20 per cento di quelle globali. Il 17 per cento di tutto il legname russo si trova proprio nella regione di Leningrado, dove le foreste di conifere ricoprono oltre la metà del territorio.
E prima dell’invasione russa dell’Ucraina, in cima all’export di pellet russo c’erano la regione di Leningrado e l’area nord-occidentale del Paese che ha quasi la metà dei 600 impianti di produzione con seimila addetti. L’Unione era tra i clienti, dal momento che la produzione autonoma copre il 70 per cento della domanda.
Era, appunto. Perché dall’inizio del conflitto alcuni organismi di certificazione hanno sospeso il rilascio dei nulla osta di sostenibilità per il pellet prodotto in Bielorussia e Russia. Mentre l’Ue, con i propri pacchetti di sanzioni, ha imposto lo stop alle importazioni: il 4 giugno è stato bloccato totalmente quello prodotto da Minsk e il 10 luglio anche quello proveniente da Mosca. Ci sarebbe il pellet dell’Ucraina che però non può né produrlo per via della guerra, né esportarlo via mare, al pari del grano, dal momento che la Russia blocca i porti sul Mar Nero e per liberarli chiede l’eliminazione delle sanzioni internazionali.
Così c’è anche questo capitolo nel libro della crisi energetica e alimentare mondiale innescata dall’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio scorso. Ci sono ricadute, ovviamente, anche sull’economia russa per un comparto che piazza il Paese al terzo posto nell’export, dopo Stati Uniti e Canada, con un bacino prevalente, pari quasi al 90 per cento, in Europa. «Nel 2021 abbiamo esportato 2,4 milioni di tonnellate di pellet. I principali clienti sono Danimarca, Svezia, Paesi Bassi, Regno Unito, Belgio, Finlandia, Germania, Francia, Lituania ma anche la Corea del Sud e, naturalmente l’Italia», spiegano a L’Espresso i rappresentanti della United bionergy association (Uba), sigla di categoria con sede a San Pietroburgo, che rappresenta circa 45 produttori, commercianti, fornitori di servizi e associazioni di consumatori del settore. Secondo gli ultimi dati di Uba solo i loro associati viaggiavano con forniture che vanno dalle 435 mila tonnellate della Danimarca alle 60 mila italiane.
Nel nostro Paese, lo scorso anno, «sono state consumate 11,37 milioni di tonnellate di legna da ardere, 3,35 milioni di pellet e 1,36 milioni di cippato (scaglie e particelle)», spiega l’Associazione italiana energie agroforestali. L’Aiel, sede operativa a Legnaro, nel Padovano, 500 imprese della filiera legno-energia nazionale rappresentate, fa un paio di conti: «Produciamo in Italia tra le 400mila e le 450mila tonnellate l’anno di pellet. Circa l’85 per cento del nostro consumo è basato su materiale importato dall’estero, da Paesi comunitari o extracomunitari». Tra i quali per l’appunto ci sono anche Russia, Bielorussia e Ucraina.
In base alle statistiche e ai dati dei flussi commerciali internazionali presenti nel database gratuito Un Comtrade, ancora nel 2021 in Italia sono state importate 102.860 tonnellate di pellet dalla Federazione Russa; 16.913 dall’Ucraina e 1.555 dalla Bielorussia che hanno coperto il 3,6 per cento dei consumi nazionali. Ma sono dati da maneggiare con cura, dal momento che, come avverte l’Associazione italiana energie agroforestali «persino i dati doganali sono spesso incerti e imprecisi». Quindi, «più realisticamente», l’Aiel stima a L’Espresso che, «nel 2020, le forniture di pellet proveniente da Russia, Bielorussia e Ucraina siano state poco più del 10 dieci per cento del totale consumato in Italia». Destinato «quasi esclusivamente al segmento domestico e solo per una piccola quota (5 per cento) a quello commerciale.
Se lo stop alle importazioni in Italia incide per percentuali non altissime, a rischiare di patire le maggiori conseguenze è il nord del Continente. E per converso gli impianti russi, realizzati anche con il concorso di società europee. Come il maxi stabilimento di Vyborg della Vlk Llc. Attivo dal settembre 2010, realizzato dalla conversione della cartiera Vyborgskaya Cellulose (Ojsc), finanziato, secondo la rivista specializzata svedese Bioenergy International, dalla filiale francese della banca Vtb (una delle più grandi della Russia) e con attrezzature da 40 milioni di euro dell’austriaca Andritz. Dotato di un porto con 300 metri di banchine per l’attracco simultaneo di quattro navi, Vyborg ha un deposito per il legname da lavorare grande 25 ettari. E la sua storia è costellata da scandali e critiche, soprattutto sul fronte della sostenibilità ambientale da parte di numerose organizzazioni indipendenti.
Per impossessarsi di quella che allora era solo una cartiera, l’ex senatore ed influente imprenditore di San Pietroburgo Alexander Sabadash, nel 1998, aveva assaltato gli stabilimenti con tanto di forze speciali al seguito per contrastare i picchetti degli operai. I lavoratori ebbero la meglio, prendendolo anche in ostaggio e ritardarono di due anni la ristrutturazione. Nel 2014 è finito in carcere per frode fiscale e da allora il Cremlino ne ha assunto il controllo proseguendo gli affari con l’Europa. Fino al 24 febbraio.